Redazione R

|2r| Di messer Gio. Battista Ramusio prefatione sopra il principio del libro del magnifico messer Marco Polo.

All’eccellente messer Hieronimo Fracastoro.

[1] In quanta stima fusse appresso gli antichi, eccellente messer Hieronimo, la scientia che tratta di questo mirabil globo della terra, che si chiama geographia, da questo si può comprendere, che essendovi bisogno di gran dottrina et contemplatione per venir alla cognitione di quella, tutti i più letterati huomini ne volsero scrivere, et il primo fu Homero, qual non seppe con altra forma di parole esprimer un huomo perfetto et pieno di sapientia che dicendo ch’egli era andato in diverse parti del mondo et haveva vedute molte città et costumi de’ popoli: tanto la cognition della geographia gli pareva atta a far un huomo savio et prudente. [2] Ne scrissero dopo lui molti altri auttori greci, et fra gli altri Aristotele ad Alessandro, et Polibio maestro di Scipione, et Strabone molto copiosamente, il libro del quale, et di Tolomeo alessandrino, son pervenuti all’età nostra; appresso de’ Latini, Agrippa genero d’Augusto, Iuba re di Mauritania et molti altri, le fatiche de’ quali si sono smarrite col tempo, né si sa altro di loro se non quanto si legge nei libri di Plinio, che anchor egli ne scrisse. [3] Di tutti i sopranominati, Tolomeo, per esser posteriore, n’hebbe maggior cognitione, percioché verso di tramontana trapassa il mar Caspio et sa che gli è come un lago serrato d’intorno: la qual cosa al tempo di Strabone et di Plinio, quando i Romani eran signori del mondo, non si sapeva. [4] Pur anchora con questa cognitione, oltra il detto mare per gradi quindici di latitudine mette terra incognita, et il medesimo fa verso il polo Antartico, oltra l’equinoziale. |2v| [5] Delle qual parti, quella verso mezzogiorno i capitani portoghesi a’ tempi nostri prima di tutti hanno scoperta; quella verso tramontana et il magnifico messer Marco Polo, honorato gentilhuomo venetiano, già quasi trecento anni, come piú copiosamente si leggerà nel suo libro. [6] Et veramente è cosa maravigliosa a considerare la grandezza del viaggio che fecero prima il padre et cio di esso messer Marco fino alla corte del Gran Cane imperatore de’ Tartari, di continuo camminando verso greco levante, et dapoi tutti tre nel ritorno, nei mari orientali et dell’Indie. [7] Et oltra di questo, come il predetto gentilhuomo sapesse cosí ordinatamente descrivere ciò che vidde, essendo pochi huomini di quella sua età intelligenti di simil lettere et cognitione, et egli allevato tanto tempo appresso quella rozza natione d’i Tartari, senza molta copia d’eloquentia et di stile. [8] Il libro del quale, per causa d’infinite scorretioni et errori, è stato molte decine d’anni riputato favola, et che i nomi delle città et provincie fussero tutte fittioni et imaginationi senza fondamento alcuno, et per dir meglio sogni. [9] Ma da cento anni in qua si è cominciato, da quelli che han praticato nella Persia, pur a riconoscere la provincia del Cataio; poi la navigatione de’ Portoghesi, oltra l’Aurea Chersonesso, verso greco han discoperto prima molte città et provincie dell’India et molte isole, con i medesimi nomi che ’l detto autor gli chiama; poi, havendo passata la regione della China, sono venuti in cognitione (come narra il signor Giovan di Barros, gentilhuomo portoghese, nella sua Geographia, havuta da’ popoli della China) che la città di Cantone, una delle principali del regno della China, è in gradi trenta et due terzi di latitudine, et corre la costa greco garbino; oltra ciò, che passando 275 leghe la detta costa gira verso maestro, et che le provincie che sono appresso il mare sono tre, cioè Mangi, Zanton et Quinsai, qual è anche la principal città dove dimora il re, et è in quarantasei gradi di latitudine; et passando anchor piú oltre, la costa corre fino a gradi cinquanta. [10] Hor, veduto che tante particularità al tempo nostro di quella parte del mondo si scuoprono della qual ha scritto il predetto messer Marco, cosa ragionevole ho giudicato di far venir in luce il suo libro, col mezzo di diversi esemplari scritti già piú di dugento anni, a mio giudicio perfettamente corretto et di gran lunga molto piú fidele di quello che fin hora si è letto, acciò ch’il mondo non perdesse quel frutto che da tanta diligentia et industria intorno cosí honorata scien|3r|tia si può raccogliere, per la cognitione che si piglia della parte verso greco levante, posta dagli antichi scrittori per terra incognita. [11] Et benché in questo libro siano scritte molte cose che pareno fabulose et incredibili, non si deve però dargli manco fede nell’altre ch’egli narra, che son vere, né imputargli per cosí grande errore, percioché referisce quello che gli veniva detto. [12] Et chi leggerà Strabone, Plinio, Herodoto et altri simili scrittori antichi, vi troverà di molto piú maravigliose et fuor d’ogni credenza. [13] Ma che diremo degli scrittori de’ nostri tempi, che narrano dell’Indie Occidentali, trovate per il signor don Cristophoro Colombo? [14] Non dipingono monti d’oro et d’argento incredibili? arbori, frutti et animali di forma maravigliosa? [15] Et pur dell’oro et argento non s’ingannano, et l’età nostra l’ha con suo grave danno sentito, per le tante guerre state tra’ principi christiani. [16] Degli animali, frutti et arbori, ogn’hora ne vengono copiosamente portati in Italia, et si conosce che hanno scritto la verità. [17] Et sopra l’altre, la grandezza della città di Quinsai, nella provincia di Mangi, non si vede esser simile alla gran città di Temistitan della Nuova Spagna, trovata per il signor Hernando Cortese, dove erano i palazzi et giardini del re Mutezuma, cosí grandi et famosi? [18] Et molte volte ho fra me stesso pensato, sopra il viaggio fatto per terra da questi nostri gentilhuomini venitiani, et quello fatto per mare per il predetto signor don Cristophoro, qual sia piú maraviglioso et stupendo: et se l’affettione della patria non m’inganna, mi pare che per ragion probabile si possa affermare che questo fatto per terra debba esser anteposto a quello di mare, dovendosi considerare una tanta grandezza d’animo con la quale cosí difficile impresa fu operata et condotta a fine, per una cosí disperata lunghezza et asprezza di camino, nel qual, per mancamento del vivere, non di giorni ma di mesi, era loro necessario di portar seco vettovaglia per loro et per gli animali che conducevano; là dove il Colombo, andando per mare, portava commodamente seco ciò che gli faceva bisogno molto abondantemente, et in 30 o 40 giorni col vento pervenne là dove disegnava; et questi stettero un anno intero a passar tanti deserti et tanti fiumi. [19] Et che sia piú difficile l’andar al Cataio ch’al Mondo Nuovo, et piú pericoloso et lungo, si comprende per questo, che essendovi stati due volte questi gentilhuomini, alcuni di questa nostra parte di Europa non ha dipoi havuto ardire d’andarvi; dove che, l’anno sequente che si scopersero queste Indie |3v| Occidentali, immediate vi ritornarono molte navi, et ogni giorno al presente ne vanno infinite ordinariamente; et sono fatte quelle parti cosí note, et con tanto commertio, che maggior non è quello ch’è hora fra l’Italia, Spagna et Inghilterra. [20] Hor, venendo alla prima parte del primo libro (che ivi dentro è chiamata da messer Marco il proemio del presente libro), confesso ingenuamente che mai non haverei inteso quel viaggio primo, che fecero alla corte di quel signor de’ Tartari occidentali messer Mafio et messer Nicolò, il padre di messer Marco, et poi a quella del Gran Cane, se la buona fortuna non mi havesse li mesi passati fatto capitar alle mani una parte d’un libro arabo, ultimamente tradotta in latino per un huomo di questa età ben intendente di molte lingue, composto già dugento et piú anni da un gran principe di Soria detto Abilfada Ismael, correndo gli anni de Lhegira 715, ch’è il millesimo de’ Turchi, qual hora, del 1553, corre 950: del quale non credo dover esser a noia a’ lettori se alcune cose brevemente narrerò, le quali degne di notitia ho riputate. [21] Questo principe si trovò quasi d’intorno a’ tempi medesimi de’ prefati tre gentilhuomini, per quello che da’ suoi scritti si può ancho vedere, sapeva molto ben le cose di philosophia et d’astrologia, et volse anchora egli far, al modo delle tavole di Tolomeo, una particolar descrittione di tutte le parti del mondo che al suo tempo si conoscevano. [22] Et a questo effetto ridusse, come in un compendio, tutto quello che già haveano scritto molti auttori arabi de’ gradi delle longitudini et latitudini di dette parti; nel qual compendio non seguita l’ordine di Tolomeo, anchor che lo citi, perché l’havea tradotto in arabo, ma tiene un altro modo: conciosiacosaché, tirando alcune linee per lungo et per traverso, et dividendole in parti eguali come areole, immediate ne fa appresentar agli occhi prima il nome della città, poi di ciascuno che scriva di quella, et appresso la varietà de’ gradi, sí di longitudine come di latitudine, clima, provincia, et in ultimo una brevissima et molto succinta descrittion di quella. [23] Ordine veramente bellissimo et risoluto, ch’è proprio et peculiare degli scrittori arabi, perché il medesimo fece Avicenna nel secondo libro, dove tratta dell’herbe, che mette prima il nome di quelle, poi la descrittione et in ultimo le virtú et malatthie alle quali sono appropriate. [24] Hor questo libro di geographia non è tradotto tutto, ma vi manca la maggior parte delle commentationi sopra ciascuna provincia: che se fosse tutto lati|4r|no, haveremmo una geographia particolar delle parti di Asia et Africa delle quali si haveva notitia a’ suoi tempi, et saperemmo i nomi delle provincie, città, monti, fiumi et mari, come al presente si chiamano, co’ gradi delle longitudini et latitudini, secondo che vengono scritte da questi auttori arabi, cioè Attual, Canon, Bensidio, Resum, Cusiro, et poi Tolomeo; che, scontrandoli col detto, si haveria piú certa cognitione di molti nomi antichi, citati nell’historie di Alessandro et Strabone, che hora si vanno conietturando, che sarebbe una delle belle et rare cose che si potessero veder a questi tempi. [25] Qual auttore nelle longitudini non comincia dall’Isole Fortunate, come fa Tolomeo, ma dalli primi liti delle marine di Africa, et dice essere differente dieci gradi di quello che fa Tolomeo. [26] Et però sempre il lettor advertisca, nelle longitudini che qui a basso si citaranno del detto, volendole confrontar con quelle di Tolomeo, di batterne giú dieci gradi. [27] Ma a far questo cosí gran beneficio al mondo sarebbe necessaria la liberalità di qualche gran principe, che lo volesse far venir in luce fornito: che non gli apportaria forse minor gloria, et piú stabile et fissa negli animi degli huomini et di tutta la posterità, di quella che può nascere da’ grandi imperii et trionfi acquistati coll’armi. [28] Ma, ritornando al principio del libro che da messer Marco è chiamato per proemio, dice messer Marco che, partiti suo zio et padre da Constantinopoli, navigarono per mar Maggiore ad un porto detto Soldadia, et non vi mette il nome della provincia: et anchor che in alcuni libri sia scritto di Armenia, in quelli nondimeno che mi sono capitati nelle mani, antichissimi et scritti già centocinquanta anni, non vi è altro che Soldadia. [29] Et di qui presero il camino per terra alla corte d’un gran signor de’ Tartari occidentali detto Barca. [30] Hor nel suo libro il sopradetto Ismael, descrivendo le provincie che circondano il mar Maggiore della parte di tramontana, et la Taurica Chersonesso, dove è la città di Caffa, dice che la provincia di Chirmia ha tre città, una detta Sogdat, l’altra Zodat, et Caffa, et che Sogdat corre maestro ponente rispetto a Caffa, ch’è posta verso levante; qual Sogdat è in gradi cinquantasei di longitudine et cinquanta di latitudine. [31] Seguita poi che Comager è una provincia nel dominio de’ Tartari di Barca, fra la Porta di Ferro et la città di Asach, cioè rispetto alla detta Porta è verso ponente, ma rispet|4v|to ad Asach è verso levante. [32] Continua anchora dicendo che vi è un’altra provincia, detta Elochzi, fra li Tartari di Barca et li Tartari meridionali di Alaú, dove è la città di Iachz, i popoli della quale passano per la Porta di Ferro. [33] Parlando poi della palude Meotide, la qual si chiama mar el Azach, dice che dalla parte di levante è la città di Eltaman con la provincia, la qual è il fine del reame Barca. [34] Da tutte queste cose scritte per questo sultan Ismael si vien in cognitione che sopra la Taurica Chersonesso, dove è Gazaria et Caffa, vi è la città di Sogdat, la qual al presente col porto si chiama Soldadia. [35] Appresso, che del regno di Barca era la provincia di Comager, che è la Cumania, provincia grandissima nella qual vi è la città di Azach, cioè Assara: il che conferma il libro di Ayton Armeno, che dietro messer Marco Polo si leggerà. [36] Dipoi, che vi erano li Tartari di Barca occidentali et quelli di Alaú meridionali, che passavan per la Porta di Ferro, la qual è quella che al presente si chiama Derbent, che (come dicono) fu fabricata da Alessandro Magno appresso il mar Hircano, tal che il fin del regno di Barca era verso la parte di levante che circonda la palude Meotide, cioè di Zabacche. [37] Di sorte che ’l camino di questi duoi gentilhuomini è questo: che, partiti di Constantinopoli, navicano per il mar Maggiore alla Taurica Chersonesso, che è l’isola attaccata con la terra ferma, lunga ventiquattro miglia et quindici larga, dove è il porto di Soldadia, appresso Caffa; et dapoi per terra vanno a trovar quel signor de’ Tartari detto Barca nella Cumania, dove è la città di Assara; et fatto il fatto d’arme fra detto Barca et Alaú, della qual sconfitta ne fa ancho mention il sopradetto Ayton Armeno, non possendo ritornar indietro per la detta causa, convengono andar per la Cumania tanto verso levante che circondassero il regno di Barca et venissero ad Ouchacha, che è città nel confini della Cumania verso la Porta di Ferro, et ne fa mention detto messer Marco in questo primo libro due volte: et questa via fanno i popoli Cercassi volendo venir nella Persia. [38] Passata questa Porta di Ferro, passano ancho il fiume Tigris, che Ayton Armeno chiama Phison, quando parla di Sodochi figliuol di Occotacan che conquistò la Persia Minore, et che ’l suo successore si chiama Barach. [39] Hor questi duoi fratelli, passato il Tigris et un deserto, arrivano alla città di Bochara, della qual era signor il sopradetto Barach. [40] Questa città di Bochara, secondo Ismael sultan, è in |5r| gradi ottantasei et mezzo di longitudine et trentanove et mezzo di latitudine, et è la patria dove nacque Avicenna, che fra li medici, per la sua eccellente dottrina, vien chiamato il principe infino alli tempi nostri: et questo è quanto appartien alla intelligentia della prima parte di questo proemio. [41] Da Bochara poi vengono condotti alla volta di greco et tramontana alla corte del Gran Can, dal qual son poi mandati ambasciadori al papa; et ritornando in qua pervengono al porto della Ghiazza, nell’Armenia Minore, che anticamente si chiamava Issicus Sinus, che risponde per mezzo l’isola di Cipro. [42] Et indi per mare vennero nella città di Acre, che si teneva allhora per i christiani, et latinamente è chiamata Acca et Ptolemais, dove si trovava legato della sede apostolica messer Thebaldo de’ Visconti da Piacenza, qual (come narra il Platina nelle vite de’ pontifici) in luogo di Clemente quarto fu fatto papa, et chiamossi Gregorio decimo, ove dice che al tempo di costui alcuni principi tartari, mossi da l’auttorità sua, si fecero christiani. [43] Questi due fratelli, come nel detto proemio si racconta, partiti di Acre andarono a Venetia, dove tolto seco messer Marco, l’autor di questo libro, di nuovo ritornarono in Acre; et quivi presa la benedittione del papa nuovamente creato, qual era stato insino allhora legato, et tolti in sua compagnia due frati predicatori per condurli al Gran Cane, come furono in Armenia la trovarono perturbata per la guerra mossa da Benhocdare, soltan di Babilonia, del qual ne scrive ancho l’auttor armeno. [44] Della navigation poi che fecero nel suo ritorno verso l’India con la regina assegnata per moglie del re Argon, et da che porto della provincia del Cataio et di Mangi si partissero, non si può dire cosa alcuna, perché non lo nominano. [45] Ma ben al presente si sa che da’ porti di dette provincie venendo verso levante, et poi voltando verso siroco et mezzodí, si vien nell’Indie, come nelle tavole della Geographia del signor Giovan de Barros portughese si potrà copiosamente vedere. [46] Quivi giunti, trovarono che ’l re Argon era morto, et che, per esser suo figliuolo Casan giovane, uno nominato Chiaccato governava il regno: Hayton Armeno il chiama Regaito. [47] Par poi che andassero a trovar detto Casan nelle parti dell’Arbore Secco, nei confini della Persia; qual Casan, come si leggerà nel predetto Hayton Armeno, divenne grandissimo capitano di |5v| guerra. [48] L’Arbore Secco è nella provincia di Timocain, come nel vigesimo capitolo del primo libro da lui viene piú copiosamente descritto. [49] Ritornati poi a Chiaccato per haver la sua espeditione, hebbero le quattro tavole d’oro, per virtú delle quali furono accompagnati securamente fino in Trabesonda: et questo perché Tartari dominavano et havevano tutti i signori tributarii loro fino al mar Maggiore, anchor che fussero christiani. [50] Che volta veramente pigliassero partendosi dal Chiaccato a far il detto viaggio, non si può se non per conietture pensare che, partiti dal regno del detto re Argon, dove stava questo Chiaccato, che poteva esser uno di quelli regni che sono fra terra sopra il fiume Indo, se ne venissero per mare fino nel sino Persico all’isola di Ormus, et smontati sopra la provincia della Carmania, la qual nel libro si chiama Chermain, tenessero poi per quella banda il camino verso la Persia, conciosiacosaché si vede detto auttore far molta mentione dell’isola di Ormus, delle città et terre di Chermain, fino nella Persia; la qual egli non poteva haver veduta nel viaggio che fece dal porto della Ghiazza alla corte del Gran Cane, ma ben in questo suo ritorno. [51] Et della Persia vennero verso il mar Maggior a Trabesonda, et poi a Constantinopoli, Negroponte, et ultimamente a Venetia. [52] Dove giunti che furono, intravenne loro quel medesimo che avenne ad Ulisse che, dapoi venti anni tornato da Troia in Ithaca sua patria, non fu conosciuto da alcuno: cosí questi tre gentilhuomini, dapoi tanti anni ch’erano stati lontani dalla patria, non furono conosciuti da alcuno dei suoi parenti, i quali sicuramente pensavano che fussero già molti anni morti, perché cosí anche la fama era venuta. [53] Si trovavan questi gentilhuomini, per la lunghezza et sconci del viaggio, et per le molte fatiche et travagli dell’animo, tutti tramutati nella effigie, che rappresentava un non so che del tartaro nel volto et nel parlare, havendosi quasi dimenticata la lingua venetiana. [54] Li vestimenti loro erano tristi et fatti di panni grossi, al modo de’ Tartari. [55] Andarono alla casa loro, la qual era in questa città nella contrada di San Giovan Chrisostomo, come anchora hoggidí si può vedere, che a quel tempo era un bellissimo et molto alto palagio, et hora è detta la corte del Millioni, per la causa (come qui sotto si narrerà) del detto messer Marco: et trovarono che in quella erano entrati alcuni suoi parenti, alli quali hebbero grandissima fa|6r|tica di dar ad intendere che fussero quelli che erano, perché, vedendoli cosí trasfigurati nella faccia et mal in ordine di habiti, non potevano mai credere che fussero quei da Ca’ Polo, che haveano tenuti tanti et tanti anni per morti. [56] Hor questi tre gentilhuomini (per quello che n’ho udito molte fiate a dire dal magnifico messer Gasparo Malipiero, gentilhuomo molto vecchio et di singular bontà et integrità che havea la sua casa nel canale di Santa Marina, et sul cantone ch’è alla bocha del rivo di San Giovan Chrisostomo, per mezzo a punto della ditta corte del Millioni, che referiva d’haverlo inteso anchor lui da suo padre et avo, et d’alcuni altri vecchi huomini suoi vicini) s’imaginarono di far un tratto col qual, in un istesso tempo, ricuperassero et la conoscenza de’ suoi et l’honor di tutta la città, che fu in questo modo: che, invitati molti suoi parenti ad un convito, il qual volsero che fusse preparato honoratissimo et con molta magnificenza nella detta sua casa, et venuta l’hora del sedere a tavola, uscirono fuori di camera tutti tre vestiti di raso cremosino, in veste lunghe come s’usava in que’ tempi fino in terra; et data l’acqua alle mani, et fatti seder gli altri, spogliatesi le dette vesti se ne missero altre di damasco cremosino, et le prime di suo ordine furono tagliate in pezzi et divise fra li servitori. [57] Dapoi, mangiate alcune vivande, tornarono di nuovo a vestirsi di velluto cremosino e, posti di nuovo a tavola, le veste seconde furono divise fra li servitori; et in fine del convito il simil fecero di quelle di velluto, havendosi poi rivestiti nell’habito de’ panni consueti che usavano tutti gli altri. [58] Questa cosa fece maravigliare, anzi restar come attoniti, tutti gl’invitati; ma, tolti via li mantili et fatti andar fuori della sala tutti i servitori, messer Marco, come il piú giovane, levato dalla tavola andò in una delle camere, et portò fuori le tre veste di panno grosso tristo con le quali erano venuti a casa; et quivi con alcuni coltelli taglienti cominciarono a discucir alcuni orli et cuciture doppie, et cavar fuori gioie preciosissime in gran quantità, cioè rubini, saphiri, carboni, diamanti et smeraldi, che in cadauna di dette vesti erano stati cuciti con molto artificio, et in maniera che alcuno non si haveria potuto imaginare che ivi fussero state: perché, al partir dal Gran Cane, tutte le ricchezze che egli haveva loro donate cambiarono in tanti rubini, smeraldi et altre gioie, sapendo certo che, se altrimente havessero fatto, per sí lun|6v|go, difficile et estremo camino non saria mai stato possibile che seco havessero potuto portare tanto oro. [59] Hor questa dimostratione di cosí grande et infinito thesoro di gioie et pietre preciose, che furono poste sopra la tavola, riempié di nuovo gli astanti di una cosí fatta maraviglia che restarono come stupidi et fuori di se stessi, et conobbero veramente ch’erano quegli honorati et valorosi gentilhuomini da Ca’ Polo, di che prima dubitavano, et fecero loro grandissimo honore et riverentia. [60] Et divulgata che fu questa cosa per Venetia, subito tutta la città, sí de’ nobili come de’ populari, corse a casa loro ad abbracciargli et fare tutte quelle carezze et dimostrationi di amorevolezza et riverentia che si potessero imaginar maggiori: et crearono messer Maffio, ch’era il piú vecchio, in uno allhora molto honorato magistrato nella città. [61] Et tutta la gioventú ogni giorno andava continuamente a visitare et trattenere messer Marco, ch’era humanissimo et gratiosissimo, et gli dimandavano delle cose del Cataio et del Gran Cane; quale rispondeva con tanta benignità et cortesia che tutti gli restavano in uno certo modo obligati. [62] Et perché nel continuo raccontare ch’egli faceva piú et piú volte della grandezza del Gran Cane, dicendo l’entrate di quello esser da dieci in quindici millioni d’oro, et cosí di molte altre richezze di quelli paesi, referiva tutte a millioni, gli posero per cognome messer Marco detto Millioni, che cosí anchora ne’ libri publici di questa Republica, dove si fa mention di lui, ho veduto notato; et la corte della sua casa, da quel tempo in qua, è anchor volgarmente chiamata del Millioni. [63] Non molti mesi dapoi che furono giunti a Venetia, sendo venuta nuova come Lampa Doria, capitano della armata de’ Genovesi, era venuto con settanta galee fino all’isola di Curzola, et d’ordine del principe della illustrissima Signoria fatte che furono armate molte galee con ogni prestezza nella città, fu fatto per il suo valore sopracomito d’una messer Marco Polo; qual, insieme con l’altre, essendo il capitano generale messer Andrea Dandolo, nominato il Calvo, molto forte et valoroso gentilhuomo, andò a trovar l’armata genovese; con la qual combattendo il giorno di nostra Donna di settembre, et essendo rotta (come è commune la sorte del combattere) la nostra armata, fu preso, perciò che, havendosi voluto metter avanti con la sua galea nella prima banda ad investir l’armata nimica, et valorosamente et con |7r| grande animo combattendo per la patria et per la salute de’ suoi, non seguitato dagli altri, rimase ferito et prigione. [64] Et incontinente posto in ferri, fu mandato a Genova, dove, inteso delle sue rare qualità et del maraviglioso viaggio ch’egli havea fatto, concorse tutta la città per vederlo et per parlargli, non havendolo in luogo di prigione, ma come charissimo amico et molto honorato gentilhuomo. [65] Et gli facevano tanto honore et carezze, che non era mai hora del giorno che dai piú nobili gentilhuomini di quella città non fusse visitato, et presentato d’ogni cosa nel vivere necessaria. [66] Hor trovandosi in questo stato messer Marco, et vedendo il gran desiderio ch’ognun havea d’intendere le cose del paese del Cataio et del Gran Cane, essendo astretto ogni giorno di tornar a referire con molta fatica, fu consigliato che le dovesse mettere in scrittura: per il qual effetto, tenuto modo che fusse scritto qui a Venetia a suo padre, che dovesse mandargli le sue scritture et memoriali che havea portati seco, et quelli havuti, col mezzo d’un gentilhuomo genovese molto suo amico, che si dilettava grandemente di saper le cose del mondo et ogni giorno andava a star seco in prigione per molte hore, scrisse per gratificarlo il presente libro in lingua latina, sí come accostumano li Genovesi in maggior parte fino hoggi di scrivere le loro facende, non possendo con la penna esprimere la loro pronuncia naturale. [67] Quindi avenne che detto libro fu dato fuori la prima volta da messer Marco in latino, del quale fatte che furono poi molte copie, et tradotto nella lingua nostra volgare, tutta Italia in pochi mesi ne fu ripiena, tanto desiderata et aspettata da tutti era questa historia. [68] Una copia di tal libro, scritta la prima volta latinamente, di maravigliosa antichità, e forse copiata dallo originale di mano di esso messer Marco, molte volte ho veduta et incontrata con questa, che al presente mandiamo in luce, accomodatami da un gentilhuomo di questa città da Ca’ Ghisi, molto mio amico, che l’havea appresso di sé et la tenea molto chara. [69] La prigionia di messer Marco perturbò grandemente gli animi di messer Mafio et messer Nicolò suo padre, perciò che, havendo eglino fin nel tempo del lor viaggio deliberato di maritarlo tantosto che fussero giunti in Venetia, vedendosi hora in questo infelice stato, con tanto thesoro et senza heredi alcuni, et dubitando che la prigionia del predetto dovesse durar molti anni e, quello che poteva avvenir peg|7v|gio anchora, che non vi lasciasse la vita (perché da molti era loro affermato che gran numero di prigioni venetiani erano stati in Genova le decine d’anni avanti che havessero potuto uscire), et vedendo di non poterlo ricuperar di prigione con alcuna conditione di denari, come piú volte havevano per molte vie tentato, consigliatisi insieme, deliberarono che messer Nicolò, anchor che fusse molto vecchio, ma però di complessione gagliarda, di novo dovesse pigliar moglie: et cosí, maritatosi, in termine d’anni quattro hebbe tre figliuoli, nominati l’un Stefano, l’altro Mafio et l’altro Zuanne. [70] Non passarono molti anni dapoi che ’l detto messer Marco, per mezzo della molta gratia che egli haveva acquistata appresso i primi gentilhuomini et tutta la città di Genova, fu liberato et tratto di prigione; di dove ritornato a casa, ritrovò che suo padre haveva in quel spacio di tempo havuto tre figliuoli: né per questo si perturbò punto, anzi, come savio et prudente, et quello che lodava la buona deliberatione del padre, et s’acquetava in tutto al voler di messer Mafio suo cio, consentí anchor egli di pigliar moglie, il che fatto, non hebbe alcun figliuolo maschio, ma due femine, una chiamata Moretta et l’altra Fantina. [71] Essendo poi morto suo padre, come a buono et pietoso figliuolo convenia, fece fargli una molto honorata sepoltura per la conditione di quei tempi, che fu un cassone grande di pietra viva, qual fino al giorno presente si vede posto sotto il portico ch’è avanti la chiesa di San Lorenzo di questa città, nell’entrare dalla parte destra, con una inscrittione tale che denota quella esser la sepoltura di messer Nicolò Polo, della contrata di San Giovan Chrisostomo. [72] L’arma della sua famiglia, acciò che neanche questa cosa si taccia, per quello che si vede scolpita sopra di questo cassone, è una sbarra in pendente con tre uccelli dentro, li colori della quale, per alcuni libri d’historie antiche, dove si vedono colorite tutte l’armi de’ gentilhuomini di questa nobil città, sono il campo azurro, la sbarra d’argento et li tre uccelli negri, che sono quella sorte d’uccelli che qui volgarmente si chiamano “pole”, dette da’ Latini “graculi”. [73] Questa è la vera arma di questi nobilissimi gentilhuomini: il che ho voluto perciò dire, a fine che (havendo molti altri nobili che s’han fatto, molti anni dapoi, chiamar da Ca’ Polo, levato arme diverse, pur con l’istessa sorte d’uccelli, ma in altro stato et colore) da questo nostro ragionamento qual fosse la vera insegna di questi honorati et valorosi gentilhuomini, in ogni tempo si conosca. [74] Quanto tempo veramente |8r| durasse la discendentia di questa nobile et valorosa famiglia, havendo veduti molti instrumenti et carte antichissime di divisione de’ beni fra gli heredi loro della detta casa nella Corte del Millioni, mostratemi autentiche da chi dopo tanti anni sono al presente venuti per ragione di successione al possesso di que’ beni, ritruovo che messer Andrea Polo da San Felice, honorato gentilhuomo, hebbe tre figliuoli, il primo de’ quali fu messer Marco, il secondo Mafio, il terzo Nicolò: questi due ultimi furono quelli che andarono a Constantinopoli prima, et poi al Cataio, come s’è veduto. [75] Et essendo venuto a morte messer Marco il primo, la moglie di messer Nicolò, ch’era rimasa gravida a casa, come ella partorí, per rinovar la memoria del morto pose nome Marco al figliuolo che nacque, ch’è l’autore di questo libro. [76] De’ fratelli del quale, che nacquero dapoi il secondo matrimonio di suo padre, cioè Stefano, Zuanne et Mafio, non truovo che altri havessero figliuoli se non Mafio, che hebbe cinque figliuoli maschi et una femina, nominata Maria, la qual, mancati che furono gli fratelli senza figliuoli, hereditò del 1417 tutta la facoltà di suo padre et fratelli, essendo honoratamente maritata in messer Azzo Trivisano, della contrada di San Stai di questa città; onde poi venne descendendo la felice et honorata stirpe del clarissimo messer Domenico Trivisano, buona memoria, procurator di San Marco et valoroso capitano generale di mare di questa Republica, la cui virtú et singolar bontà è rappresentata et accresciuta nella persona del serenissimo principe il signor Marcantonio Trivisano suo figliuolo. [77] Questo è il corso di questa nobile et honorata famiglia de Ca’ Polo, qual durò infino all’anno di nostra salute 1417; nel qual tempo, morto Marco Polo, ultimo delli cinque figliuoli di Mafio che habbiamo detto di sopra, senza alcun figliuolo, come porta la conditione et rivolgimento delle cose humane, in tutto mancò. [78] Et havendo trovato due proemii avanti questo libro, che furono già composti in lingua latina, l’uno per quel gentilhuomo di Genova molto amico del predetto messer Marco, et che l’aiutò a scrivere et comporre latinamente il viaggio mentre era in prigione, et l’altro per un frate Francesco Pipino bolognese, dell’ordine de’ predicatori, che, |8v| non essendoli pervenuto alle mani alcuna copia dell’essemplar latino, né leggendosi allhora questo viaggio altro che tradotto in volgare, lo ritornò di volgare in latino del 1320, non ho voluto lasciare di non rimettergli tutti due, per maggior satisfattione et contentezza de’ lettori, acciò che uniti servino piú abbondantemente in vece di prefatione del detto libro. [79] Il quale, insieme con questi altri eccellenti scrittori della parte verso levante et greco tramontana fino sotto il nostro polo, che habbiamo con non poca fatica cosí interi et fedeli in questo secondo volume fino hora raccolti, anderà sotto l’honorato nome di Vostra Eccellenza, in quella maniera che già gli habbiamo dedicato il primo delle cose dell’Africa et del paese del Prete Ianni, con li molti viaggi dalla città di Lisbona et dal mar Rosso a Calicut et insino alle Molucche, dove nascono le specierie; et come poi le sarà parimente dedicato anco il terzo, dove si conteranno le navigationi al Mondo Nuovo agli antichi incognito, fatte dal Colombo con molti acquisti, accresciuti poi dal Cortese, dal Pizzarro et da altri capitani, et della cognitione della Nuova Francia, nelle dette Indie posta dalla parte di verso maestro tramontana. [80] Il che ho determinato di fare acciò che dalla grandezza et splendore del nome suo glorioso riceva questo volume, insieme con gli altri due, quella auttorità et riputatione che non gli può dare la bassezza del mio debol ingegno. [81] Vostra Eccellenza adunche lo riceverà con animo benigno e con quella sincerità ch’io anche gliel’offero, et difendendolo quanto sarà in lei, insieme con l’altro fin hora dato in luce, dalle calunnie de’ maldicenti, farà che, sí come io con molta fiducia et sicurtà l’ho dato in protettione al nome suo honorato, cosí anche egli, già fatto sicuro col favor di Vostra Eccellenza, senza sospetto alcuno insieme col primo liberamente alle mani degli huomini pervenga. [82] Di Venetia, a’ sette di luglio MDLIII.

Espositione di messer Gio. Battista Ramusio sopra queste parole di messer Marco Polo: «Nel tempo di Balduino, imperatore di Constantinopoli, dove allhora soleva stare un podestà di Venetia per nome di messer lo dose, correndo gli anni del nostro Signore 1250».

[1] Cominciando messer Marco Polo il suo viaggio dalle sopra dette parole, m’è paruto nel principio di questo libro cosa sommamente necessaria et da non essere in modo alcuno pretermessa, anchor che molti historici ne habbino fatto diversamente mentione, l’esporre quanto piú brevemente si potrà, a piú compiuta satisfattione de’ lettori, la cagione perché in Constantinopoli in que’ tempi stesse un podestà per nome del doge di Venetia, massimamente appartenendo la cognitione di questa cosí illustre et gloriosa memoria alla grandezza et eccellentia di questa veramente divina Republica, dalle cui antiche scritture et memorie, in antichissimi libri et a que’ tempi notate, della impresa di Constantinopoli, ho io sommariamente tratti que’ particolari avisi che qui sotto, sí come io stimo, con molto contento de’ benigni lettori s’intenderanno. [2] È adunque da sapere che l’anno di nostra salute 1202 vennero in questa città di Venetia que’ gran principi francesi et fiaminghi, veramente christianissimi, Baldovino conte di Fiandra et di Hennault, Henrico suo fratello, Luigi conte di Bles et di Chiartres, et il conte Ugo di San Polo, con gran numero di baroni et signori et vescovi et abbati, che haveano gli anni avanti preso il segno della croce. [3] Et condussero un numeroso essercito, il quale fu ordinato, per non dare incommodo alla città, che pigliasse gli alloggiamenti a San Nicolò sopra il lito del mare, ov’erano mandate dalla città le vettovaglie di giorno in giorno per il lor bisogno (et erane lor capitano generale il marchese Bonifacio di Monferrato), con proponimento d’andare a soccorrer gli christiani nella Terra Santa; ove pochi anni avanti per il Saladino soldano d’Egitto era stato tolto a Guidon di Lusignano il regno di Hierusalemme et di tutta la Soria, il quale essi, dopo quella famosa ricuperatione di Gottifredo Boglione et di tanti baroni, haveano posseduto circa ottanta anni continui. [4] Et montarono l’ottavo giorno d’ottobre, l’istesso anno 1202, al porto di San Nicolò de Lio sull’armata, la quale l’anno avanti, secondo l’ordine et conventioni fatte con gli ambasciatori da loro mandati a Venetia, era loro stata apparecchiata da messer Rigo Dandolo, allhora serenissimo principe di questa Republica; il quale a cosí santa et christiana impresa com’era quella della ricuperatione di Terra Santa volse andare in persona, come a buono et religioso principe conveniva, anchor che fosse molto vecchio et cieco; ma prima, con tutto il popolo che in quella impresa l’havea da seguitare, tolse l’insegna della croce nella chiesa di San Marco, avanti l’altar grande, con gran solennità et con bellissime cerimonie, lasciando di ordine della Republica Rheniero suo figliuolo al governo della città. [5] Et havendo la Republica in quel tempo perduta la città di Zara in Schiavonia, fu fatta conventione con li baroni che s’andasse prima alla ricuperatione di quella; la quale, dopo lungo assedio dell’essercito et dell’armata, fu presa il mese di novembre et tolta dalle mani di Bela, re d’Ungheria, il quale se n’era per avanti impatronito. [6] Sopragiunse dipoi l’inverno con gran freddo, che non gli lasciò partire per andare al destinato viaggio di Soria et all’acquisto di Hierusalemme. [7] Et in questo mezo vennero a Zara ambasciatori mandati da Filippo fratello del re della Magna, a’ baroni, che dicevano che, se volessero havere pietà d’Alessio, suo cognato et figliuolo d’Isaac Angelo imperatore di Constantinopoli, che s’era poco innanti fuggito a lui dalle crudelissime mani di suo zio Alessio |9v| il tiranno (il quale, havendo cavati gli occhi ad Isaac suo fratello et padre di costui, s’era fatto signore et s’havea allhora con gran tradimento usurpato quello imperio di Constantinopoli), fariano loro gran partiti, sí come haveano ampia facultà dal suo signore et da lui. [8] Ottennero finalmente gli ambasciadori, per i molti preghi fatti a’ baroni et al doge et per la pietà c’hebbero del giovane, che, tantosto che si potesse navigare, sarebbe per loro rimesso il giovanetto in stato con suo padre: et fu allhora molto solennemente promesso per gli ambasciadori et giurato che, se col padre lo rimettevano nell’imperio, egli, oltra che di subito rimetterebbe tutto lo stato alla obedientia della Chiesa romana, dalla quale era partito già molto tempo, darebbe anchora dugentomila marche d’argento alli baroni, con vettovaglia per tutto l’essercito, et diecimila fanti a sue spese per questo santo servigio per uno anno continuo; et di piú s’obligava a tener tutto il tempo della vita sua cinquecento cavallieri nella Terra Santa a sue spese. [9] Conchiuso questo partito, et solennemente dall’una et l’altra parte giurato, gli ambasciadori si partirono, ritornando a Filippo nella Magna, et facendo sapere il tempo al quale era stato a punto determinato dalli baroni et dal doge che ’l giovanetto dovesse venir a ritrovarli a Zara per partirsi, che fu alquanti giorni dopo Pasqua. [10] Il quale giunto che fu, montati sull’armata et imbarcate le genti, andarono al diritto verso Constantinopoli, dove in pochi giorni giunti, et smontati alla riva di Calcedonia, ch’è dall’altra parte del stretto all’incontro di Constantinopoli, ove era allhora un bellissimo palazzo dell’imperatore greco, et tratti e’ cavalli fuori degli uscieri (che hora si chiamano palanderie), ordinarono i baroni le lor battaglie in quel modo et forma a punto come doveano dipoi andare all’assalto della città. [11] Et fatta sopra il lito una picciola scaramuccia col megaduca del tiranno Alessio, et quello rotto et sconfitto, havendo ancho mostrato dalla prora della galea del doge Dandolo il giovanetto Alessio alli Greci della città, che in gran numero erano adunati sopra le mura et sopra tutte le torri di Constantinopoli, per vedere se a lui s’havessero voluto arrendere, si rimbarcarono: e, passato lo stretto, smontarono nella terra di Constantinopoli, ove Alessio il tiranno era venuto sulla riva, con gran numero di Greci a piedi et a cavallo, per vietarli il smontare. [12] Spaventatose l’imperatore da cosí grande ardire de’ nemici et avilitosi, subito se retirò, et fu presa da’ Francesi la torre di Pera, nella quale era tirata da Constantinopoli una molto forte catena che chiudeva il porto. [13] Posto l’assedio per loro dalla parte di terra, et per Venetiani dalla parte di mare con le loro navi et galee, ordinato l’assalto, incominciarono quelli del doge, poste in ordinanza le galee nel golfo di Pera, a dricciare nell’armata mangani et periere et dare la battaglia (perché non era anchor trovata la maravigliosa machina dell’arteglieria, che hoggidí si costuma nelle guerre): et batterono le mura della città molto gagliardamente, le quali, dopo non lungo combattere et di non molti giorni, furono prese quasi per beneficio divino, per ciò che, essendo stata veduta da’ Greci la bandiera di San Marco sopra una delle torri della città, che da niun mai si seppe come vi fusse stata posta, in tal maniera si smarrirono che incontanente abbandonarono piú di vinticinque torri da quella parte et si fuggirono. [14] Le quali subito prese dal doge, et postoli dentro la guardia de’ Venetiani, fu mandata senza indugio la novella alli baroni ch’erano nella parte di terra; i quali, inteso questo, raddoppiarono l’assalto, et in molte parti assalirono le mura con le scale: et cosí in breve spatio di tempo fu presa una parte della città, et messo il fuoco in molte case de’ nemici. [15] Allhora Alessio il tiranno, visto non potere resistere alle forze de’ nemici, con nuovo consiglio uscí fuori della città per tre porte, con tutto il suo sforzo, per assaltarli alla campagna. [16] I baroni, vista sí gran moltitudine venirgli incontro, havendo raccolto et ordinato il loro essercito, talmente che non potevano esser offesi se non davanti, si messono in battaglia per aspettare l’affronto animosamente. [17] Pareva che veramente tutta la campagna fusse coperta di battaglie de’ nemici, le quali in ordinanza con saldo passo andavano alla volta de’ baroni: et era cosa maravigliosa a vedere che li baroni, che non havevono piú che sei battaglie, aspettassino l’assalto di cosí grande essercito; et già tanto si era fatto inanzi il tiranno con le sue genti, che facilmente da lontano si potevono ferire. [18] Quando questo udí il doge di Venetia, fece incontanente imbarcare le sue genti et abbandonare quelle torri che egli haveva di già acquistate, dicendo che voleva andare a vivere et morire coi pellegrini: et cosí, dismontato in terra con tutte le sue genti, si uní con l’essercito. [19] Stettero continuamente le battaglie |10r| de’ pellegrini con tanto ordine et ardire a fronte de’ nimici, che i Greci mai hebbono animo di assaltargli. [20] Quando il tiranno vidde questo, perduto d’animo, incominciò incontanente a far ritirare le sue genti et ritornò nella città, ove tolta quella parte di gioie et di thesoro che seco poté portare, abbandonata la moglie et gl’amici et di tutti scordatosi, solamente alla propria salute intento, la notte seguente fuggí et lasciò miserabilmente la città et l’imperio, havendo otto anni, tre mesi et dieci dí (come vogliono alcuni) tiranneggiato. [21] Et in quell’hora a punto della fuga del tiranno, fu tratto di prigione l’imperatore cieco Isaac, et rimesso dal popolo nell’imperio, regalmente vestito, et portato da’ suoi con molto honore et magnificenza nel palazzo di Blacherna. [22] Et benché l’oscurità della notte allhora a cosí gran facende apportasse grande impedimento, fu nondimeno, per il desiderio grande ch’egli havea d’abbracciare il figliuolo Alessio, mandatolo a chiamare nell’essercito, ordinando che fusse con gli altri baroni condotto con molto honore nella città. [23] I quali, non consentendo a ciò se prima da esso imperatore Isaac il giorno seguente non fusse con solennità confermato quanto a Zara, per il figliuolo et per gli ambasciatori di Filippo suo genero, a suo nome era stato promesso, mandarono, fatto che fu il giorno chiaro, due Venetiani et due Francesi per nome del doge et delli baroni all’imperator, a farsi confermare le conventioni fatte col figliuolo: le quali confermate che furono da lui con giuramento et con lettere imperiali, et suggellate con bolla d’oro, sí come egli usava, montarono a cavallo i baroni et accompagnarono il giovanetto nella città davanti il padre, dal quale fu ricevuto con grandissima allegrezza. [24] Et alquanti mesi dapoi fu anchora, con molta festa et grande honore, secondo il costume loro, nel primo giorno d’agosto coronato imperatore dal patriarcha nella chiesa di Santa Sofia. [25] Fatta che fu questa bella et pietosa operatione per li baroni et il doge, et rimesso il padre col figliuolo in stato, volendo eglino hormai partirsi per andare al loro destinato viaggio di Soria, percioché la lega loro fatta in Zara non durava se non sino a San Michele del mese di settembre, fecero dire ad Isaac il vecchio et Alessio il giovanetto imperatore che, approssimandosi il tempo della lor partita, volessero pagar loro le conventioni et quanto erano rimasi d’accordo a Zara, accioché passando il tempo non perdessero cosí bella occasione di fare la disegnata impresa. [26] Alessio, con molte benigne parole et prieghi usati per coprire le sue astutie et inganni, tanto seppe fare che, prolungata la lor partita da San Michele infino al mese di marzo, et giurata di nuovo la lega infino a San Michele del’anno seguente, promesse di pagare fra quel termine intieramente tutto quel debito ch’egli havea contratto con loro. [27] Restarono per preghi d’Alessio li baroni, accettando la scusa con ferma speranza che, sí come l’havevano essi benissimo servito nel rimetterlo col padre in stato, egli parimente osservasse loro la fede promessa. [28] Non passò molto tempo che Alessio, o fusse per il mal consiglio de’ suoi o per altra cagione, si mostrò apertamente molto perfido et disleale al doge et alli baroni, che gli erano stati tanto amorevoli et cortesi dell’aiuto loro, et havevangli fatto cosí grande et rilevato beneficio; et venne a tale che un giorno ardí anchora negarli quanto prima haveva loro promesso, ben che di ciò chiara fede apparisse per lettere imperiali di suo padre, sugellate con la bolla d’oro, ch’erano appresso al doge di Venetia. [29] Di modo che, dopo l’haverlo fatto piú et piú volte domandare che le conventioni fussero loro osservate, li baroni furono astretti per honor loro finalmente, vedendosi in tal maniera beffati, a sfidarlo, con molta vergogna di lui et dishonore dell’imperio, et stringerlo al pagamento con molte minaccie, rompendogli guerra: la qual si cominciò di nuovo molto forte et gagliarda, per la poca fede del giovanetto imperatore. [30] Et mentre che Constantinopoli un’altra volta era da’ Francesi et da’ Venetiani assediato et dalla parte di terra et dalla parte di mare, Alessio fu tradito da un altro chiamato Alessio il Duca, molto suo familiare et benemerito, che, per haver congiunte le ciglia, volgarmente era in un certo modo et quasi per ischerno chiamato Marculfo: et una notte, su la piú bella hora del dormire, fu posto in una oscura prigione, et pochi giorni dipoi, il sesto mese del suo imperio, occultamente strangolato, non havendo in lui operato il tossico che prima gli havea tre volte fatto dar a bere nella prigione. [31] Morto Alessio, et fattolo imperialmente sepelire come s’egli fusse naturalmente morto, prese Marculfo con l’aiuto de’ suoi seguaci l’imperio et la signoria della città, facendosi tiranno, con molto dolore de’ Greci et passione del vecchio Isaac, il quale, udito il miserabil caso del figliuol, morí incontanente |10v| di cordoglio. [32] I baroni et il doge, inteso il grande tradimento et continuando gli assalti, batteano con diverse machine le mura et le torri senza fine, giorno et notte; et raddoppiata la guerra, facendosi fra l’una et l’altra parte molto grosse scaramuccie, fu in una di quelle valorosamente acquistato da’ baroni et da’ Venetiani il stendardo imperiale del tiranno, ma con molto maggior allegrezza un quadro ove era dipinta la imagine di nostra Donna, il quale usavano continuamente gl’imperatori greci portare seco nelle loro imprese, havendo in quello riposta ogni lor speranza della salute et conservatione dell’imperio. [33] Questa imagine pervenne nei Venetiani, et sopra tutte le altre gran richezze et gioie che gli toccarono fu tenuta carissima, et hoggidí è con grande riverentia et devotione servata qui nella chiesa di San Marco, et è quella la quale si porta a processione il tempo della guerra et della peste, et per impetrare la pioggia et il sereno. [34] Finalmente due galee de’ Venetiani portate dal vento sotto le mura, et posta una scala dalla gabbia de’ loro arbori, un Venetiano et un Francese entrarono ad una torre, et valorosamente posta la bandiera di San Marco, levato il grido nell’armata, et in quell’istesso tempo per Francesi dalla parte di terra con molta forza rotta et presa una porta della città, fu preso Constantinopoli la seconda volta et sconfitto il tiranno Marculfo: il quale incontanente, fuggendo per la porta Oria dalla parte di ponente, abbandonò la città, essendo stato nella sedia imperiale non piú che due mesi et giorni. [35] Entrati li baroni et alloggiati nella città, dopo il sacco che fu molto grande et ricco, il quale, in esecutione dei patti conchiusi d’accordo ne’ padiglioni avanti il dare l’assalto alla città, fu portato in tre gran chiese et quivi diviso fra li baroni et Venetiani egualmente, furono eletti dodici huomini che dovessero creare l’imperatore, sei Venetiani dalla parte del doge et sei dalla parte de’ baroni, che furono quattro vescovi francesi et due baroni lombardi. [36] I quali, ridotti a far questa eletione in una ricca capella, che era nel palazzo ove allogiava il doge di Venetia, crearono imperatore dopo lungo contrasto di molte hore Baldovino, il conte di Fiandra et di Hennault, nella maniera che s’erano, per l’instrumento fatto avanti il dare l’assalto alla città, convenuti: che fu tale, che colui il quale havesse piú voti nelli dodici s’intendesse essere imperatore, et caso che duoi havessero tanto et tanti per ciascuno, si dovesse allhora trare la sorte, et a chi ella toccasse fusse imperatore; il quale dovesse signoreggiare una delle quattro parti del predetto imperio di Constantinopoli, et havere per l’habitatione sua i palazzi di Boccalione et di Blacherna nella città, ch’erano anticamente state habitationi degl’imperatori greci; l’altre tre parti dell’imperio fussero per uguale portione divise fra i Venetiani et li baroni francesi, che altramente si faceano chiamare pellegrini; con patto espresso che, dalla parte di coloro onde non fusse stato creato l’imperatore, li cherici havessero libertà di eleggere il patriarcha et ordinare la chiesa di Santa Sofia et instituire li canonici, con reggere tutto lo stato ecclesiastico: il quale patriarcha di Constantinopoli, et di riverentia et di ricchezza, non era allhora tra’ Greci punto inferiore al nostro papa di Roma. [37] I Venetiani, creato c’hebbero Baldovino imperatore, ch’era della parte francese, et dato che fu titolo al doge di Venetia di despote (titolo allhora di grande honore), elessero Thomaso Moresini per patriarcha di Constantinopoli, et fu diviso incontinente l’imperio in quattro parti, cosí come prima s’erano convenuti: delle quali havuta che n’hebbe una l’imperatore Baldovino, l’altre tre furono divise fra gli altri baroni et il doge di Venetia per uguale portione; onde poi il doge di Venetia et suoi successori per molti anni continoi hebbero il titolo di dominatori della quarta et mezza parte di tutto l’imperio della Romania. [38] Bonifacio il marchese di Monferrato, che non havea potuto conseguire l’imperio, benché con ogni studio vi havesse atteso, et fatto gran fortuna a Baldovino, si fece suo huomo ligio, et da lui in contracambio et per segno d’amore fu creato re di Salonichi: et fra il tempo della incoronatione dell’imperatore (che fu l’anno 1204, il mese di maggio) sposò l’imperatrice Maria, sorella di Bela re d’Ungaria, che per avanti era stata moglie del morto imperator Isaac vecchio, et andò con le sue genti verso il regno di Salonichi. [39] I Venetiani andarono al possesso et acquisto del loro imperio, che fu molte città della Thracia et molte isole dell’Arcipelago, con buona parte della Morea, facendo un editto, che cadauno Venetiano che armasse navilii a sue spese potesse andare a recuperare, delle dette isole, quelle che volesse, eccetto Candia et Corfú; dove che Rabano dalle Carcere veronese, huomo letterato in que’ tempi, ch’era venuto per consigliero del principe Dandolo, andò con licentia del doge a pigliar l’isola di Negroponte, la qual alquanti anni dapoi, conoscendosi non |11r| havere forze bastanti a mantenerla, volontariamente cesse al doge di Venetia: dove fu poi mandato continuamente per governo dell’isola un gentilhuomo di Venetia per baylo, fino che ella fu sotto l’imperio di questi signori. [40] Morto il principe Dandolo nell’assedio della città d’Andrinopoli, ch’era delle toccate in sorte nella divisione dell’imperio, ma da’ Greci che vi erano fuggiti et quivi raccolti dopo le lor miserie tenuta per nome di Ioannizza, re di Valachia et Bulgaria, et portato che fu a sepelire con honorate esequie in Constantinopoli nella chiesa di Santa Sofia, i Venetiani che si trovavano in Constantinopoli, havendo veduto, avanti la morte del doge, il grave caso della presa dell’imperatore Baldovino, che occorse come piú a basso si leggerà, et vedendosi privi et dell’imperatore et del doge, né havendo allhora in Constantinopoli alcuno de’ suoi che fusse loro capo et governo in cosí aspra et difficil impresa, essendosi tutti insieme ridotti un giorno, solennemente crearono, l’anno che allhora correva 1205, loro podestà messer Marin Zeno (il qual si ritrovava in Constantinopoli), con ordine et deliberatione tale, che nell’avenire qualunche podestà o rettore che ’l doge di Venetia di tempo in tempo mandasse col suo consiglio, over ordinasse podestà in Constantinopoli, si dovesse accettare per podestà et vero rettore et amministratore di quella parte della città et dell’imperio ch’era nella divisione toccata in sorte a’ Venetiani; il qual podestà s’intendesse haver ancho il titolo di dominatore della quarta et mezza parte dell’imperio di Romania, et portasse la calza di seta cremesina (insegna imperiale), come parimente portava l’imperator francese, et havea fin allhora portata il Dandolo. [41] Questo, con li suoi giudici, consiglieri et camarlinghi, et altri infiniti officiali et magistrati che appresso di lui honoratissimamente stavano, nel principio del suo reggimento confermò li feudi dell’imperio a quelli che dal doge Dandolo ne erano stati investiti, con ordine che non potessero da loro essere alienati in altri ch’in Venetiani, et fece molte altre provisioni a publico beneficio della natione et del stato. [42] Et doppo lui, mentre durarono gl’imperatori francesi in Costantinopoli, successero continuamente per diritto ordine altri podestà, mandati dalla Signoria di Venetia al governo di quella parte dell’imperio, ch’era da’ Greci chiamata “despotato”, sí come n’havea havuto il titolo per avanti il doge Dandolo. [43] Dopo la morte di Baldovino imperatore, che in un conflitto era stato fatto prigione dai soldati di Ioannizza, re di Bulgaria et Valachia, et poi morto, fu per li baroni ch’erano in Constantinopoli eletto per suo successore Henrico suo fratello, che fino a quel giorno, con titolo di baylo dell’imperio, havea con molto valore et giudicio governato l’essercito. [44] Egli, tolta la corona dell’imperio l’anno 1206, il vigesimo giorno d’agosto, in Constantinopoli nella chiesa di Santa Sofia, solennemente datagli da Thomaso Moresini patriarcha, quale era tornato allhora da Roma, ove havea impetrata da papa Innocentio III la confermatione del suo patriarchato, et di piú era stato eletto arcivescovo di Thebe, confermò a messer Marin Zeno, con molto honore et amorevolissime parole, in presentia di Benedetto, cardinale di Santa Susanna et legato del papa nella Romania, la quarta et mezza parte dell’imperio che gli era toccata in sorte, promettendogli aiuto et favore per acquistare l’altre sue città tenute da’ Greci et per conservarle. [45] Questo imperatore Henrico dipoi prese per moglie Agnese, figliuola del marchese Bonifacio di Monferrato, ch’era stato creato re di Salonichi, la quale fu ancho lei il mese di febraro coronata imperatrice, et fece ch’il marchese suo socero divenne suo huomo ligio: il qual, abboccatosi con l’imperator Henrico suo genero presso al fiume che corre sotto la città di Cipsella, et ottenuta la confermatione da lui del regno di Salonichi, nel ritorno suo al regno fu assalito da una grande correria di Valachi et Cumani, e, nel combattere gravemente ferito, nel 1207 morí. [46] L’imperator Henrico, dopo molta et lunga guerra, fatta hora con Theodoro Lascari, che con l’aiuto de’ Greci tiranneggiava molte città dell’imperio nell’Asia, hora con Ioannizza, re di Valachia et Bulgaria, il qual con grossissimo essercito de Bulgari et di Valachi gli veniva adosso, et tanto vicino che correva spesse volte fino sulle porte di Constantinopoli, facendo grandissimi danni et menando via huomini et bestie in gran copia in Valachia, havendo dieci anni retto l’imperio, morí senza figliuoli in Salonichi, l’anno 1216 il mese di giugno, et lasciò Violante, sua sorella, herede dell’imperio. [47] Questa, che si trovava in Francia maritata in Pietro di Cortenay, conte d’Auxerre, honorato cavalliero, udita la morte dell’imperatore Henrico suo fratello, venne col marito a Roma; dove da papa |11v| Honorio III ambidue coronati imperatori nella chiesa di San Gio. Laterano, nel 1217 il mese d’aprile, con molto solenne trionfo, incontanente elessero duoi delli suoi baroni et mandarongli a Constantinopoli, accioché solennemente giurassero in nome loro a messer Rogiero Permarino et Marin Storlato et Marin Zeno (che si trovavano in Constantinopoli legati per el doge Ziani, ch’era allhora principe di Venetia) che per tutto il tempo dell’imperio loro gli saria osservata buona et leal compagnia, et mantenute tutte le conventioni et patti, ordinationi et honorificentie che haveano li Venetiani insino a quel giorno havute nella Romania, cosí con scritti come senza scritti, fatte per il già conte Baldovino di Fiandra imperatore, et dipoi per Henrico suo fratello et successore, con tutti li rettori et podestà di Constantinopoli stati nel despotato fino a quel tempo, per nome della signoria et del doge di Venetia. [48] Partitosi dipoi da Roma, l’imperatore, con la moglie imperatrice, venne a Brandicio, dove montato sulle galee de’ Venetiani insieme col cardinale Colonna, datogli legato dal papa, andò all’assedio di Durazzo, che essendo fino nella divisione prima dell’imperio toccato in sorte a’ Venetiani et poi perso, desiderava per tante cortesie che le facevano in gratia loro prenderlo et consegnarglielo; ma non gli successe, però che un grande huomo greco, detto Theodoro Conneno duca di Albania, vassallo di Theodoro Lascari, violentemente se ne era insignorito. [49] Costui, mostrando con astutia greca di volersi riconciliare con Pietro imperatore, l’alloggiò nella città, facendo finta di dargliela et volerlo di piú, per honorificentia, accompagnare fino a Constantinopoli nell’imperio, dove egli andava col legato per terra, havendo mandata l’imperatrice per mare sulle galee de’ Venetiani: et un giorno desinando a tavola l’ammazzò, facendo prigione il cardinale Colonna. [50] Questa nuova cosí all’improviso et non aspettata, essendosi intesa a Constantinopoli, turbò grandemente gli animi di tutti. [51] Ma ritrovandosi allhora messer Iacomo Thiepolo, podestà de’ Venetiani, nella città et nell’imperio, con la sua prudentia et buon consiglio operò sí che in poche hore acquetò tutto il tumulto nato per la morte dell’imperatore. [52] Et vedendo che le cose de’ Francesi andavano ogni giorno declinando, et che di Francia non era mandato quel soccorso et aiuto che ragionevolmente si dovea aspettare, giudicò che, per star in pace et assicurare le cose della città, buona cosa era far tregua per alquanti anni col soldano et col Lascari et con gli altri signori vicini, che d’ogni parte facevano guerra con l’imperatore. [53] Il che fatto col consiglio delli suoi giudici et consiglieri, et di Conone di Betuna, baron francese, che in luogo dell’imperatore morto essendo creato baylo governava la città nell’interregno, Roberto fra questo mezzo, figliuolo di Pietro imperatore, venuto di Francia a Constantinopoli, morta la madre che (come vogliono alcuni) governò l’imperio certo tempo, fu l’anno 1220 coronato imperatore in luogo di Pietro suo padre, havendogli volontariamente Filippo suo fratello, al quale per essere il primogenito s’apparteneva l’imperio, cessa la corona. [54] Questo, vedendo li buoni portamenti che facevano, et amorevoli consigli nel governo dell’imperio che raccordavano continuamente li podestà ch’erano mandati dalla signoria di Venetia, continuò a fare grandissime carezze et honori a messer Iacomo Thiepolo, che in quel tempo ch’egli venne ritrovò esser podestà; et ordinò che ogni facenda, di qualunche sorte ella si fosse, si consigliasse et trattasse prima con lui che con i consiglieri dell’imperio; et in ogni deliberatione che si faceva, seguendo il costume degli altri imperatori suoi precessori, voleva sempre il consiglio del podestà di Venetia, et negli scritti suoi nominava, come haveano fatto suo padre et zii, qualunche volta gli occorreva farne mentione, il doge di Venetia suo carissimo amico et collega dell’imperio. [55] Et ho letto io la copia del privilegio del prefato Roberto imperatore, che fece a’ Venetiani in Selimbria il ventesimo giorno di febraro, l’anno quarto del suo imperio, che fu del 1224, all’istesso tempo di messer Iacomo Thiepolo, podestà di Constantinopoli; nel qual egli conferma, cosí ricercato per lettere da messer Pietro Ziani, doge di Venetia, tutte quelle altre parti che li suoi podestà haveano nuovamente acquistate dell’imperio della Romania oltra le prime, et vuole ch’egli et li successori suoi habbiano le medesime giuriditioni et auttorità nelle predette parti di novo acquistate dell’imperio, «sí come noi habbiamo nelle cinque», per dire le sue proprie et formali parole, perciò che già le parti de’ primi baroni che l’acquistarono erano per la morte loro in gran parte pervenute nell’imperatore. [56] Et queste carezze et favori non già senza causa il predetto imperatore faceva a’ Venetiani, perciò che, sapendo che le forze sue erano molto indebolite nella Grecia et che altronde non po|12r|teva havere né piú presto né maggior aiuto che da essi, sopra le spalle de’ quali allhora gran parte di tutto quell’imperio si riposava, gli haveva in molto honore et riverentia. [57] Messer Iacomo Thiepolo podestà fece in questo tempo tregua per cinque anni con Theodoro Lascari, il quale per conto di sua moglie, figliuola d’Alessio il fratricida, era stato da’ Greci coronato imperatore poco dapoi la presa di Constantinopoli, et havea continuamente signoreggiata quella parte dell’Asia all’incontro di Constantinopoli che hora si chiama la Natolia. [58] Et convenne con lui con solenne giuramento molte cose, che dapoi apportarono grande utile et honore insieme alla natione venetiana et al despotato della Romania; ma fra l’altre che i Venetiani et mercanti di Venetia sicuramente et senza alcuno impedimento o danno potessero fare le loro mercantie et negociare nelle terre del Lascari, essendo sempre liberi cosí per mare come per terra, et con patto di poter ancho fare qualunche sorte di mercantie loro piacesse nella sudetta terra senza pagare alcuna gravezza o il “comerchio”, ch’era una sorte di gabella che allhora et hoggi anchora si costuma pagare in Constantinopoli et in Soria, et in ogn’altro luogo soggetto all’imperio del Turco, da tutti egualmente et da’ Turchi istessi (la quale gabella però del comerchio era pagata da quelli del Lascari, cosí in Constantinopoli come in qualunche altro luogo de’ Venetiani nella Romania); et se alcuna nave venetiana o de’ loro sudditi pericolasse nelle terre a lui soggiette, la robba fusse resa loro interamente. [59] Appresso, che se alcuno Venetiano o mercante suddito, morendo nel stato suo, havesse fatto testamento, tutto l’haver suo fusse lealmente reso agli heredi; et caso che ei fosse morto senza testamento, né havesse havuto appresso di sé alcuno de’ suoi al tempo della sua morte, la robba sua dovesse esser conservata salva appresso il signor della città nella quale egli fusse morto, infin che apparisse colui a chi ragionevolmente aspettasse; con solenne giuramento et particolar promessa che né il Lascari nel suo imperio, né il doge di Venetia nel suo despotato nella Romania, havessero facultà di far battere ad uno istesso modo yperperi né manulati (il manulato era una sorte di moneta di molta riputatione appresso i Greci, chiamata da questo nome per conto di Manoel imperator di Constantinopoli, che ne fu l’autore), né alcuna altra sorte di moneta che si assomigliasse l’una al’altra, ma ciascuno diversamente battesse la sua; né potesse il Lascari a modo alcuno mandare sue navi o altri legni alla città di Constantinopoli né fare soldati sopra il despotato de’ Venetiani durante la tregua, senza licentia del doge di Venetia. [60] Questo è quello messer Iacomo Thiepolo che per il suo valore ascese poi al principato de questa Republica, et fece raccorre et ordinare tutti li statuti di Venetia riducendogli in un volume, ne’ quali si vede anchora dichiarato l’ordine che in quel tempo che signoreggiavano Constantinopoli s’osservava in questa città circa li testamenti de’ Venetiani che qui erano portati da Constantinopoli, fatti per modo di breviario: che non se gli havesse a prestar fede se non erano sottoscritti dal podestà de’ Venetiani o suo sustituto, o almeno da uno de’ conseglieri mandati di qui dalla Signoria. [61] Theodoro Lascari, dapoi fatta tregua col Thiepolo, desiderando fare ancho parentado coll’imperator Roberto per fermar meglio le cose sue, tentò di dargli per moglie Eudocia sua figliuola; ma essendogli vietato per il suo patriarcha, che non volle acconsentirvi, come che il far parentado con Latini fosse quasi contro gl’instituti loro, non gli riuscí il pensiero. [62] Onde egli, volendo pur fornire questo suo desiderio, et tentate molte altre strade senza effetto, alla fine pieno di sdegno si morí, lasciando l’imperio a Giovanni Vatazo suo genero, che altrimente era chiamato il duca, marito di Irene sua figliuola, per non esser il figliuolo che gli era nato nel secondo matrimonio della moglie armena anchora in età matura et atto al governo, né vivendo allhora alcuno di que’ due figliuoli ch’hebbe della prima moglie Anna, figliuola del tiranno Alessio di Constantinopoli. [63] Era Theodoro di età vicino a cinquanta anni quando morí, havendo regnato intorno a diciotto anni, et (per quello ch’io ho letto in una historia greca di que’ tempi non anchora publicata) di picciola statura, di color bruno, con la barba lunga divisa in due parti nella summità, quasi guercio d’un occhio, molto animoso et pronto nel combattere, ma huomo che dall’ira et dalla lussuria difficilmente si potea astenere; nel resto liberalissimo signore, et tanto magnifico che volea spesse volte quelli a’ quali pur una volta alcuna cosa donava incontanente far ricchi. [64] Nelle guerre specialmente fatte contro Latini et Persiani fu assai sfortunato. [65] Hebbe il suo corpo sepoltura dov’erano l’ossa d’Anna sua prima moglie, nel monasterio del Iacinto nella città di Nicea |12v| in Bitinia. [65] Alla fine, Roberto imperatore di Constantinopoli (per ritornar a lui), come alle volte aviene ai giovani, innamoratosi imprudentemente d’una bellissima giovane greca, di nobil sangue et ricca, anchor che sapesse che dalla madre era stata promessa ad un Borgognone de’ primi capitani del suo essercito, senza alcun rispetto et con grande insolentia tolta, la menò a casa. [66] La quale ingiuria non potendo il Borgognone sostenere, pieno d’ira et di furore, non essendo l’imperatore in Constantinopoli, con molti suoi seguaci entrò una notte in palazzo, et rotte le porte, presa la giovane et la madre, a quella tagliò il naso et l’orecchie; et la madre, come quella ch’era stata cagione della rapina della figliuola, fece affogar in mare. [67] Questo miserabil caso perturbò tanto l’imperatore che, pieno di sdegno et di cordoglio per lo scorno grande fattogli dal capitano, raccomandato c’hebbe l’imperio a messer Marin Michele (ch’era allhora, secondo alcuni, podestà de’ Venetiani), come quello che faceva pensiero di non voler piú ritornar a Constantinopoli, si partí disperato et venne in Italia; dove, ito a Roma per dolersi col papa di questa sua miseria et sciagura che gli era avenuta, stato che fu alquanto tempo appresso sua Santità et amorevolmente da lei racconsolato, fu consigliato a ritornare a Constantinopoli: nel qual viaggio, gravemente malato, nella Morea morí, lasciando l’imperio a suo fratello Baldovino, per l’età non anchor atto a governar l’imperio. [68] Il quale, essendo poi giunto all’età matura, morto Giovanni conte di Brenna, re di Hierusalemme, suo suocero (che havendogli dopo la morte di Roberto suo fratello data sua figliuola Martha per moglie, et col consiglio de’ primi baroni del governo dell’imperio governato et molto valorosamente dall’impeto del Vatazzo difeso alquanti anni lo stato), fu coronato imperatore di Constantinopoli. [69] Et è quello del quale messer Marco Polo nel principio del suo libro scrivendo dice: «Nel tempo di Balduin imperatore di Constantinopoli, dove allhora soleva stare un podestà di Venetia per nome di messer lo dose, correndo gli anni di nostro Signore 1250, etc.». [70] Di qui avenne che, volendo egli al tempo che compose et scrisse questo libro in Genova, che fu del 1298, notificar particolarmente et descrivere il tempo apunto nel quale suo padre et zio s’erano ritrovati in Constantinopoli, che fu l’anno 1250, nel principato di messer Marin Moresini doge di Venetia, giudicò lui cosa molto degna et lodevole (anchor che in quel tempo gran parte della portione del stato d’i Venetiani nella Romania fosse già perduta con la signoria de’ Francesi in Grecia) incominciar con la memoria di questo tempo a descriver il suo viaggio, per dimostrare l’honorificentia et grandezza in che per avanti era stata la sua patria: perciò che, allhora ch’egli dimorava prigione in Genova, erano già nel spacio di que’ quarantaotto anni stati scacciati li Francesi dal Vatazzo, col sopradetto Baldovino imperatore che lui nomina, et per mezzo di Michele Paleologo li Greci ritornati nel lor primo imperio di Constantinopoli. [71] Della quale impresa, come rara et illustre, io ne ho in questo luogo, parendomi fare molto al proposito nostro, cosí brevemente (toccando però alcune cose necessarie da sapere) voluta far mentione, accioché a quelli lettori che non haveranno alcuna cognitione, o almen poca, delle cose di que’ tempi, né saperanno lo stato in che allhora questi signori si ritrovavano, non paia cosa fabulosa il leggere che già trecento anni questa Republica habbia tenuto per cosí lungo spacio di tempo podestà in Constantinopoli, sí come ella fece, et sia con molto beneficio della christianità stata tanti anni patrona d’una parte di quella cosí bella et gloriosa città et di quel tanto maraviglioso imperio, che hora, per le molte discordie longamente state fra’ principi christiani, si trova soggetto agl’infideli. [72] Ma chi haverà piacere d’intendere particolarmente et con piú diritto et continuato ordine il filo di tutta questa historia, ch’io di sopra non ho raccontato né è sino hora stata scritta da alcuno, incominciando specialmente dal principio che Theobaldo conte di Champagna et di Bria, et Luis conte di Bles, con Baldovino et gl’altri baroni, l’anno 1200 presero la cruciata nella Fiandra, et fatto il loro parlamento in una città di Champagna, mandarono l’anno seguente sei honorati baroni loro ambasciatori al doge Dandolo a Venetia, con lettere di credenza et molti partiti, a dimandare navilii et un’armata per passare in Soria con uno essercito di trentotto in quarantamila persone che havevano raccolto, et andare alla recuperatione di Terra Santa, leggerà l’historia di Paolo mio figliuolo, la quale egli latinamente scrive d’ordine dell’illustrissimo et eccellentissimo Consiglio de’ Dieci di questa Republica. [73] Il quale, accioché la memoria di tanto illustre et gloriosa impresa non sia molto piú dalla longhezza del |13r| tempo fatta oscura di quello ch’ella è stata fin hora, gli ha con la sua solita liberalità et magnificenza dato carico che ne debba far un copioso volume, raccogliendo tutte quelle cose che si trovano scritte, parte ne’ memoriali et scritture autentiche portate in que’ tempi con molte gioie et thesori dell’acquisto di Constantinopoli in questa città, dagli altri historici che ne han parlato pretermesse, et parte ne’ commentari scritti a penna ritrovati a’ nostri tempi, che mai il Sabellico né alcun altro scrittore ha veduti, d’un grande gentilhuomo francese di molta auttorità et maneggio, il quale, ritrovandosi sempre presente col conte Baldovino di Fiandra et Henrico suo fratello in questa impresa, la volse allhora, come colui che la maneggiò et della quale n’era benissimo instrutto, nella lingua francese con molte belle particolarità et con ogni diligentia descrivere. [74] Questo libro già alquanti anni il clarissimo messer Francesco Contarino, il procuratore di San Marco, essendo ambasciator in Fiandra a Carlo V imperatore l’anno 1541, et havendolo a caso in una libraria d’un monastero trovato, portò seco in questa città, non volendo patire che cosí bella historia, tanto diligentemente et con tanto honore della sua patria per un huomo francese descritta, che altrove non si trovava, rimanesse perpetuamente nascosta in un solo libro scritto a penna dentro una libraria della Fiandra. [75] Hor in queste historie di mio figliuolo si leggeranno le mutationi et i rivolgimenti di quelle signorie, con la morte, creationi et prigionie di tanti imperatori et tiranni ch’erano a quel tempo in molte parti della Grecia et dell’Asia, con la turbulentia del stato loro, et finalmente la perdita di tutto quello imperio che pervenne nei Latini; il dominio de’ Venetiani nella Romania, con suoi privilegii et honoratissime giuriditioni, et con nomi di ciascheduna città, luogo, castello o casale, che cosí nella Thracia come nella Morea et nel Peloponeso le toccarono in sorte nella divisione dello imperio fatta da’ partitori; et dell’isole dello Arcipelago, et de’ signori che l’occuparono, a chi furono tolte; la portione dell’imperio venuto in sorte a’ baroni francesi, che altrimente si chiamavano pellegrini, et quella del medesimo imperatore Balduino et Henrico fratelli, coronati imperatori l’un dopo l’altro, con lor nozze et parentadi dopo l’acquisto dell’imperio fatti; la creatione del marchese di Monferrato in re di Salonichi et l’imperio suo, col maritaggio nella sorella del re d’Ungaria; la morte di Balduino, primo imperatore de’ Latini, al quale, dopo preso da Valachi et Bulgari il primo anno del suo imperio in un conflitto, et tenuto molti mesi prigione, fu tagliata la testa et portata a Ioannizza lor re in Ternoviza, il quale, fattala nettare et trattone gl’interiori, adornata in forma di vaso, con molto oro intorno, la facea adoperare per bere in vece d’una tazza. [76] Si leggerà il valor et la morte del principe Dandolo nell’assedio di Andrinopoli, ove guidava l’essercito dopo la perdita dell’imperatore; il modo con che fu primieramente instituito il podestà che tanti anni tenne questa Republica in Constantinopoli, del qual parla messer Marco Polo nel principio del suo viaggio, con tutti e’ nomi de’ magistrati Venetiani che solevano sedere in quella città et nello imperio; le gioie, i thesori, le colonne, i marmi che vennero di que’ paesi et della Grecia mentre che signoreggiarorno i Venetiani; come furono da Constantinopoli portati que’ quattro bellissimi cavalli di metallo, di mirabil artificio, che Costantino imperatore, tolti dall’arco di Nerone, che egli havea di prima tolti dall’arco di Augusto, portò da Roma a Constantinopoli, et che hora si veghono nel corridore della chiesa di San Marco, sopra la piazza, da tutto il mondo sempre riguardati con somma maraviglia; le molte reliquie d’infiniti huomini santi et beati, di che son piene tutte le chiese et monasteri di questa città, et l’istessa chiesa di San Marco; con le longe guerre, che parte Bonifacio re di Salonichi fece contro Leon Scrugo, tiranno del Peloponeso, che difendendosi con molte astutie teneva Corantho et Napoli di Romania, dando di molto travaglio a’ Latini, et parte che il podestà d’i Venetiani insieme con Francesi et l’imperator Henrico, confederati con Theodoro Brana greco (che solo del rimanente de’ Greci teneva lega con Francesi, per haver per moglie Anna, figliuola di Lodovico sesto re di Francia, padre di Philippo il Pietoso, la quale era stata avanti la presa di Constantinopoli nel primo maritaggio moglie di Alessio, figliuolo di Manoel imperatore), fecero in diversi tempi nella Turchia, prima con Theodoro Lascari, il quale per conto della prima moglie greca pretendeva ragione sull’imperio, et signoreggiava gran parte di quel paese, facendo molti danni a’ Venetiani et Francesi oltra lo streto, et poi contra Ioannizza, re di Valachia et Bulgaria, nella Thracia; il quale, nemico per raggione hereditaria, insino dal tempo |13v| di Pietro et Asane suoi fratelli, del nome greco et latino, havea destrutta Napoli di Thracia, Panedò, Recloie, Zurlù, et molte altre città del loro stato insin a canto Constantinopoli; che finalmente, dopo l’havere molti anni guerreggiato con loro, si morí di mal di punta appresso Salonichi, essendogli paruto una notte in sogno, nel mezo del dormire, vedersi da un soldato passare il costato con una lancia, che fu detto allhora esser il significato della qualità della morte che divinamente doveva essergli mandata. [77] Ma havendo sufficientemente, et forse piú che a bastanza, con tanta digressione et cosí longa diceria dimostrato quello ch’io da prima havea tolto a narrare del principio del libro de questo scrittore, mettendo qui fine mi volgerò ad esporre alcuni pochi luoghi sparsi ne’ libri de messer Marco Polo, i quali, per maggior intelligentia de’ benigni lettori, alcuna dichiaratione richiegono.

Dichiaratione di alcuni luoghi ne’ libri di messer Marco Polo, con l’Historia del rheubarbaro.

[1] La cagione perché messer Marco Polo, nel primo capitolo del suo primo libro, incominciassi a scrivere il suo viaggio dall’Armenia Minore fu questa: che partendosi egli di Acre, ov’era legato Theobaldo de’ Visconti, che fu poi papa Gregorio X, andò per mare al porto della Ghiazza, ch’è nell’Armenia Minore, et fu questo il primo luogo dove smontasse per andare con suo padre et con suo zio al Gran Cane. [2] Et allhora le due Armenie, cioè Minore et Maggiore, erano sotto un principe christiano, qual veniva col suo stato fino sopra il mare della Soria et era tributario de’ Tartari. [3] Però le descrisse secondo che li fu referto da persone idiote; né bisogna che qui el lettore ricerchi da questo scrittore quella diligentia et modo di scrivere che usano Strabone, Tolomeo et altri simili, per ciò che quella età era molto rozza, et non si era anchora introdotto negli huomini quella politezza di lettere et eleganza di stile et modo di descrivere la cosmografia che hora s’usa; aggiunto ancho che in quelli tempi, per le continue guerre state lungamente d’i Tartari, che occuparono tutto il Levante, sí come fecero i Gotthi il Ponente, li termini antichi delle provincie erano tanto confusi, et in maniera cambiati li nomi et mescolata l’una con l’altra provincia, che quantunche egli havessi voluto usare maggiore diligentia, non ci haverebbe per ciò potuto dare miglior cognitione di quella ch’egli ha fatto. [4] Et questa mutatione de’ nomi fu causa che quello che possedeva questo re christiano di Armenia, secondo che dice il principe Ismael, si chiamava il regno de’ Romei, cioè Greci: et fino sopra il sino Issico, ch’è il golfo della Ghiazza, giugnevano i suoi confini, de’ quali informandosi messer Marco intese, come nel secondo capitolo scrive, che dalla parte di verso mezzodí vi è la Terra Santa; da tramontana i Turcomani, che hora si chiaman Caramani; da greco levante Cayssaria et Sevesta; verso ponente il mare Mediterraneo. [5] Et come nel terzo capitolo dice, le due città insieme col Cogno erano nella Turcomania, le quali sono poste da Tolomeo nella Cilicia, et le chiama messer Marco Cayssaria et Sevaste, cioè Cęsarea et Augusta, et Iconium il Cogno, nella Licaonia. [6] Et dicendo Turcomani, nome moderno posto da’ Tartari, havendo io voluto vedere quello che ne parla Ismael nella sua Geographia, m’è parso doverlo qui includere, il quale, descrivendo il lito del mare di Soria et cominciando dalla città di Seleucia, che al suo tempo si chiamava Suidia, dice in questo modo: che ’l principia a voltar il suo corso verso ponente fino che ’l passa i confini del regno de’ musulmani, cioè Turchi (perché al tempo d’Ismael tutta l’Asia Minore era de’ christiani), et tirato un poco di tratto verso tramontana, va alle porte di Scanderona, che son le porte dell’Amano appresso Alessandretta (et quivi è il confine fra musulmani et Aramani, cioè della Cilicia), et poi va alle porte della Ghiazza, ove è il porto della regione di Araman, cioè Cilicia; et voltandosi il lito verso ponente tramontana, scorre fino alla città di Tarso, la qual è in longitudine cinquantotto gradi et in latitudine trentasette et mezo, et tirando pur in ponente passa i confini di Araman fino in Coruch, che si chiama dall’interprete di Ismael Corycium Antrum; qual passato, vi è la region de’ popoli della Turcomania, che sono discesi da Caraman Turcoman, |14r| et in quella regione vi è il monte Caraman che ’l detto interprete chiama monte Tauro, dove dice Ismael ch’al suo tempo habitava la moltitudine di Turcomani, il signor de’ quali si chiamava Avad Caraman, et questo monte s’estende dalli confini della città di Tarso fino al regno de Lascari, che vuol dir all’imperio di Constantinopoli. [7] Questo è quel Theodoro Lascari che hebbe per moglie Anna, una delle figliuole di quello Alessio che cavò gli occhi al fratello Isaac imperatore et si fece tiranno di Constantinopoli, come è detto di sopra; et per tal raggione, signoreggiando i Venetiani et Francesi la città di Constantinopoli et gran parte dell’imperio della Romania, lui tiranneggiava molte città alla marina et fra terra, in quella parte dell’Asia ch’è verso il mar Maggiore et la Propontide, all’incontro di Constantinopoli, la qual hoggidí si chiama la Natolia, o vero la Turchia. [8] Da queste parole si vede (come dice messer Marco) che questi tal popoli turcomani habitavano sopra le montagne et luoghi inaccessibili, come è il monte Tauro et il monte Amano. [9] Darzizi, nel capitolo quarto del primo libro, hora è chiamata Bargis; Paipurth, Carpurt. [10] Del monte altissimo di che nell’istesso capitolo si parla, ove si fermò l’arca di Noè dapoi il diluvio, dicono alcuni scrittori questo essere quello dove sono i monti Gordiei, quali Strabone vuole che siano una parte del monte Tauro. [11] La provincia della Zorzania, al quinto capitolo, è quella che, appresso Strabone, Plinio et Tolomeo detta Hiberia, fu da questo nome chiamata per memoria del valoroso et glorioso martire San Zorzi, che ivi predicò la fede del nostro Signor Iesú Christo: per il che è ancho in grandissima veneratione appresso tutti que’ popoli. [12] Del mar Abbacú, over Hircano o Caspio, di che si parla in questo istesso capitolo, dirò brevemente quello che ne ho trovato in diversi auttori, sí antichi come moderni, anchor che si comprenda che poco ne sappino, et che messer Marco istesso ne tocchi un poco: et questo è che tutti metteno terra incognita sopra quello alla volta di tramontana, dove dicono essere la regione detta Turquestan da Ismael, et da messer Marco la gran Turchia; di verso mezzodí vi sono due città famose per li suoi porti, l’una Derbent, cioè la Porta di Ferro over Porte Caspie, et l’altra Abbacú, che dette il nome al mare; qual al tempo di Augusto Cesare non si sapeva che ’l fusse serrato di sopra, come al presente si sa ch’è come un lago, ma pensavasi che ’l fusse un brazzo del mare Oceano che dalla parte di tramontana entrasse in quello, come recita Strabone, dicendo che Pompeo, nella guerra contra Mithridate, ne havea scoperto gran parte. [13] Ismael, parlando di quello, dice: «Questo mare è salso, né vi entra in quello l’Oceano, ma è del tutto separato et quasi come rotondo, et s’estende in lunghezza per ottocento miglia et per larghezza seicento, et che la sua rotundità è forma ovale, anchor che altri voglino che la sia triangulare; et chiamasi con tre nomi, cioè el Cunzar, Giorgian, Terbestan. [14] La sua parte di verso ponente sono gradi 66 di longitudine et 41 di latitudine. [15] Appresso la Porta di Ferro, andando verso mezzodí per 153 miglia, vi sono le bocche del fiume Elcur, che si chiama Cyro appresso Tolomeo. [16] Andando verso siroco si trova la città di Mogan della provincia di Ardiul; ma al’ultima volta di mezzodí, passati 231 miglia, si trova la region del Terbestan, et in quel lito vi sono le provincie di Elgil et Deilun. [17] Poi, voltatosi verso levante, si viene alla città di Abseron, la qual è in longitudine gradi 79.45, et in latitudine 37.20, et scorre verso levante fino a 80 gradi di longitudine et 40 di latitudine; et andando avanti fino a gradi 50 di latitudine et 79 di longitudine si volta verso tramontana, dove sono le provincie del Turquestan et il monte Sebacuat. [18] Et in questo progresso il fiume Elatach, per essere il maggiore di tutti quelli che sono in quelle regioni, scarica in mare le sue acque con molte bocche, et fa grandissimi canneti et paludi; et gli habitanti vicini che ivi navicano referiscono che, come le acque del detto giungono in mare, le acque salse et chiare divengono di varii colori, et se navica molti giorni sempre trovando l’acqua dolce». [19] La qual cosa conferma Plinio dicendo che, essendo Pompeo nella istessa guerra contra Mithridate, li fu affermato che alcune parti del detto mare erano dolci, per la gran moltitudine de’ fiumi che corrono in quello. [20] Questo fiume Elatach è quello che Tolomeo chiama Rha, et li volgari Herdil, over Volga. [21] Del miracolo de’ pesci, che dice nel quinto capitolo messer Marco Polo che si p‹i›gliano per li quaranta giorni della quadragesima nel lago di Geluchalat, dove è il monasterio di San Leo|14v|nardo, dico che il prefato Abylfada Ismael fa mentione di questo istesso lago et lo chiama Argis, et lo mette nelli confini di tre provincie, cioè Armenia, Assiria et Media, sopra le ripe del quale vi sono queste città: Calat, che si deve credere che vi desse il nome, secondo che lo chiama messer Marco, et poi Argis, Van et Vastan. [22] Et dice che si pesca per 40 giorni nella primavera una sola sorte di pesce detto “tarichio”, quale si secca all’aere dal vento et si porta poi per gran mercantia per tutte le regioni vicine, et dapoi per tutto l’anno piú non si vede. [23] In conformità delle quali parole leggesi scritto in alcuni memoriali di un huomo francese molto dotto, nominato messer Pietro Gillio, che mi fur mostrati alli mesi passati: qual del 1547 si trovò nel campo del gran Turco Solyman Otthoman, quando egli andò contra “siac” Tecmes il Sophí, et vidde questo istesso lago, quale dice credere che sia quello che da Strabone vien detto Martiana Palus; ne’ quali esso messer Pietro scrive che per 40 giorni solamente della primavera pigliano di detto pesce in tanta quantità che seccato ne cargano i carri per mandare nelli paesi circonvicini, per essere buonissimo et molto desiderato da ognuno: passati li detti 40 giorni, piú non si vede. [24] Che veramente al tempo di messer Marco Polo sopra detto lago vi fusse un monastero de’ monachi di San Leonardo è cosa credibile et molto verisimile, perché gli habitatori erano tutti Armeni, cioè christiani. [25] Questo lago di Argis, secondo Ismael, è in gradi 67.5 di longitudine, 38.30 di latitudine; secondo altri poi 66.20, 40 et 8 o vero 68.5 di longitudine, 40.35 di latitudine. [26] Dell’andanico, di che parla messer Marco nel capitolo 19 del primo libro, quando dice che nella città di Cobinam, dove si fanno i specchi di azzale finissimo molto belli et grandi, vi è assai andanico, è da sapere che, havendone io per mezo di messer Michele Mambré, interprete di questa illustrissima Signoria nella lingua turca, dimandato molte volte a molti Persiani venuti qui in Venetia in diversi tempi con loro mercantie, m’hanno detto tutti in conformità andanico essere una sorte di ferro over azzale, tanto eccellente et precioso et stato sempre di tanta stima in tutte quelle parti che, quando uno alli tempi antichi poteva havere un specchio o vero una spada di andanico, li teneva non piú come una spada o come un specchio, ma come molto cara gioia. [27] Nel capitolo 38 del primo libro di messer Marco Polo, trattandosi del rheubarbaro, che nasce nella provincia di Succuir et è de lí portato in queste nostre parti et per tutto il mondo, parendomi questa cosa fra tutte l’altre degna di cognitione, per l’uso grande in che tutti gl’huomini communemente l’adoperano nelle lor malatie hoggidí, né sapendo io che fin hora in alcuno libro si legha tanto di quello quanto già intesi da un huomo persiano di molto bello ingegno et giudicio, mi pare qui essere sommamente necessario ch’io particolarmente descriva quel poco che gl’anni passati hebbi ventura d’intendere da costui, il quale era chiamato Chaggi Memet, nativo della provincia di Chilan, appresso al mare Caspio, d’una città detta Tabas; et era personalmente stato fino in Succuir, essendo dipoi in Venetia quelli mesi venuto con molta quantità di detto rheubarbaro. [28] Questo adunche, essendo io andato quel giorno che ne ragionammo a desinare a Murano fuori di Venetia (e per uscire della città, per ciò che ero assai libero da’ servigi della Republica, et per goderlo con nostro maggiore contento), havendo per sorte in mia compagnia l’eccellente architetto messer Michele San Michele di Verona et messer Thomaso Giunti, miei carissimi amici, dopo levato il mantile di tavola nel fine del desinare, per il mezo di messer Michele Mambré, huomo dottissimo nella lingua araba, persiana et turcha, et persona di molto gentili costumi, il quale è per il suo valore hoggidí interprete de questa illustrissima Signoria nella lingua turcha, incominciò a dire cosí, et il Mambré interpretava. [29] Primieramente che egli era stato a Succuir et Campion, cittadi della provincia di Tanguth nel principio del stato del Gran Cane, il quale disse che si chiamava Daimir Can et mandava suoi rettori al governo di dette cittadi (dele quali parla messer Marco nel libro primo al capitolo 38, 39), le quali son le prime verso il paese de’ musulmani che siano idolatre; et vi andò con la caravana che va con mercantie del paese della Persia et da quelli vicini al mare Caspio per le regioni del Cataio, la qual caravana non lassano costoro che penetri piú avanti di Succuir et Campion, né similmente alcun mercante che sia in quella, eccetto che se non andasse ambasciatore al Gran Cane. |15r| [30] Questa città di Succuir è grande et populatissima, con bellissime case fatte di pietre cotte al modo nostro, et ha molti tempii grandi con loro idoli di pietra viva; posta in una pianura dove corrono infiniti fiumicelli, la quale è abondantissima di vettovaglie d’ogni sorte, et dove si fanno sete con gli alberi di more negre in grandissima quantità. [31] Non vi nasce vino, ma fanno la lor bevanda con mele a modo di cervosa; de frutti, per esser il paese freddo, non vi nascono altri che peri, pomi, armellini, persichi, melloni et angurie. [32] Dipoi disse che il rheubarbaro nasce da per tutto in quella provincia, ma molto miglior che altrove in alcune montagne ivi vicine, alte et sassose, dove sono molte fontane et boschi di diverse sorti d’altissimi alberi; et la terra è di color rosso, et per le molte pioggie et fontane che da per tutto corrono quasi sempre fangosa. [33] Quanto alla radice et foglie, havendone il predetto mercante per sorte portata seco dal paese una picciola pittura, per quello che si vedeva diligentemente et con molto artificio dipinta, trattosela di seno ce la mostrò et descrisse, dicendo quella esser la vera et natural figura del rheubarbaro: della quale ne presi un ritratto per metterlo qui sotto in disegno, insieme con la sua historia et dichiaratione, secondo la relatione havuta da lui.



[34] Sono adunche dette foglie lunghe ordinariamente, come disse, due spanne, ma piú et meno poi secondo la grandezza della pianta, strette da basso et larghe di sopra. [35] Hanno nella loro circonferentia un certo pelo piccolino, o lanugine che vogliamo dire; il tronco che viene sopra la terra, al quale sono attaccate le foglie, è verde et alto quattro dita et anco un palmo da terra, et nascono le foglie similmente verdi, ma come s’invechiscono divengono gialle, sí come erano in pittura, et si distendono per terra. [36] Produce il detto tronco nel mezzo un certo ramucello sottile con alcuni fiori attaccati d’ogni intorno, simili alle viole mammole nella forma, ma di colore di latte et azurro et alquanto maggiori delle viole mammole sopradette, l’odor de’ quali è molto acuto et fastidioso, et in modo che dispiace assai a coloro che l’odorano. [37] La radice similmente che sta sotto terra è lunga un palmo o due fino in tre, di color nella scorza tanè, sí come ve ne sono di grosse et sottili secondo la proportione; de’ quali ancho se ne ritrovano fino della grossezza come è la coscia d’un huomo et come è il mezzo della gamba. [38] Ha questa radice molte altre radicette piccoline intorno che nascono da llei et sono sparse per la terra, le quali prima si levano via, et poi si taglia la radice grossa per fare in pezzi; la quale di dentro è di color giallo et ha molte vene di bellissimo rosso, et è piena di molto sugo giallo et rosso, et di modo viscoso che, toccandolo, facilmente s’attacca alle dita |15v| et fa la mano gialla. [39] Dipoi tagliata la radice et fatta in pezzi, disse che se la volessero appicar allhora allhora per seccarla, tutto il sugo giallo viscoso uscirebbe fuori et cosí diventerebbe leggiera, onde credono che perderebbe assai della sua bontà et perfettione: per ciò mettono detti pezzi tutti sopra alcune lunghe tavole, et ogni giorno tre et quattro volte gli vanno voltando et rivoltando, acciò il sugo s’incorpori dentro et resti nella radice congelato. [40] Nel fine poi di quattro o sei giorni gli bucano et gli appiccano con cordicelle all’aria et al vento, dove però non vi aggiunghino i raggi del sole: et in questo modo si ha il rheubarbaro in due mesi secco, et si fa molto buono et perfetto. [41] Mi disse anchora che loro osservono ordinariamente di cavare il rheubarbaro della terra l’invernata, perché in tal tempo (avanti che cominci a mandare fuora le foglie) il sugho et la virtú è tutta unita et raccolta nella sua radice: il qual tempo è avanti la primavera, la quale nel paese di Campion et Succuir viene alla fine di maggio. [42] Et di piú mi disse che quelle radici del rheubarbaro che si cavano la state, et in quei tempi che le foglie sono fuora, non sono mature né hanno quel sugho giallo che hanno quelle che son cavate l’invernata, et di piú sono funghose, rare, leggieri et asciutte, né manco hanno quel colore rosso, né sono di quella bontà che quelle che sono cavate l’inverno. [43] Disse anchora che quelli che vanno a cavare dette radici sopra i detti monti dove le nascono, portate che l’hanno alla pianura cosí verde et con le foglie in quel modo che l’hanno cavate della terra, le mettono sopr’alcuni lor carri, et ne vendono pieno un carro con le foglie per sedici saggi d’argento; perché quivi non hanno moneta battuta, ma fanno l’argento et l’oro in alcune verghette sottili et le tagliono in pezzetti piccolini del peso di un saggio, ch’è quasi simile al nostro: quale essendo d’argento, vale venti soldi di Venetia in circa, et essendo d’oro vale uno scudo et mezzo d’oro. [44] Il qual rheubarbaro, cosí frescamente comperato, è dipoi dalli comperatori acconcio et secco nel modo che di sopra s’è detto. [45] Et mi raccontò cosa di gran meraviglia, cioè che, se non vi andassero in quelle parti del continuo i mercanti a dimandarglielo, non lo ricoglierebbero mai, perché d’esso non ne fanno stima. [46] Et coloro che venghono della China et India ne levano maggior quantità di tutti gli altri, li quali, quando è condotto in Succuir sopra quei carri over some, se non lo tagliassero et governassero prestamente, in termine di quattro o sei giorni diventerebbe marccio et sobbollirebbe. [47] Et mi affermò anchora, di quello ch’egli haveva portato seco in questa città, che ne comperò ben sette some di verde, il qual poi fatto secco et acconcio non venne piú che una picciola soma. [48] Et mi disse anchora che quando gli è verde è tanto amaro che non si può gustare, et che nelle terre del Cataio non l’adoperano per medicina sí come facciamo noi qua, ma lo pestano et compongono con alcune altre misture molto odorifere et ne fanno profumo agl’idoli; et in alcuni altri luoghi ve n’è tanta copia che l’abbrucciano continuamente secco in cambio di legne; altri, come hanno i lor cavalli malati, gliene danno di continuo a mangiare, tanto è poco stimata questa radice in quelle parti del Cataio. [49] Ma ben aprezano molto piú un’altra piccola radice, la quale nasce nelle montagne di Succuir, dove nasce il rheubarbaro, et la chiamano “mambroni cini”, et è carissima; e’ l’adoperano ordinariamente nelle lor malattie, et massime in quella degl’occhi, perché, se trita sopra una pietra con acqua rosa unghano gl’occhi, sentono un mirabile giovamento; né crede che di quella radice ne sia portata in queste parti, né meno disse di saperla descrivere. [50] Et di piú, vedendo il piacer grande ch’io sopra gl’altri pigliavo di questi ragionamenti, mi disse che per tutto il paese del Cataio si adopera ancho un’altra herba, cioè le foglie, la quale da que’ popoli si chiama “chiai catai”: et nasce nella terra del Cataio ch’è detta Cacianfu, la quale è commune et aprezzata per tutti que’ paesi. [51] Fanno detta herba, cosí secca come fresca, bollire assai nell’acqua, et pigliando di quella decottione uno o duoi bichieri a digiuno, leva la febre, il dolor di testa, di stomaco, delle coste et delle giunture, pigliandola però tanto calda quanto si possi soffrire; et di piú disse esser buona ad infinite altre malattie, delle quali egli per alhora non si ricordava, ma fra l’altre alle gotte; et che se alcuno per sorte si sente lo stomaco grave per troppo cibo, presa un poco di questa decottione, in breve tempo harà digerito. [52] Et per ciò è tanto cara et aprezzata che ognuno che va in viaggio ne vuol portare seco, et costoro volentieri darebbono, per quello ch’egli diceva, sempre un sacco di rheubarbaro per un’onccia di chiai catai; et che quelli popoli cataini dicono che, se nelle nostre parti et nel paese della Persia et Franchia la si conoscesse, i mercanti senza dubio non vorrebbono piú comperare “ravend cini” (che cosí chiamano loro il rheubarbaro). [53] Quivi fatto un poco di pausa, et fattoli domandare s’egli mi voleva dire altro del rheubarbaro, et rispostomi |16r| non haver altro, essendo il giorno molto lungo anchora, et per non perdere quel resto della giornata che avanzava senza qualche altro piacere, come havevamo fatto fin allhora, gli domandai che viaggio egli nel suo ritorno da Campion et Succuir havea fatto venendo a Constantinopoli, et se me lo havesse saputo raccontare. [54] Risposemi per il Mambré nostro interprete che mi narrarebbe il tutto volontieri, et incomminciò a dire che egli non era già ritornato per quella istessa via che havea prima fatta andando con la carovana, per ciò che, al tempo che egli si voleva partire, occorse che que’ signori tartari dalle berette verdi, chiamati “Iescilbas”, mandarono per sorte un loro ambasciadore con molta compagnia per la via della Tartaria deserta sopra il mar Caspio al gran Turco a Constantinopoli, per far lega et andare contra il Soffí, lor commune nimico: per la qual occasione di compagnia gli parve bene di venire con loro, havendo, oltra la commodità del viaggio, molto vantaggio anche nel vivere, et cosí venne con loro fino a Caffa; ma che per ciò non resterebbe di raccontare volentieri il viaggio ch’egli haveria fatto se fusse ritornato per la strada che l’era andato. [55] Onde disse che ’l viaggio sarebbe stato questo: cioè che, partendosi dalla città di Campion, sarebbe venuto a Gauta, ch’è lo spacio di sei giornate lontana, perché ogni giorno fanno tante “farsenc” (e una farsenc persiana è tre delle nostre miglia), et fanno che una giornata sia 8 farsenc, ma per causa di deserti et monti non ne fanno la metà, anchora che le giornate che fecero per li deserti fossero la metà dell’altre ordinarie. [56] Da Gauta si viene a Succuir in 5 giornate, et da Succuir a Camul in quindici, dove incomminciano ad essere musulmani, essendo fino qui stati idolatri; et da Camul a Turfon in tredeci, et da Turfon si passano tre città: la prima Chialis, che vi sono 10 giornate; poi Chuchia, altre 10; poi Acsú, 20 giornate. [57] Da Acsú a Cascar altre 20 giornate di asprissimo deserto, essendo stato il primo viaggio fin lí per luoghi habitati; da Cascar a Samarcand 25; da Samarcand a Bochara, nel Corassam, cinque; da Bochara ad Eri 20; et quindi si viene a Veremi in 15 giornate, et poi a Casibin in 6, et da Casibin a Soltania in 4, et da Soltania alla gran città di Tauris in sei. [58] Questo è quanto sottrassi da questo mercante persiano, et la relatione di tal viaggio mi fu tanto piú grata quanto che riconobbi, con mio molto contento, li medesimi nomi di molte città et alcune provincie essere scritti nel primo libro del viaggio de messer Marco Polo, per causa del quale mi è paruto in parte necessario doverla qui raccontare. [59] Parmi conveniente qui anchora aggiugnere un breve sommario fattomi dal sudetto Chaggi Memet, mercante persiano, avanti il suo partire di questa città, d’alcuni pochi particolari della città de Campion et di quelle genti; li quali sí come da lui brevemente et per capi furono referiti, cosí io qui nel medesimo modo gli racconterò a beneficio et utile de’ benigni lettori. [60] La città di Campion è habitata da popoli che sono idolatri, soggetta alla signoria de Daimir Can, grande imperatore de’ Tartari; la qual città è posta in una fertilissima pianura tutta coltivata et abondante d’ogni sorte di vivere. [61] Vanno vestiti quei popoli di tele di bombagio di color negro, l’inverno fodrate di pelle di lupi et di castroni li poveri, et li ricchi di zibellini et martori di gran prezzo; portano le berette nere, aguzze come un pane di zucchero. [62] Gl’huomini sono piú tosto piccoli che grandi; usano di portare barba come noi, et massime certo tempo dell’anno. [63] Le fabriche delle lor case son fatte al modo nostro, di pietre cotte et di pietre vive, con dui et tre solari, quali sono soffitadi et dipinti di pittura de varii et diversi colori et di figure; vi sono anche infiniti pittori, et vi è una contrada dove non habita altri che pittori. [64] I signori per pompa et magnificenza fanno fare un solaro grande, sopra il quale vi fanno dirizzare duoi padiglioni di seta, riccamati d’oro et d’argento et con molte perle et gioie, dove stanno loro et gl’amici suoi, et lo fanno portare da 40 in 50 schiavi, et cosí vanno per la città a solazzo; i gentilhuomini vanno sopra un solaro scoperto semplicemente portato da 4 over 6 huomini, senza altro ornamento. [65] I tempii loro sono fatti al modo delle nostre chiese, con le colonne per lungo, et ve ne sono de cosí grandi che vi sarebbono capaci di quattro o cinquemila persone; et vi sono anchora due statue, cioè d’un huomo et d’una donna, lunghe 40 piedi l’una, distese per terra, tutte dorate, et sono tutte d’un pezzo. [66] Et vi sono valenti tagliapiere; |16v| fanno condurre pietre vive da due et tre mesi di camino sopra carri di 40 ruote ferrate, alti di ruote, tirati da 500 in 600 fra cavalli et muli. [67] Sonvi altre statue piccole, che hanno sei et sette capi et dieci mani, che tengono ciascuna diverse cose, come saria dire una un serpe, l’altra un uccello et l’altra un fiore. [68] Sonvi alcuni monasterii dove stanno molti huomini di santissima vita, et hanno le porte della lor stantia murate, sí che non possono mai uscire in vita loro: et gli viene ogni giorno portato il vivere. [69] Sonvi poi infiniti, come nostri frati, che vanno per la città. [70] Hanno per costume, quando muore alcun lor parente, di vestirsi per molti giorni di bianco, cioè di tele di bombagio; ma le veste sue sono fatte però al modo nostro, lunghe fino in terra et con le maniche assai grandi, simili alle nostre a gomedo che portiamo a Venetia. [71] Hanno la stampa in quel paese, con la quale stampano suoi libri. [72] Et desiderando io chiarirmi se quel loro modo di stampare è simile al nostro di qua, lo condussi un giorno nella stamparia di messer Thomaso Giunti a San Giuliano per fargliela vedere: il quale, vedute le lettere di stagno et li torcholi con che si stampa, disse parergli che havessero insieme grande similitudine. [73] Hanno la città fortificata con un muro grosso et di dentro pieno di terra, sí che vi possono andare 4 carra al pari; sonvi li suoi torrioni sulle mura et le artigliarie poste tanto spesse, non altrimente che sono quelle del gran Turco. [74] Usano la fossa largha, asciuta, ma però che vi possono far correre l’acqua ad ogni lor piacere. [75] Hanno alcuna sorte de buoi molto grandi, che hanno il pelo lungo, sottilissimo et bianchissimo. [76] È vietato alli Cataini et idolatri partirsi del suo nativo paese et andare per mercantie per il mondo. [77] Oltra il deserto che è sopra il Corassam, fino a Samarcand et fino alle città idolatre, signoreggiano Iescilbas, cioè le berette verdi, le quali berette verdi son alcuni Tartari musulmani che portano le loro berette di feltro verde acute, et cosí si fanno chiamare a differentia de’ Soffiani, suoi capitali nemici, che signoreggiano la Persia, pur anche essi musulmani, i quali portano le berette rosse. [78] Quale berette verdi et rosse hanno continuamente havuta fra sé guerra crudelissima, per causa de diversità de opinione nella loro religione et discordia de’ confini. [79] Delle cittadi delle berette verdi che hanno imperio et signoreggiano sono fra l’altre, al presente, l’una Bochara et l’altra Samarcand, che ciascuna ha signoria da sua posta. [80] Hanno tre scientie particolari, che chiamano l’una “chimia”, ch’è quella che noi chiamiamo alchimia; l’altra “limia”, per fare inamorare; et l’altra “simia”, per fare vedere quello che non è. [81] Le monete qui non sono battute, ma ogni gentilhuomo et mercante fa fare in verghette sottili l’oro o vero argento, et quello fa dividere in saggi et spende quelli: et cosí fanno tutti gl’habitanti di Campion et Succuir. [82] Si riducono ogni giorno sulla piazza di Campion molti ceretani, che hanno la scientia di simia, mediante la quale, circondati da infinita moltitudine di persone, fanno vedere cose maravigliose, come è dire di passare un huomo ch’hanno seco da un canto all’altro con una spada, tagliarli un braccio, fare vedere a tutti il sangue, et simil cose. [83] Nel capitolo 42 et 53 del primo libro, ove dice messer Marco Polo che sotto la tramontana vi era un gran signore detto Um Can, che vogliono alcuni questo nome dire Prete Ianni nella nostra lingua, et che la sua prencipale sedia era in due regioni, Og et Magog, è da sapere che in tutte quelle carte da navigare che si vegghono hoggidí, fatte già 200 et 300 anni, vi è posto questo Prete Ianni sotto la tramontana et sopra l’India fra il Gange et l’Indo, et di quello ch’è nell’Ethiopia non vi è fatta mentione alcuna. [84] Et Abylfada Ismael istesso, descrivendo li confini della regione delle Cine, dice che ha dalla parte di ponente le Indie, da mezogiorno il mare Indico, et da levante il mare Orientale, et |17r| da tramontana le provincie de Gogi Magogi, cioè de’ Tartari. [85] Descrivendo poi il predetto i luoghi della terra habitabile che circuendo il mare Oceano tocca, dice cosí: «Rivoltasi l’Oceano da levante verso le regione delle Cine et va alla volta di tramontana, et passata finalmente la detta regione se ne giunge a Gogi et Magogi, cioè alli confini degli ultimi Tartari, et di quivi ad alcune terre che sono incognite; et correndo sempre per ponente, passa sopra li confini settentrionali della Rossia et va alla volta di maestro». [86] Di qui è che, havendo udito messer Marco et veduto in carte da navicare il detto Prete Ianni posto sotto la tramontana con le provincie de Ogi et Magogi, descrisse quello di tramontana et tacque di quello dell’Ethiopia. [87] Et anchor che metti un signore christiano nell’Ethiopia, non dice però il suo nome, anzi dice nel capitolo 38 del terzo libro che ad un suo vescovo, quale lui havea mandato in Hierusalemme, fu fatto un grandissimo oltraggio dal soldano di Adem, che lo fece per dispreggio circoncider: il che manifestamente dimostra che non hebbe mai notitia di quello di Ethiopia, perché sempre tutti gli Abissini sono stati circoncisi. [88] Resta ch’io dica anchora in generale alquante cose sopra questo libro, ch’io già essendo giovane udi’ piú volte dire dal molto dotto et reverendo don Paolo Orlandino di Firenze, eccellente cosmografo et molto mio amico, che era priore del monasterio di San Michele di Murano a canto Venetia, dell’ordine de Camaldoli, che mi narrava haverle intese da altri fratri vecchi pur del suo monasterio. [89] Et questo è come quel bel mapomondo antico miniato in carta pecora, et che hoggidí anchor in un grande armaro si vede a canto il lor choro in chiesa, la prima volta fu per uno loro converso del monasterio, quale si dilettava della cognitione di cosmografia, diligentemente tratto et copiato da una belissima et molto vecchia carta marina et da un mapamondo, che già furono portati dal Cataio per il magnifico messer Marco Polo et suo padre; il quale, cosí come andava per le provincie di ordine del Gran Can, cosí aggiugneva et notava sopra le sue carte le città et luoghi ch’egli ritrovava, come vi è sopra descritto. [90] Ma per ignorantia di un altro che dopo lui lo dipinse et forní, aggiugnendovi la descrittione di huomini et animali di piú sorti et altre sciocchezze, vi furono aggiunte tante cose piú moderne et alquanto ridiculose, che appresso gli huomini di giudicio quasi per molti anni perse tutta la sua auttorità. [91] Ma poi che non molti anni sono per le persone giudiciose s’è incominciato a leggere et considerare alquanto piú diligentemente questo presente libro di messer Marco Polo che fin hora non si havea fatto, et confrontare quello ch’egli scrive con la pittura di lui, immediate si è venuto a conoscere che ’l detto mapamondo fu senza alcuno dubbio cavato da quello di messer Marco Polo, et incominciato secondo quello con molto giuste misure et bellissimo ordine: onde fin al presente giorno è dapoi continuamente stato in tanta veneratione et precio appresso tutta questa città, et coloro massime che si dilettano delle cose di cosmografia, che non è mai giorno che d’alcuno non sia con molto piacere veduto et considerato, et fra gli altri miracoli di questa divina città, nell’andare de’ forestieri a vedere i lavori di vetro a Murano, non sia per bella et rara cosa mostrato. [92] Et anchor che quivi si vegghino molte cose essere fatte alquanto confusamente et senza ordine, grado o misura (il che si deve attribuire a colui che ’l dipinse et forní), vi si comprendono per ciò di molto belle et degne particularità, non sapute anchora né conosciute meno dagli antichi: come che verso l’antartico, ove Tolomeo et tutti gli altri cosmografi mettono terra incognita senza mare, in questo di San Michele di Murano già tanti anni fatto si vede che ’l mare circonda l’Africa et che vi si può navicare verso ponente, il che al tempo di messer Marco si sapeva, anchor che a quel capo non vi sia posto nome alcuno, qual fu per Portughesi poi a’ nostri tempi l’anno 1500 chiamato di Buona Speranza. [93] Vi si vede appresso l’isola di Magastar, hora detta di San Lorenzo, et quella di Zinzibar, delle quali messer Marco parla ne’ capitoli 35 et 36 del terzo libro, et molte altre particularità nelli nomi dell’isole orientali, che dapoi per Portughesi a’ tempi nostri sono state scoperte. [94] Dalla parte poi di sotto la nostra tramontana, che ciascuno scrittore et cosmografo |17v| di questi et de’ passati tempi fin hora vi ha messo et mette mare congelato, et che la terra corra continuatamente fino a 90 gradi verso il polo, sopra questo mapamondo, all’incontro, si vede che la terra va solamente un poco sopra la Norveg‹i›a et Svetia, et voltando corre poi greco et levante nel paese della Moscovia et Rossia et va diritto al Cataio. [95] Et che ciò sia la verità, le navigationi che hanno fatte gl’Inglesi con le loro navi volendo andare a scoprire il Cataio al tempo del re Odoardo sesto d’Inghilterra, questi anni passati, ne possono far vera testimonianza: perché nel mezo del loro viaggio, capitate per fortuna ai liti di Moscovia, dove trovarono allhora regnare Giovanni Vaschelluich, imperatore della Rossia et granduca di Moscovia, il quale con molto piacere et maraviglia vedutogli fece grandissime carezze, hanno trovato quel mare essere navigabile et non agghiacciato. [96] La qual navigatione (anchor che con l’esito fin hora non sia stata bene intesa), se col spesso frequentarla et col lungo uso et cognitione di que’ mari si continuerà, è per fare grandissima mutatione et rivolgimento nelle cose di questa nostra parte del mondo. [97] Et tutte queste particolarità senza dubio alcuno furono cavate dalle carte et mapamondo del Cataio, perché messer Marco non fu mai nel seno Arabico né verso l’isole quivi vicine, et gran parte dell’informatione del terzo libro è da credere che gli fussi data da marinari di quelli mari d’India, li quali grossamente gli dicevano per arbitrio loro quanto era da un’isola all’altra (e mille et duemila miglia a loro non pareva troppo gran cosa); et anche per qual vento vi si andasse non sapevano cosí chiaramente come al presente si sa, per le carte sí diligentemente et con tanta misura fatte et con li venti et con li gradi. [98] Et vi sono ancho de’ nomi di una medesima provincia duplicati, di che il lettore non piglierà ammiratione; et alcuna volta in cambio di isole dice regni: come nella Zava minore, al capitolo decimo del terzo libro, mette otto regni, li quali a giudicio di huomini pratichi sono isole, come saria dire che il regno di Samatra (chiamata da lui Samara) è quella grandissima isola di Sumatra, et cosí di molte altre le quali al presente ci sono incognite, che nell’avenire, col tempo et per la navigatione de’ Portughesi, facilmente si saperanno. [99] Si conosce anchora come al suo tempo non vi era el bussolo et la calamita a’ nostri tempi ritrovata, cosa tanto maravigliosa et rara, né si sapeva la elevatione del Polo con li gradi come hora si sa, ma grossamente guardandolo dicevano: «la stella tramontana può essere tanti cubiti o braccia alta dal mare». [100] Il fabricare delle navi, nel principio del terzo libro, è simil a quello che usano nell’isole delle Moluche et la China. [101] Ultimamente nel fine del terzo libro, ove parla della Rossia et del regno delle Tenebre, come quello che in varii mapamondi antichi è posto per fine del nostro habitabile sotto la tramontana non s’inganna punto del sito del detto regno, nelli mesi però ch’egli scrive dell’inverno. [102] Et questo basti per hora per dichiaratione d’alcuni luoghi del libro di messer Marco Polo.

|1r| Prohemio primo sopra il libro di messer Marco Polo, gentilhuomo di Venetia, fatto per un Genovese.

[1] Signori, principi, duchi, marchesi, conti, cavallieri, gentilhuomini, et chadauna persona che ha piacere et desidera di cognoscer varie generation di huomini et diverse regioni et paesi del mondo et saper li costumi et usanze di quelli, leggete questo libro, perché in esso troverete tutte le grandi et maravigliose cose che si contengono nelle Armenie Maggior et Minor, Persia, Media, Tartaria et India, et in molte altre provincie dell’Asia, andando verso il vento di greco levante et tramontana; le qual tutte per ordine in questo libro si narrano secondo che ’l nobil messer Marco Polo, gentilhuomo venetiano, le ha dettate, havendole con gli occhi proprii vedute. [2] Et perché ve ne sono alcune le quali non ha vedute, ma udite da persone degne di fede, però nel suo scrivere le cose per lui vedute mette come vedute, et le udite come udite: il che fu fatto acciò che questo nostro libro sia vero et giusto senza alcuna bugia, et chadaun che ’l leggerà overo udirà gli dia piena fede, perché il tutto è verissimo. [3] Et credo certamente che non sia christiano né pagano alcuno al mondo che habbi tanto cercato né camminato per quello come il prefato messer Marco Polo, perciò che dal principio della sua gioventú sino all’età di quaranta anni ha conversato in dette parti. [4] Et hora, ritrovandosi prigione per causa della guerra nella città di Genova, non volendo star otioso, gli è parso, a consolation dei lettori, di voler metter insieme le cose contenute in questo libro, le quali son poche rispetto alle molte et quasi infinite ch’egli haveria potuto scrivere, s’egli havesse creduto di poter ritornar in queste nostre parti. [5] Ma pensando essere quasi impossibile di partirsi mai dalla obedienza del Gran Can re de’ Tartari, non scrisse sopra i suoi memoriali se non alcune poche cose, le quali anchora gli pareva grande inconveniente che andassero in oblivione, essendo cosí mirabili, et che mai da alcun altro erano state scritte, acciò che quelli che mai le sono per vedere, al presente con il mezzo di questo libro le cognoschino et intendino qual fu fatto l’anno del MCCXCVIII.

|1v| Prohemio secondo sopra il libro di messer Marco Polo, fatto da fra Francesco Pipino bolognese dell’ordine dei frati predicatori, quale lo tradusse in lingua latina et abbreviò, del MCCCXX.

[1] Per prieghi di molti reverendi padri mei signori, io tradurrò in lingua latina dalla volgare il libro del nobil, savio et honorato messer Marco Polo, gentilhuomo di Venetia, delle conditioni et usanze delle regioni et paesi dell’oriente, dilettandosi hora i prefati miei signori piú di leggerlo in lingua latina che in la volgare. [2] Et acciò che la fatica di questo tradurre non para vana et inutile, ho considerato che per il leggere di questo libro, che per me sarà fatto latino, i fedel huomini che sono fuori dell’Italia possono ricever merito da Dio di molte gratie, però che essi, vedendo le maravigliose operationi di Dio, si potranno molto admirare della sua virtú et sapientia; et considerando che tanti popoli pagani sono pieni di tanta cecità et orbezza et di tante spurcitie, li christiani ringratiaranno Dio il qual, illuminando i suoi fedeli di luce di verità, si ha degnato di cavargli da cosí pericolose tenebre, menandoli nel suo maraviglioso lume di gloria; o che quelli christiani, havendo compassione et cordoglio dell’ignoranza dei detti pagani, pregheranno Dio per lo illuminare dei cuori di quelli; o che per questo libro la durezza et ostination dei non devoti christiani si confonderà, vedendo gl’infedeli popoli piú pronti ad adorare gli idoli falsi che molti christiani il Dio vero; o forse che alcuni religiosi per amplificare la fede christiana, vedendo che ’l nome del nostro Signor dolcissimo è incognito in tanta moltitudine di popoli, si commoveranno ad andare in quei luoghi per illuminar quelle accecate nationi degl’infideli: nel qual luogo, secondo che dice l’Evangelio, è molta biada et pochi lavoratori. [3] Et acciò che le cose che noi non usiamo né havemo udite, le quali sono scritte in molte parti di questo libro, no parino incredibili a tutti quelli che le leggeranno, si dinota et fa manifesto che ’l sopradetto messer Marco, rapportator di queste cosí maravigliose cose, fu huomo savio, fedele, devoto et adornato di honesti costumi, havendo buona testimonianza da tutti quelli che lo conoscevano, sí che per il merito di molte sue virtú questo suo rapportamento è degno di fede; et messer Nicolò suo padre, huomo di tanta sapienza, similmente le confirmava; et messer Maffio suo barba (del quale questo libro fa mentione), come vecchio devoto et savio, essendo sul ponto della morte, familiarmente parlando affermò al suo confessore sopra la conscienza sua che questo libro in tutte le cose conteneva la verità. [4] Il che havendo io inteso da quelli che gli hanno cognosciuti, piú sicuramente et piú volentieri mi affaticarò a traslatarlo, per consolatione di quelli che lo leggeranno, et a laude del Signore nostro Iesú Christo, creatore di tutte le cose visibili et invisibili. [5] Qual libro fu scritto per il detto messer Marco del 1298, trovandosi pregion in la città di Genova, et si parte in tre libri, i quali si distinguono per proprii capitoli.

|2r| Dei viaggi di messer Marco Polo, gentilhuomo venetiano

Libro Primo.

1

[1] Dovete adunque sapere che nel tempo di Balduino, imperatore di Constantinopoli, dove allhora soleva stare un podestà di Venetia per nome di messer lo dose, correndo gli anni del N.S. MCCL, messer Nicolò Polo, padre di messer Marco, et messer Maffio Polo, fratello del detto messer Nicolò, nobili, honorati et savi di Venetia, trovandosi in Constantinopoli con molte loro grandi mercantie, hebbero insieme molti ragionamenti, et finalmente deliberorno andare in mar Maggiore, per vedere se potevano accrescere il loro capitale. [2] Et comprate molte bellissime gioie et di gran pretio, partendosi di Constantinopoli navigorono per il detto mar Maggiore ad un porto detto Soldadia, dal quale poi presero il cammino per terra alla corte di un gran signor de’ Tartari occidentali detto Barcha, che dimorava in la città di Bolgara et Assara, et era reputato un de’ piú liberali et cortesi signori che mai fosse stato fra’ Tartari. [3] Costui della venuta di questi fratelli hebbe grandissimo piacere et feceli grande honore; quali havendo mostrate le gioie portate seco, vedendo che gli piacevano, gliele donarono liberamente. [4] La cortesia cosí grande usata con tanto animo di questi due fratelli fece molto maravigliare detto signore, qual, non volendo essere da loro vinto di liberalità, gli fece donar il doppio della valuta di quelle, et appresso grandissimi et ricchissimi doni. [5] Et essendo stati un anno nel paese del detto signore, volendo ritornare a Venetia, subitamente nacque guerra tra il preditto Barcha et un altro nominato Alaú, signore d’i Tartari orientali. [6] Gli esserciti d’i quali havendo combattuto insieme, Alaú hebbe la vittoria et l’essercito di Barcha ne hebbe grandissima sconfitta; per la qual cagione, non essendo sicure le vie, non poteron ritornare a casa per la strada ch’erano venuti. [7] Et havendo dimandato come essi potessino ritornare a Constantinopoli, furono consigliati di andar tanto alla volta di levante che circondassino il reame di Barcha per vie incognite: et cosí vennero ad una città detta Ouchacha, qual è nel fin del regno di questo signor de’ Tartari di ponente. [8] Et partendosi da quel luogo et andando piú oltre, passarono il fiume Tigris, ch’è uno de’ quattro fiumi del Paradiso et poi un deserto di 17 giornate, non trovando città, castello o vero altra fortezza, se non Tartari che vivono alla campagna in alcune tende, con gli suoi bestiami. [9] Passato il diserto, giunsero ad una buona città detta Bocara, et la provincia similmente Bocara, nella regione di Persia, la qual signoreggiava un re chiamato Barach: nel qual luogo essi dimororono tre anni, che non poteron ritornar indrieto né andar avanti, per la guerra grande ch’era fra gli Tartari. [10] In questo tempo un huomo dotato di molta sapientia fu mandato per imbasciadore dal sopradetto signor Alaú al Gran Can, che è il maggior re de tutti i Tartari, qual sta nelli confini della terra fra greco et levante, detto Cublai Can. [11] Il quale, essendo giunto in Bocara et trovando i sopradetti dui fratelli, i quali già pienamente havevano imparato il linguaggio tartaresco, fu allegro smisuratamente, però ch’egli non havea veduto altre volte huomini latini, et desiderava molto di vederli: et havendo con loro per molti giorni parlato et havuto compagnia, vedendo i gratiosi et buoni costumi suoi, gli confortò che venissero seco insieme al maggior re d’i Tartari, che li vederia molto volentieri, per non esservi mai stato alcuno latino, promettendogli che riceveriano da lui grandissimo honore et molti beneficii. [12] I quali, vedendo che non poteano ritornare a casa senza grandissimo pericolo, raccomandandosi a Dio, furono contenti di andarvi, et cosí cominciorono a camminare con il detto ambasciatore alla volta di greco et tramontana, havendo seco molti servitori christiani che havevano menati da Venetia. [13] Et un anno intiero stettero ad aggiungere alla corte del prefato maggior re de’ Tartari, et la cagione per|2v|ché indugiassero et stessino tanto tempo in questo viaggio fu per le nevi et per le acque dei fiumi ch’erano molto cresciute, sí che, camminando, bisognò che aspettassero fino a tanto che le nevi si disfacessero et che l’acque descrescessero. [14] Et trovorono molte cose mirabili et grandi, delle quali al presente non si fa mentione, perché sono scritte per ordine da messer Marco, figliuolo di messer Nicolò, in questo libro seguente. [15] I quali messer Nicolò et messer Maffeo essendo venuti davanti il prefato Gran Can, il qual era molto benigno, gli ricevette allegramente et fece grandissimo honore et festa della sua venuta, percioché mai in quelle parti erano stati huomini latini; et cominciolli a dimandare delle parti di ponente et dell’imperatore de’ Romani et degli altri re et principi christiani, et della grandezza, costumi et possanza loro, et come ne’ suoi reami et signorie osservavano giustitia, et come si portavano nelle cose della guerra; et sopra tutto gli domandò diligentemente del papa de’ christiani, delle cose della Chiesa et del culto della fede christiana. [16] Et messer Nicolò et messer Maffeo, come huomini savi et prudenti, gli esposero la verità, parlandoli sempre bene et ordinatamente d’ogni cosa in lingua tartara, che sapevano benissimo: per il che spesse volte detto Gran Can comandava che venissino a lui, et erano molto grati avanti gli occhi di quello. [17] Havendo adunque il Gran Can inteso tutte le cose de’ latini, come li detti duoi fratelli gli havevano saviamente esposto, si era molto satisfatto; et proponendo nell’animo suo di volergli mandar ambasciatori al papa, volse haver prima il consiglio sopra di questo dei suoi baroni, et dipoi, chiamati a sé i detti duoi fratelli, gli pregò che per amor suo volessero andar al papa dei Romani, con uno de’ suoi baroni che si dimandava Chogatal, a pregarlo che li piacesse di mandargli cento huomini savi et bene instrutti della fede christiana et di tutte le sette arti, i quali sapessino mostrar a’ suoi savi, con ragioni vere et probabili, che la fede dei christiani era la migliore et piú vera di tutte l’altre, et che i dei d’i Tartari et gli suoi idoli quali adorano nelle sue case erano demonii, et che egli et gli altri d’oriente erano ingannati in lo adorare dei suoi dei. [18] Et oltre di questo commesse alli detti fratelli che nel ritorno li portassero de Hierusalem dell’oglio della lampade che arde sopra il Sepolchro del nostro Signor messer Iesú Christo, nel qual havea grandissima devotione, et teniva quello essere vero Iddio, havendolo in somma veneratione. [19] Messer Nicolò et messer Maffeo, udito quanto li veniva commandato, humilmente inginocchiati dinanzi al Gran Can dissero che erano pronti et apparecchiati de far tutto ciò che gli piaceva; qual li fece scriver lettere in lingua tartaresca al papa di Roma et gliele diede, et anchora comandò che gli fosse data una tavola d’oro, nella qual era scolpito il segno reale, secondo l’usanza della sua grandezza: et qualunche persona che porta detta tavola deve essere menata et condutta di luogo a luogo da tutti i rettori delle terre sottoposte all’imperio, sicura con tutta la compagnia; et per il tempo che vuole dimorare in alcuna città, fortezza o castello o villa, a lei et a tutti i suoi gli vien provisto et fatte le spese et date tutte l’altre cose necessarie. [20] Hor, essendo essi dispazzati cosí honoratamente, pigliata licenza dal Gran Can, cominciorno a camminare, portando con essi loro le lettere et la tavola d’oro; et havendo cavalcato insieme venti giornate, il baron sopradetto si ammalò gravemente, per volontà del qual et per consiglio de molti lasciandolo seguitorno il suo viaggio, et per la tavola d’oro c’havevano erano in ogni parte ricevuti con grandissimo favore, et fattoli le spese et datoli le scorte. [21] Et per i gran freddi, nevi et giazze, et per l’acque de’ fiumi che trovorono molto cresciute in molti luoghi, li fu necessario di ritardare il loro viaggio, nel qual stettero tre anni avanti che potessino venire ad un porto dell’Armenia minore detta la Giazza; dalla qual dipartendosi per mare vennero in Acre, del mese di aprile nell’anno MCCLXIX. [22] Giunti che furono in Acre, et inteso che Clemente papa quarto novamente era morto, si contristorono fortemente. [23] Era in Acre allhora legato di quel papa uno nominato messer Tibaldo de’ Vesconti di Piacenza, al qual essi dissero tutto ciò che tenevano d’ordine del Gran Cam; costui gli consigliò che al tutto aspettassino la elettione del papa, et che poi essequiriano la loro ambassaria. [24] Li quali fratelli, vedendo che questo era il meglio, dissero che cosí fariano, et che fra questo mezzo volevano andare a Venetia a veder casa sua. [25] Et partiti da Acre con una nave, vennero a Negroponte et de lí a Venetia dove giunti, messer Nicolò trovò che sua moglie era morta, la qual nella sua partita haveva lassata gravida, et havea partorito un figliuolo al quale havean po|3r|sto nome Marco, il qual era già di anni 19: questo è quel Marco che ordinò questo libro, il quale manifestarà in esso tutte quelle cose le quali egli vidde. [26] In questo mezzo la elettione del papa si indugiò tanto ch’essi stettero in Venetia duoi anni continuamente aspettandola; quali essendo passati, messer Nicolò et messer Maffio, temendo che ’l Gran Can non si sdegnasse per la troppo dimoranza loro, o vero credesse che non dovessino tornar piú da lui, ritornorono in Acre, menando seco Marco sopradetto; et con parola del prefato legato andorno in Hierusalem a visitar il Sepolchro di messer Iesú Christo, dove tolsero dell’oglio della lampada, sí come dal Gran Can gli era stato comandato. [27] Et pigliando le lettere del detto legato drizzate al Gran Can, nelle quali si conteneva come essi havevano fatto l’officio fedelmente, et che anchora non era eletto il papa de’ christiani, andorno alla volta del porto della Giazza. [28] Nel medesimo tempo che costoro si partirono di Acre, il prefato legato hebbe messi d’Italia dagli cardinali com’egli era stà eletto papa, et se misse nome Gregorio decimo: qual, considerando che al presente che l’era fatto papa poteva amplamente satisfar alle dimande del Gran Can, spazzò immediate sue lettere al re di Armenia, dandoli nuova della sua elettione et pregandolo che, se gli duoi ambassadori che andavano al Gran Can non fossero partiti, li facesse ritornare a lui. [29] Queste lettere li trovorono anchora in Armenia, li quali con grandissima allegrezza volsero tornar in Acre; et per il detto re li fu data una galea et un ambassador, che si allegrasse con il sommo pontifice. [30] Alla presenza del quale giunti, furono da quello ricevuti con grande honore, et dapoi espediti con lettere papali; con li quali volse mandar duoi frati dell’ordine de’ predicatori, ch’erano gran theologi et molto letterati et savii, et allhora si trovavano in Acre, de’ quali uno era detto fra Nicolò da Vicenza, l’altro fra Guielmo da Tripoli: et a questi dette lettere et privilegi, et authorità di ordinar preti et episcopi et di far ogni absolutione, come la sua persona propria; et appresso gli dette presenti di grandissima valuta et molti belli vasi di christallo per appresentare al Gran Can. [31] Et con la sua benedittione si partirono et navigorno alla dritta al porto del‹la› Giazza, et di lí per terra in Armenia, dove intesero che ’l soldan di Babilonia, detto Benhochdare, era venuto con grande essercito, et havea scorso et abbrucciato gran paese dell’Armenia: della qual cosa impauriti, li duoi frati, dubitando della vita sua, non volsero andare piú avanti, ma, consegnate tutte le lettere et li presenti havuti dal papa alli prefati messer Nicolò et messer Maffio, rimassero con il maestro del Tempio, con il quale si tornorono indrieto. [32] Messer Nicolò et messer Maffio et messer Marco, partiti d’Armenia, si messero in viaggio verso il Gran Can, non stimando pericolo o travaglio alcuno. [33] Et attraversando deserti di lunghezza di molte giornate et molti mali passi, andorno tanto avanti, sempre alla volta di greco et tramontana, che intesero il Gran Can essere in una grande et nobil città detta Clemenfu; ad arrivare alla quale stettero anni tre et mezzo, però che nell’inverno, per le nevi grandi et per il molto crescere dell’acque et per i grandissimi freddi, poco potevan camminare. [34] Il Gran Casn, havendo presentita la venuta di costoro, et come erano molto travagliati, per quaranta giornate li mandò ad incontrare, et feceli preparare in ogni luogo ciò che li facea bisogno, di modo che con l’aiuto di Dio si condussero alla fine alla sua corte: dove giunti, li accettò con la presenza de tutti i suoi baroni, con grandissima honorificentia et carezze. [35] Messer Nicolò, messer Maffio et messer Marco, come viddero il Gran Can, si inginocchiorono distendendosi per terra, ma lui gli comandò che si levassero et stessino in piedi, et che gli narrassero come erano stati in quel viaggio, et tutto ciò c’havevano fatto con la santità del papa: i quali havendogli detto il tutto, et con grande ordine et eloquenza, furono ascoltati con sommo silentio. [36] Dapoi gli diedero le lettere et li presenti di papa Gregorio, quali udite che hebbe il Gran Can, laudò molto la fedel sollecitudine et diligenza delli detti ambassadori, et riverentemente ricevendo l’oglio della lampada del Sepolchro del nostro Signor Iesú Christo, comandò che ’l fosse governato con grandissimo honore et riverenza. [37] Dapoi, dimandando il Gran Can di Marco chi egli era, et rispondendogli messer Nicolò che ’l era servo di sua Maestà, ma suo figliuolo, l’hebbe molto a grato, et fecelo scrivere tra gli altri suoi famigliari honorati: per la qual cosa da tutti quelli della corte era tenuto in gran conto et existimatione; et in poco tempo imparò i costumi de’ Tartari, et quattro linguaggi variati et diversi, ch’egli sapea scrivere et leggere in ciascuno. [38] Dove che ’l Gran Can, volendo provar la sapienza del detto messer Marco, mandollo per una facenda importante del suo reame ad una città detta Carazan, |3v| nel cammino alla qual consumò sei mesi: quivi si portò tanto saviamente et prudentemente in tutto ciò che gli era stà commesso, che il Gran Can l’hebbe molto accetto. [39] Et perché el si delettava molto di udir cose nove, et dei costumi et delle usanze degli huomini et conditioni delle terre, messer Marco, per ciascuna parte che ’l andava, cercava di esser informato con diligenza, et facendo un memoriale di tutto ciò che intendeva et vedeva, per poter compiacere alla volontà del detto Gran Can. [40] Et in ventisei anni ch’egli stette suo familiare, fu sí grato a quello che continuamente veniva mandato per tutti i suoi reami et signorie per ambassadore per fatti del Gran Can, et alcune volte per cose particolar di esso messer Marco, ma di volontà et ordine del Gran Can. [41] Questa adunque è la ragione che ’l prefato messer Marco imparò et vidde tante cose nove delle parti d’oriente, le quali diligentemente et ordinatamente si scriveranno qui di sotto. [42] Messer Nicolò, Maffeo et Marco essendo stati molti anni in questa corte, trovandosi molto ricchi di gioie di gran valuta et d’oro, un estremo desiderio di rivedere la sua patria di continuo gli era fisso nell’animo, et anchor che fossero honorati et accarezzati, nondimeno non pensavan mai ad altro che a questo. [43] Et vedendo il Gran Can esser molto vecchio, dubitavan che se ’l morisse avanti il suo partire, che per la lunghezza del cammino et infiniti pericoli che li soprastavano mai piú potessino tornare a casa, il che, vivendo lui, speravan di poter fare. [44] Et per tanto messer Nicolò un giorno, tolta occasione vedendo il Gran Can esser molto allegro, inginocchiatosi, per nome di tutti tre gli dimandò licenza di partirse: alla qual parola el si turbò tutto, et gli disse che causa gli moveva a voler mettersi a cosí lungo et pericoloso cammino, nel qual facilmente potriano morire; et se era per causa di robba o d’altro, gli voleva dare il doppio di quello che haveano a casa, et accrescergli in quanti honori che loro volessero, et per l’amor grande che gli portava li denegò in tutto il partirse. [45] In questo tempo accadette che morse una gran regina detta Bolgana, moglie del re Argon, in le Indie Orientali, la quale nel punto della sua morte dimandò di gratia al re, et cosí fece scriver nel suo testamento, che alcuna donna non sentasse nella sua sedia né fosse moglie di quello se non era della stirpe sua, la qual si trovava al Cataio, dove regnava il Gran Can. [46] Per la qual cosa el re Argon elesse tre savii suoi baroni, un de’ quali si domandava Ulatay, l’altro Apusca, il terzo Coza, et li mandò con gran compagnia per ambassadori al Gran Can, dimandandoli una donzella della progenie della regina Bolgana. [47] Il Gran Can, ricevutoli allegramente et fatta trovare una giovane di anni 17, detta Cogatin, del parentado della detta regina, che era molto bella et gratiosa, la fece mostrar alli detti ambassadori: la qual ge piacque sommamente. [48] Et essendo stà preparate tutte le cose necessarie et una gran brigata per accompagnar con honorificenza questa novella sposa al re Argon, gli ambassadori, dapoi tolta grata licenza dal Gran Can, si partirono cavalcando per spatio di mesi otto per quella medesima via che erano venuti. [49] Et nel cammino trovorono che, per guerra nuovamente mossa fra alcuni re de’ Tartari, le strade erano serrate, et non possendo andar avanti, contro il suo volere furono astretti di ritornare di nuovo alla corte del Gran Can, al qual raccontarono tutto ciò che gli era intravenuto. [50] In questo tempo messer Marco, che era ritornato dalle parti d’India, dove era stato con alcune navi, disse al Gran Can molte nove di quelli paesi et del viaggio che ’l havea fatto, et fra l’altre che molto sicuramente si navigavano quelli mari. [51] Le qual parole essendo venute all’orecchie degli ambassadori de re Argon, desiderosi di tornarsene a casa, dalla quale erano passati anni tre che si trovavano absenti, andorno a parlar con li detti messer Nicolò, Maffeo et Marco, i quali similmente trovorono desiderosissimi di riveder la sua patria: et posto fra loro ordine che detti tre ambassadori con la regina andassero al Gran Can et dicessero che, possendosi andar per mare sicuramente fino al paese del re Argon, manco spesa si faria per mare et il viaggio saria piú corto (sí come messer Marco avea detto, che havea navigato in quelli paesi); sua Maestà fosse contenta di farli questa gratia, che andassero per mare, et che questi tre latini, cioè messer Nicolò, Maffeo et Marco, che havevano pratica del navigare detti mari, dovessero accompagnarli fino al paese del re Argon. [52] Il Gran Can, udendo questa loro dimanda, dimostrava gran dispiacere nel volto, perciò che non voleva che questi tre latini si partissero; nondimeno, non possendo far altrimente, consentí a quanto li richiesero: et se non era causa cosí grande et potente che lo astrinse, mai detti latini si partivano. [53] Per tanto fece venire alla sua presenza messer |4r| Nicolò, Maffio et Marco, et li disse molte gratiose parole dell’amor grande che li portava, et che li promettessero che, stati che fossero qualche tempo in la terra de’ christiani et a casa sua, volessero ritornare a lui. [54] Et li fece dar una tavola d’oro, dove era scritto un comandamento, che fossero liberi et sicuri per tutto il suo paese, et che in ogni luogo fossero fatte le spese a loro et alla sua famiglia, et datagli scorta, che sicuramente potessero passare, ordinando che fossero suoi ambassadori al papa, re di Francia, di Spagna et altri re christiani. [55] Poi fece preparar quattordeci navi, cadauna delle quali havea quattro arbori, et potevan navigar con nove vele, le quali come fossero fatte si potria dire, ma, per esser materia lunga, si lassa al presente. [56] Fra le dette navi ve ne erano almanco quattro o cinque che haveano da dugentocinquanta in dugentosessanta marinari. [57] Sopra queste navi montorono li ambassadori, la regina et messer Nicolò, Maffio et Marco, tolta prima licenza dal Gran Can, qual li fece dare molti rubini et altre gioie finissime et di grandissima valuta, et appresso la spesa che li bastasse per duoi anni. [58] Costoro, havendo navigato circa tre mesi, vennero ad una isola verso mezzodí nominata Iava, nella quale sono molte cose mirabili che si diranno nel processo del libro. [59] Et partiti dalla detta isola navigorono per il mare d’India mesi disdotto, avanti che potessero arrivare al paese del re Argon, dove andavano; et in questo viaggio viddero diverse et varie cose, che saranno similmente narrate in detto libro. [60] Et sappiate che, dal dí che introrno in mare fino al giunger suo, moritteno, fra marinari et altri ch’erano in dette navi, da seicento persone; et delli tre ambassadori non rimase se non uno, che havea nome Coza, et di tutte le donne et donzelle non moritte se non una. [61] Giunti al paese del re Argon, trovorono che ’l era morto, et che uno nominato Chiacato governava il suo reame per nome del figliuolo, che era giovine: al qual parse di mandare a dire come di ordine del re Argon havendo condutta quella regina, quel che li pareva che si facesse. [62] Costui li fece rispondere che la dovessero dare a Casan, figliuolo del re Argon, il qual allhora si trovava nelle parti del’Arbore Secco, nei confini della Persia, con sessantamila persone, per custodia di certi passi, acciò che non vi intrassero certe genti inimiche a depredare il suo paese: et cosí loro fecero. [63] Il che fornito, messer Nicolò, Maffio et Marco tornarono a Chiacato, percioché de lí dovea essere il suo cammino, et quivi dimororono nove mesi. [64] Dapoi havendo tolta licenza, Chiacato li fece dare quattro tavole d’oro, cadauna delle quali era lunga un cubito et larga cinque dita, et erano d’oro, di peso di tre o quattro marche l’una: et era scritto in quelle che, in virtú dell’eterno Iddio, il nome del Gran Can fosse honorato et laudato per molti anni, et cadauno che non obedirà sia fatto morire et confiscati i suoi beni. [65] Dapoi se conteniva che quelli tre ambassadori fossero honorati et serviti per tutte le terre et paesi sí come fosse la propria sua persona, et che li fosse fatto le spese, dati cavalli et le scorte, come fosse necessario. [66] Il che fu amplamente essequito, perciò che hebbero et spese et cavalli et tutto ciò che li era de bisogno, et molte volte havevano dugento cavalli, piú et manco, secondo che accadeva; né si poteva far altramente, perché questo Chiacato non haveva riputatione, et li popoli si mettevan a far molti mali et insulti; il che non haverian havuto ardire di fare se fossero stati sotto un suo vero et proprio signore. [67] Facendo messer Nicolò, Maffio et Marco questo viaggio, intesero come il Gran Can era mancato di questa vita, il che gli tolse del tutto la speranza di poter piú tornar in quelle parti; et cavalcorno tanto per le sue giornate che vennero in Trabesonda, et de lí a Constantinopoli et poi a Negroponte; et finalmente sani et salvi con molte ricchezze giunsero in Venetia, ringratiando Iddio che li haveva liberati da tante fatiche et preservati da infiniti pericoli: et questo fu dell’anno MCCXCV. [68] Et le cose di sopra narrate sono stà scritte in luogo di proemio, che si suol far a cadaun libro, acciò che chi lo leggerà cognosca et sappi che messer Marco Polo puoté sapere et intendere tutte queste cose in anni ventisei che ’l dimorò nelle parti d’oriente.

2

[0] Dell’Armenia Minore et del porto della Giazza, et delle mercantie che vi son condotte, et de’ confini di detta provincia. Cap. 2.

[1] Per dar principio a narrar delle provincie che messer Marco Polo ha viste nell’Asia, et delle cose degne di noticia che in quelle ha ritrovate, dico che sono doe Armenie, una detta Minore et l’altra Maggiore. [2] Dil reame dell’Armenia Minore è signore un re che habita in una città detta Sebastoz, il qual osserva giustitia in tutto il suo paese; et vi sono molte città, |4v| fortezze et castelli, et di ogni cosa è molto abondevole et di sollazzo, et molte cazzasoni di bestie et di uccelli; è ben vero che non vi è troppo buono aere. [3] I gentilhuomini di Armenia anticamente solevan essere molto buoni combattitori et valenti con l’arme in mano; hora son divenuti gran bevitori, et spaurosi et vili. [4] Sopra il mare è una città detta la Giazza, terra di gran traffico: al suo porto vengono molti mercanti da Venetia, da Genova et da molt’altre regioni, con molte mercantie di diverse speciarie, panni di seta et di lana et di altre pretiose ricchezze; et ancho quelli che vogliono intrare piú dentro nelle terre di levante, vanno primieramente al detto porto della Giazza. [5] I confini dell’Armenia Minore son questi: verso mezzodí è la Terra di Promissione, che vien tenuta dalli Saraceni; da tramontana i Turchomani, che si chiamano Caramani; et da greco levante Cayssaria et Sevasta et molte altre città, tutte suddite a’ Tartari; verso ponente vi è il mare, per il qual si naviga alle parti de’ christiani.

3

[0] Della provincia detta Turchomania, dove sono le città di Cogno, Cayssaria et Sevasta, et delle mercantie che vi si trovano. Cap. 3.

[1] Nella Turchomania sono tre sorti de genti, cioè Turchomani, i quali adorano Macometto et tengono la sua legge: sono genti semplici et di grosso intelletto, habitano nelle montagne et luoghi inaccessibili, dove sanno esser buoni pascoli, perché vivono solamente di animali; et ivi nascono buoni cavalli, detti turchomani, et buoni muli che sono di gran valuta; et l’altre genti sono Armeni et Greci, che stanno nelle città et castelli et vivono di mercantie et arti: et quivi si lavorano tapedi ottimi et li piú belli del mondo, et etiandio panni di seda cremesina et d’altri colori belli et ricchi. [2] Et vi sono fra le altre città Cogno, Cayssaria et Sevasta, dove il glorioso messer San Biagio patí il martirio. [3] Tutti sono sudditi al Gran Can, imperatore de’ Tartari orientali, il quale gli manda rettori. [4] Poi c’habbiam detto di questa provincia, diciamo della grande Armenia.

4

[0] Dell’Armenia Maggiore, dove son le città di Arcingan, Argiron, Darzizi; del castel Paipurth, et del monte dell’arca di Noè; de’ confini di detta provincia et del fonte del’oglio. Cap. 4.

[1] L’Armenia Maggiore è una gran provincia, che comincia da una città nominata Arcingan, nella quale si lavorano bellissimi bochassini di bambagio, et vi si fanno molte altre arti che a narrarle saria lungo, et hanno li piú belli et migliori bagni di acque calde che scaturiscono che trovar si possano. [2] Sono le genti per la maggior parte Armeni, ma sottoposte a’ Tartari. [3] In questa provincia sono molte città et castelli, et la piú nobil città è Arcingan, la quale ha arcivescovo; l’altre sono Argiron et Darziz. [4] È molto gran provincia, et in quella nell’estate sta una parte dell’essercito d’i Tartari di levante, perché vi trovano buoni pascoli per le lor bestie; ma l’inverno non vi stanno per il gran freddo et neve, perché vi nevica oltra modo et le bestie non vi possono vivere: et però li Tartari si partono l’inverno et vanno verso mezzodí per el caldo, per causa di pascoli et herbe per le sue bestie. [5] Et in un castello che si chiama Paipurth è una ricchissima minera d’argento, et trovasi questo castello andando da Trebisonda in Tauris. [6] Et nel mezzo dell’Armenia Maggiore è uno grandissimo et altissimo monte, sopra il quale se dice essersi firmata l’archa di Noè: et per questa causa si chiama il monte dell’archa di Noè, et è cosí largo et lungo che non si potria circuire in duoi giorni, et nella sommità di quello vi si truova di continuo tanta alta la neve che niuno vi puol ascendere, perché la neve non si liquefa in tutto, ma sempre una cascha sopra l’altra et cosí accresce. [7] Ma nel descendere verso la pianura, per l’humidità della neve la qual liquefatta scorre giú, talmente il monte è grasso et abondante de herbe che nell’estate tutte le bestie dalla lunga circonstanti si riducono a stantiarvi, né mai vi mancano; et ancho per il discorrere della neve si fa gran fango sopra il monte. [8] Nei confini veramente dell’Armenia verso levante sono queste provincie: Mosul, Meridin, delle quali si dirà di sotto, et ve ne sono molte altre che saria lungo a raccontarle. [9] Ma verso la tramontana è la Zorzania, nei confini della quale è una fonte dalla qual nasce oglio in tanta quantità che molti camelli vi si potrebbono cargare, et non è buono da mangiare, ma da ungere gli huomini et gli animali per la rogna et per molte infirmità, et ancho per brusciare. [10] Vengono da parti lontane molti a pigliare questo oglio, et le contrate vicine non brusciano di altra sorte. [11] Havendosi detto dell’Armenia Maggiore, ora dichiamo di Zorzania.

5

[0] |5r| Della provincia di Zorzania et de’ sui confini sopra il mar Maggiore et sopra il mar Hircano, hora detto di Abaccú, dove è quel passo stretto sopra il qual Alessandro fabricò le Porte di Ferro; et del miracol della fontana del monasterio di San Lunardo; della città di Tiflis. Cap. 5.

[1] In Zorzania è un re che in ogni tempo si chiama David Melich, che in lingua nostra si dice re David; una parte della qual provincia è soggetta al re de’ Tartari, et l’altra parte (per le fortezze che l’ha) al re David. [2] In questa provincia tutti i boschi sono di legni di bosso, et guarda duoi mari, uno d’i quali si chiama il mar Maggiore, quale è dalla banda di tramontana, l’altro di Abaccú verso l’oriente, che dura nel suo circuito per duomila et ottocento miglia et è come un lago, perché non si mischia con alcun altro mare. [3] Et in quello sono molte isole con belle città et castelli, parte dele qual sono habitate dalle genti che fuggirono dalla faccia del Gran Tartaro, quando l’andava cercando pel regno o vero per la provincia di Persia qual città et terre si reggevano per commune, per volerle destruggere: et le genti fuggendo si redussero a queste isole et ai monti, dove credevano star piú sicuri; ve ne sono ancho di deserte di dette isole. [4] Detto mare produce molti pesci, et specialmente storioni, salmoni alle bocche d’i fiumi et altri gran pesci. [5] Mi fu detto che anticamente tutti i re di quella provincia nascevano con certo segno dell’aquila sopra la spalla destra; et sono in quella belle genti et valorose nell’arme, et buoni arcieri et franchi combattitori in battaglia; et sono christiani che osservano la legge de’ Greci, et portano i capelli corti a guisa d’i chierici di Ponente. [6] Questa è quella provincia in la quale il re Alessandro non poté mai intrare quando volse andare alle parti di tramontana, perché la via è stretta et difficile, et da una banda batte il mare, dall’altra sono monti alti et boschi che non vi si può passar a cavallo: et è molto stretta intra il mare et i monti, di lunghezza di quattro miglia, et pochissimi huomini si difenderebbono contra tutto il mondo. [7] Et per questo Alessandro appresso a quel passo fece fabricar muri et gran fortezze, acciò che quelli che habitano piú oltra non li potessero venire a far danno: onde il nome di quel passo dipoi si chiamò Porta di Ferro, et per questo vien detto Alessandro haver serrato i Tartari fra duoi monti. [8] Ma non è vero che siano stati Tartari, perché a quel tempo non erano, anzi fu una gente chiamata Cumani, et di altre generation et sorti. [9] Sono anchora in detta provincia molte città et castelli, le quali abondano di seda et di tutte le cose necessarie; quivi si lavorano panni di seda et d’oro, et vi sono astori nobilissimi, che si chiamano “avigi”. [10] Gli habitatori di questa regione vivono di mercantie et delle sue fatiche. [11] Per tutta la provincia sono monti et passi forti et stretti, di modo che li Tartari non gli hanno mai potuto dominare del tutto. [12] Qui è un monasterio intitolato di San Lunardo de’ monachi, dove vien detto esser questo miracolo, che essendo la chiesa sopra un lago salso che circunda da quattro giornate de camino, in quello per tutto l’anno non appareno pesci, salvo dal primo giorno di quaresima fino alla vigilia di Pasqua della resurrettione del Signore, che ve n’è abondantia grandissima; et fatto il giorno di Pasqua, piú non appariscono. [13] Et chiamasi il lago Geluchalat. [14] In questo mare di Abaccú mettono capo Herdil, Geichon et Cur, Araz et molti altri grandissimi fiumi; è circondato da monti, et novamente i mercatanti genovesi han cominciato a navicare per quello, et di qui si porta la seda detta “ghellie”. [15] In questa provincia è una bella città detta Tiflis, circa la quale sono molti castelli et borghi, et in quella habitano christiani, Armeni, Giorgiani et alcuni Saraceni et Giudei, ma pochi. [16] Qui si lavorano panni di seda et di molte altre et diverse sorte; gli huomini vivono dell’arte loro, et sono soggetti al gran re de’ Tartari. [17] Et è da sapere che noi solamente scriviamo delle principal città delle provincie due o tre, ma ve ne sono de molte altre, che saria lungo scriverle per ordine se non havessero qualche spetial cosa maravigliosa: ma di quelle che habbiam pretermesse, che si ritrovano ne’ luoghi preditti, piú pienamente di sotto si dichiarano. [18] Poi che s’ha detto de’ confini dell’Armenia verso tramontana, hora diciamo degl’altri che sono verso mezzodí et levante.

6

[0] Della provincia di Moxul, et della sorte di habitanti et popoli curdi, et mercantie che si fanno. Cap. 6.

[1] Moxul è una provincia nella qual habitano molte sorti di genti, una delle quali adorano Macometto, et chiamansi Arabi; l’altra osserva la fede christiana, non però secondo che comanda la Chiesa, perché falla in molte cose, et sono nestorini, iacopiti et Armeni; et hanno un patriarcha che chiamano “iacolit”, il qual ordena arcivescovi, vescovi et abbati, man|5v|dandoli per tutte le parti dell’India et al Cairo et in Baldach, et per tutte le bande dove habitano christiani, come fa il papa romano. [2] Et tutti i panni d’oro et di seda che si chiamano mossulini si lavorano in Moxul, et quelli gran mercatanti che si chiamano mossulini, che portano di tutte le spetierie in gran quantità, sono di questa provincia. [3] Ne’ monti della qual habitano alcune genti che si chiamano Curdi, che sono in parte christiani nestorini et iacopiti, et in parte Sarraceni, che adorano Macometto: sono huomini cattivi et di mala sorte, et robbano volentieri a’ mercatanti. [4] Appresso questa provincia ve n’è un’altra che si chiama Mus et Meridin, nella quale nasce infinito bambagio, del qual si fa gran quantità de boccassini et di molti altri lavori. [5] Vi sono artefici et mercatanti, et tutti sono sottoposti al re de’ Tartari. [6] Havendosi detto della provincia di Moxul, hora narraremo della gran città di Baldach.

7

[0] Della gran città di Baldach o vero Bagadet, che anticamente si chiamava Babilonia; et come da quella si navica alla Balsara sopra il mare che chiamano de India, anchor che sia il sino Persico; et del studio che è in quella di diverse scientie. Cap. 7.

[1] Baldach è una città grande, nella quale era il califa, cioè il pontifice de tutti li Sarraceni, sí come è il papa de tutti li christiani. [2] Et per mezzo di quella corre un gran fiume, per il quale li mercadanti vanno et vengono con le lor mercantie dal mare dell’India: et la sua lunghezza, dalla città di Baldach fino al detto mare, si computa communemente secondo il corso dell’acque 17 giornate. [3] Et li mercatanti che vogliono andare alle parti dell’India navigano per detto fiume ad una città detta Chisi, et de lí partendosi entrano in mare; et avanti che si pervenga da Baldach a Chisi, si trova una città detta Balsara, intorno la quale nascono per li boschi li miglior dattali che si trovino al mondo. [4] Et in Baldach si trovano molti panni d’oro et di seda, et lavoransi quivi damaschi et velluti, con figure di varii et diversi animali; et tutte le perle che dalla India sono portate nella christianità per la maggior parte si forano in Baldach. [5] In questa città si studia nella legge di Macometto, in negromantia, phisica, astronomia, geomantia et fisionomia. [6] Essa è la piú nobile et la maggior città che trovar si possa in tutte quelle parti.

8

[0] Come il califa signor di Baldach fu preso et morto, et del miracolo che intravenne del movere de uno monte. Cap. 8.

[1] Dovete sapere che detto califa signor di Baldach si trovava il maggiore thesoro che si sappia havere havuto huomo alcuno, qual perse miseramente in questo modo. [2] Nel tempo che i signori de’ Tartari cominciorno a dominare, erano quattro fratelli, il maggiore de’ quali, nominato Mongú, regnava nella sedia. [3] Et havendo a quel tempo, per la gran potentia loro, sottoposto al suo dominio il Cattayo et altri paesi circonstanti, non contenti di questi, ma desiderando haver molto piú, si proposero di soggiogare tutto l’universo mondo; et però lo divisero in quattro parti, cioè che uno andasse alla volta dell’oriente, un altro alla banda del mezzodí, per acquistare paesi, et gli altri alle altre due parti. [4] Ad uno di loro, nominato Ulaú, venne per sorte la parte di mezzodí. [5] Costui, ragunato un grandissimo essercito, primo di tutti cominciò a conquistar virilmente quelle provincie, et se ne venne alla città di Baldach del 1250 e, sapendo la gran fortezza di quella, per la gran moltitudine del popolo che vi era, pensò con ingegno piú tosto che con forze di pigliarla. [6] Havendo egli adunque da centomila cavalli senza i pedoni, acciò che al califa et alle sue genti che eran dentro della città paressino pochi, avanti che s’appressasse alla città puose occultamente ad un lato di quella parte delle sue genti, et dall’altro ne’ boschi un’altra parte, et col resto andò correndo fino sopra le porte. [7] Il califa, vedendo quel forzo essere di poca gente et non ne facendo alcun conto, confidandosi solamente nel segno di Macometto, si pensò del tutto destruggerla, et senza indugio con la sua gente uscí della città. [8] La qual cosa veduta da Ulaú, fingendo di fuggire lo trasse fino oltra gli arbori et chiusure di boschi dove la gente s’era nascosta, et qui serratoli in mezzo li ruppe, et il califa fu preso insieme con la città. [9] Doppo la presa del qual, fu trovata una torre piena d’oro, il che fece molto maravigliare Ulaú. [10] Dove che, fatto venire alla sua presenza el califa, lo riprese grandemente, perciò che, sapendo della gran guerra che gli veniva adosso, non avesse voluto spendere del detto thesoro in soldati che lo difendessero: et però ordinò che ’l fosse serrato in detta torre senza dargli altro da vivere, et cosí il misero califa se ne moritte fra il detto thesoro. [11] Io giudico che ’l nostro |6r| Signor messer Iesú Christo volesse far vendetta de’ suoi fedeli christiani, dal detto califa tanto odiati, imperoché del 1225, stando in Baldach detto califa, non pensava mai altro ogni giorno se non con che modo et forma potesse far convertire alla sua legge li christiani habitanti nel suo paese, o vero, non volendo, di farli morire. [12] Et dimandando sopra di ciò il consiglio de’ savii, fu trovato un punto della scrittura nell’Evangelio che dice cosí: «Se alcuno christiano havesse tanta fede quanto è un grano di senavro, porgendo i suoi preghi alla divina Maestà faria mover i monti dal suo luogo». [13] Del qual punto rallegratosi, non credendo per alcun modo questo essere mai possibile, mandò a chiamare tutti i christiani, nestorini et iacopiti che habitavano in Baldach, che erano in gran quantità, et gli disse: «È vero tutto quello che ’l testo del vostro Evangelio dice?» [14] A cui risposero: «È vero». [15] Dissegli il califa: «Ecco che s’egli è vero qui si proverà la vostra fede. [16] Certamente, se tra voi tutti non è almanco uno il qual sia fedele verso il suo Signore in cosí poco di fede quanto è un grano di senavro, allhora vi reputarò iniqui, reprobi et infidelissimi. [17] Per il che vi assegno dieci giorni, fra li quali o che voi per virtú del vostro Dio farete movere i monti qui astanti, o vero torrete la legge di Macometto nostro propheta et sarete salvi, o vero non volendo farovvi tutti crudelmente morire». [18] Quando li christiani udirono tal parole, sapendo la sua crudel natura, che solo faceva questo per spogliarli delle loro sustanze, dubitarono grandemente della morte; nondimeno, confidandosi nel suo Redentore che gli libereria, si congregorono tutti insieme et hebbero fra loro diligente consiglio, né trovorono rimedio alcuno se non pregare la Maestà divina che gli porgesse l’aiuto della sua misericordia. [19] Per la qual cosa tutti, cosí piccioli come grandi, giorno et notte prostrati in terra con grandissime lachrime non attendevano ad altro che a far orationi al Signore, et cosí perseverando per otto giorni, ad uno vescovo di santa vita fu divinamente revelato in sogno che andassero a trovare un calzolaio il quale havea solamente un occhio, il cui nome non si sa, che lui comandasse al monte che per la divina virtú dovesse moversi. [20] Mandato adunque per il calzolaio, narratoli la divina revelatione, gli rispose che lui non era degno di questa impresa, perché i meriti suoi non ricercavano il premio di tanta gratia; nondimeno, facendoli di ciò grande instantia i poveri christiani, il calzolaio assentí. [21] Et sappiate che ’l era huomo di buona vita et di honesta conversatione, puro et fedele verso il nostro Signor Iddio: frequentando le messe et i divini officii, attendeva con gran fervore alle limosine et a’ digiuni. [22] Al qual intravenne che, essendo andata a lui una bella giovene per comprarsi un paro de scarpe, et mostrando il piede per provar quelle, si alzò i panni per modo che ’l ghe vidde la gamba, per bellezza della quale si commosse in dishonesti pensieri; ma subito ritornato in sé, mandò via la donna e, considerata la parola dell’Evangelio che dice: «Se l’occhio tuo ti scandalizza, cavalo et gettalo da te, perché è meglio andar con un occhio in Paradiso che con duoi nell’Inferno», immediate con una delle stecche che adoperava in bottega si cavò l’occhio destro; la qual cosa dimostrò manifestamente la grandezza della sua constante fede. [23] Venuto il giorno determinato, la mattina a buon’hora, celebrati i divini officii, con grandissima devotione andorono alla pianura dove era il monte, portando avanti la croce del nostro Signor. [24] Il califa similmente, credendo essere cosa vana che i christiani potessero mandar queste cose ad effetto, volse anchor lui esser presente con gran forzo di gente per distruggerli et mandarli in perditione. [25] Et quivi il calzolaio, levate le mani al cielo, stando avanti la croce in ginocchioni, humilmente pregò il suo Creatore che pietosamente riguardando in terra, a laude et eccellenza del nome suo et a fermezza et corroboratione della fede christiana, volesse porgere aiuto al popolo suo circa il comandamento a loro ingiunto, et dimostrasse la sua virtú et potenza ai detrattori della sua fede. [26] Et finita l’oratione con voce alta disse: «In nome del Padre, del Figliuolo et del Spirito Santo, comando a te monte che ti debbi movere». [27] Per le qual parole il monte si mosse, con mirabil et spauroso tremor della terra. [28] Et il califa et tutti i circonstanti con grandissimo spavento rimasero attoniti et stupefatti, et molti di loro si fecero christiani, et il califa in occulto confessò esser christiano, et portò sempre la croce nascosa sotto i panni: la qual dapoi morto trovatoli adosso, fu causa che non fosse sepolto nell’arca de’ suoi predecessori. [29] Et per questa singular gratia concessali da Iddio tutti i christiani, nestorini et iacopiti da quel tempo in qua celebrano solennemente il giorno che tal miracolo intravenne, digiunando la sua vigilia.

9

[0] Della nobil città di Tauris, che è nella provincia di Hirach, et delli mercatanti et abitanti in quella. Cap. 9.

[1] Tauris è una città grande, situata in una provincia nominata Hirach, nella quale sono molte altre città et castelli, ma Thauris è la piú nobile et piú popolata. [2] Gli habitatori vivono delle mercantie et arti loro, perché vi si lavora di diverse sorte di panni d’oro et di seda di gran valuta, et è posta questa città in tal parte che dall’India, da Baldach, da Moxul, da Cremessor et dalle parti de’ christiani i mercatanti vengono per comprare et vender diverse mercantie. [3] Quivi si trovano etiandio pietre preziose et perle abbondantemente. [4] Quivi li mercatanti forastieri fanno gran guadagno, ma gli habitatori sono generalmente poveri, et mescolati de diverse generationi, cioè nestorini, Armeni, iacopiti, Giorgiani et Persi, et le genti che adorano Macometto è il popolo della città, che si chiamano Thaurisini et hanno il parlar diverso fra loro. [5] La città è circondata de giardini molto delettevoli, che producono ottimi frutti. [6] Et i Saraceni di Thauris sono perfidi et mali huomini, et hanno per la legge di Macometto che tutto quello che tolgono et robbano alle genti che non sono della sua legge sia ben tolto, né gli sia imputato ad alcun peccato, et se i christiani li ammazzassero o gli facessero qualche male, sono riputati martiri; et per questa causa, se non fossero prohibiti et ritenuti per il suo signore che governa, commetterebbono molti mali. [7] Et questa legge osservano tutti i Saraceni. [8] Et in fine della vita loro va a loro il sacerdote, et dimandali se credono che Macometto sia stato vero nuntio di Dio, et se rispondeno che lo credono sono salvi: et per questa facilità di assolutione, che li concede il campo largo a commettere ogni sceleratezza, hanno convertito una gran parte dei Tartari alla sua legge, per la quale non gli è prohibito alcun peccato. [9] Da Thauris in Persia sono dodeci giornate.

10

[0] Del monasterio del Beato Barsamo, che è nelli confini di Thauris. Cap. 10.

[1] Ne’ confini di Thauris è uno monasterio intitolato il Beato Barsamo Santo, molto devoto: quivi è uno abbate con molti monachi, i quali portano l’habito a guisa di carmelitani. [2] Et questi, per non darsi all’ocio, lavorano continuamente cintole di lana, le qual poi mettono sopra l’altare del Beato Barsamo quando si celebrano li officii. [3] Et quando vanno per le provincie cercando (come li frati di San Spirito), donano di quelle alli loro amici et agli huomini nobili, perché sono buone a removere il dolore che alcun havesse nel corpo: et per questo ognuno ne vuole havere per devotione.

11

[0] Del nome de otto regni che sono nella provincia di Persia, et della sorte di cavalli et asini che ivi si trovano. Cap. 11.

[1] In la Persia, qual è una provincia molto grande, vi sono molti regni, i nomi de’ quali sono li sottoscritti: il primo regno, il quale è in principio, si chiama Casibin; il secondo, qual è verso mezzodí, si chiama Curdistan; il terzo Lor, verso tramontana; il quarto Suolistan; il quinto Spaan; il sesto Siras; il settimo Soncara; l’ottavo Timocaim, qual è nel fine della Persia. [2] Tutti questi regni nominati sono verso mezzodí, eccetto Timocaim, il quale è appresso l’Arbor Secco verso tramontana. [3] In questi regni sono cavalli bellissimi, molti de’ quali si menano a vendere nell’India, et sono di gran valuta, perché se ne vendono per lire dugento de tornesi, et sono per la maggior parte di questo pretio. [4] Sonvi anchora asini, li piú belli et li maggiori che siano al mondo, i quali si vendono molto piú che i cavalli, et la ragione è perché mangiano poco et portano gran carghi et fanno molta via in un giorno, la qual cosa né i cavalli né i muli potriano fare, né sostenire tanta fatica quanta sostengono gli asini sopradetti. [5] Imperoché li mercadanti di quelle parti, andando di una provincia in l’altra, passano per gran deserti et luoghi arenosi dove non si trova herba alcuna, et appresso, per la distanza de’ pozzi et di acque dolce, gli bisogna far lunghe giornate: per tanto adoprano piú volentieri quelli asini, perché sono piú veloci et correno meglio et si conducono con manco spesa. [6] Usano anchora i camelli, i quali similmente portano gran pesi et fanno pocha spesa; nondimeno non sono cosí veloci come gli asini. [7] Et le genti della sopradetta provincia menano i detti cavalli a Chisi et Ormus et a molte altre città che sono sopra la riviera del mare dell’India, perché vengono comprati ivi et condutti in India, dove sono in grandissimo pretio, nella qual essendo gran caldo non possono durare longamente, essendo nasciuti in paese temperato. [8] Et ne’ sopradetti regni sono genti molto crudeli et homicidiali, imperoché ogni giorno l’un l’altro si feriscono et uccideno, et fariano conti|7r|novamente gran danni a’ mercanti et a’ viandanti, se ’l non fosse per la paura del signore orientale, il quale severamente gli fa castigare, et ha ordinato che in tutti i passi pericolosi, richiedendo i mercatanti, debbano gli habitanti di contrata in contrata dar diligenti et buoni conduttori per tutela et sicurtà loro, et per satisfattione delli conduttori li sia dato per cadauna soma duoi o tre grossi, secondo la lunghezza del cammino. [9] Tutti osservano la legge di Macometto. [10] Nelle città di questi regni veramente sono mercatanti et artefici in grandissima quantità, et lavorano panni d’oro, di seda et di cadauna sorte; et quivi nasce il bombaso, et evvi abondantia di formento, orzo, miglio et d’ogni sorte biava, vini et di tutti i frutti. [11] Ma potria dir alcuno: i Saraceni non bevono vino, per essergli prohibito dalla sua legge; si risponde che glosano il testo di quella in questo modo, che se ’l vino solamente bolle al fuogo, et che si consumi in parte et divenghi dolce, lo possono bere senza rompere il comandamento, perché non lo chiamano dapoi piú vino, conciosiacosaché, havendo mutato il sapore, muta etiandio il nome del vino.

12

[0] Della città de Iasdi, et di lavori di seda che si fanno in quella; et di animali et uccelli che si trovano venendo verso Chermain. Cap. 12.

[1] Iasdi è ne’ confini della Persia, città molto nobile et di grande mercantia, nella quale si lavorano molti panni di seda, che si chiamano “iasdi”, quali portano li mercatanti in diverse parti. [2] Osservano la legge di Macometto. [3] Et quando l’huomo si parte da questa città per andar piú oltra, cavalca otto giornate per via piana, nelle quali si trovano solamente tre luoghi dove possino alloggiare, et il cammino è pieno di molti boschi che producono dattali, per li quali si può cavalcare; et vi sono molte cacciagioni d’animali salvatichi, et pernici et quaglie in abondanza, et li mercatanti che cavalcano per quelle parti, et altri che si dilettano di cacciagioni di bestie et di uccelli, vi prendono gran sollazzi. [4] Si trovano anchora asini salvatichi. [5] Et nel fine delle dette otto giornate, si arriva ad un regno che si chiama Chiermain.

13

[0] Del regno di Chiermain, che anticamente si diceva Carmania, et delle pietre turchese azal et andanico, et de’ lavori de armi et seda, et d’i falconi; et di una gran discesa che si trova partendosi da quello. Cap. 13.

[1] Chiermain è un regno ne’ confini della Persia verso levante, il qual anticamente andava de herede in herede, ma dopo che ’l Tartaro lo soggiogò al suo dominio non succedettero gli heredi, anzi il Tartaro vi manda signore secondo il voler suo. [2] In detto regno nascono le pietre che si chiamano turchese, quali si cavano nelle vene de’ monti; si trovano anchora in quelli vene di azzaio et andanico in grandissima quantità. [3] Si lavorano molto eccellentemente in questo regno tutti i fornimenti pertinenti alla guerra, cioè selle, freni, sproni, spade, archi, turchassi, et tutte le sorti d’armi secondo i loro costumi. [4] Le donne et tutte le giovani lavorano similmente con l’ago in drappi di seda et d’oro d’ogni colore uccelli et animali et molte altre varie et diverse imagini, et ancho cortine, coltre et cossini per letti d’i grandi huomini, cosí bene et con tanto artificio che è cosa maravigliosa a vedere. [5] Ne’ monti di questo regno nascono falconi, li migliori che volino al mondo, et sono minori de’ falconi pellegrini, et rossi nel petto et fra le gambe sotto la coda, et sono tanto veloci che niuno uccello gli può scampare. [6] Partendosi da questo regno si cavalca per otto giornate per pianura, cammino molto sollazzoso et delettevole per l’abondanza delle pernici et molte cacciagioni, trovando continuamente città et castelli et molte altre habitationi; et alla fine si trova una gran discesa, per la qual si cavalca due giornate trovando arbori fruttiferi in grandissima quantità. [7] Questi luoghi si habitavano anticamente, ma al presente sono dishabitati; quivi nondimeno stanno i pastori per pascer le bestie loro. [8] Et da questo regno di Chermain fino alla discesa predetta, nel tempo dell’inverno vi è cosí gran freddo, che appena l’huomo si può riparare portando continovamente molte vesti et pelli.

14

[0] Della città di Camandu, che si trova doppo una discesa, et della region di Reobarle, et delli uccelli francholini et buoi bianchi con una gobba; et della origine delli Caraunas, che vanno depredando. Cap. 14.

[1] Dapoi la discesa di questo luogo per le dette due giornate si trova una gran pianura, la qual verso mezzodí dura per cinque giornate, nel principio della qual è una città chiamata Camandu, che già fu nobile et grande, ma non è cosí al presente, perché i Tartari piú volte |7v| l’hanno destrutta. [2] Et la region si chiama Reobarle, et quella pianura è calidissima et produce formento, orzo et altre biade. [3] Per le coste delli monti di detta pianura nascono pomi granati, codogni et molti altri frutti, et pomi di Adamo, i quali nelle nostre parti fredde non nascono. [4] Ivi sono infinite tortore, per le molte pomelle che vi trovano da mangiare, né li Saraceni mai le pigliano, perché le hanno in abominatione. [5] Vi si trovano anchora molti fagiani et francholini, li quali non si assimigliano alli francholini delle altre contrade, perché sono mescolati di color bianco et negro et hanno li piedi et becco rossi. [6] Vi sono etiandio bestie dissimili dalle altre parti, cioè buoi grandi tutti bianchi che hanno il pelo picciolo et piano, il che avviene per il caldo del luogo, le corna corte et grosse et non acute; hanno sopra le spalle una gobba rotonda alta duoi palmi, sono bellissimi da vedere, portano gran peso perché sono fortissimi, et quando si dieno cargare si piegano a guisa de’ camelli et poi si levano su. [7] Vi sono anchora castroni di grandezza de asini, che hanno le code grosse et larghe, di sorte che una pesarà libbre trenta et piú, et sono grassi et buoni da mangiare. [8] In questa provincia vi sono molti castelli et città che hanno le mura di terra alte et grosse, et questo per potersi difendere dalli Caraunas, che vanno scorrendo per tutti quelli luoghi depredando il tutto. [9] Et acciò che si sappi quello che vuol dire questo nome di Caraunas, dico che fu uno Nugodar, nepote di Zagathai, fratello del Gran Can, qual Zagathai signoreggiava la Turchia Maggiore. [10] Questo Nugodar, stando nella sua corte, si pensò di voler anchor lui signoreggiar, et però, sentendo che nell’India vi era una provincia chiamata Malabar, sotto ad un re nominato Asidin soldano, la qual non era soggiogata al dominio de’ Tartari, sottrasse circa diecimila huomini, di quelli ch’egli pensava esser peggiori et piú crudeli, et con questi partendosi da suo barba Zagathai senza fargli intender cosa alcuna, passò per Balaxan et per certa provincia chiamata Chesmur, dove perse molte delle sue genti et bestie per le vie strette et cattive; et finalmente entrò nella provincia di Malabar et prese per forza una città detta Dely, et tolse molte altre città circonstanti al detto Asidin, perché li sopravenne alla sprovista. [11] Et qui cominciò a regnare, et li Tartari bianchi cominciorono a mescolarsi con le donne Indiane, quali erano negre, et di quelle procreorno figliuoli che furon chiamati “Caraunas”, cioè “meschiati” nella lingua loro: et questi son quelli che vanno scorrendo per le contrade di Reobarle et per cadauna altra come meglio possono. [12] Et come vennero in Malabar imparorono l’arti magice et diabolice, con le quali sanno far venir tenebre et oscurar il giorno, di modo che, se uno non è appresso a l’altro, non si veggono; et ogni volta che vogliono far correrie fanno simil arti, acciò le genti non si avvedino di loro. [13] Et cavalcano il piú delle volte verso le parti di Reobarle, perciò che tutti i mercatanti che vengono a negociar in Ormus, fin che si avisano che venghino i mercatanti dalle parti d’India, mandano al tempo del verno i muli et camelli, che si son smagrati per la lunghezza del cammino, alla pianura di Reobarle, dove per l’abondanza dell’herbe debbano ingrassarsi: et questi Caraunas, che attendono a questo, vanno depredando ogni cosa, et prendono gl’huomini et vendongli; nondimeno se possono riscattarsi li lasciano andar. [14] Et messer Marco quasi fu preso una fiata da loro per quella oscurità, ma egli se ne fuggí ad un castello di Consalmi; delli suoi compagni alcuni furono presi et venduti, altri furono morti.

15

[0] Della città di Ormus, che è posta in isola vicina alla terra sopra il mar dell’India, et della conditione et vento che vi soffia cosí caldo. Cap. 15.

[1] Nel fine della pianura che habbiam detto di sopra, che dura verso mezzodí per cinque giornate, si pervien ad una discesa che dura ben venti miglia, et è via pericolosissima per l’abondanza de’ rubbatori che di continuo assaltano et rubbano quelli che vi passano. [2] Et quando si giunge al fine di questa discesa, si trova un’altra pianura molto bella, che dura di lunghezza per due giornate et chiamasi pianura di Ormus: ivi sono riviere bellissime et dattali infiniti, et trovansi francholini et papagalli et molti altri uccelli che non s’assomigliano alli nostri. [3] Alla fine si giunge al mare Oceano, dove, sopra una isola vicina, vi è una città chiamata Ormus, al porto della qual arrivano tutti i mercatanti di tutte le parti dell’India con speciarie, pietre pretiose, perle, panni d’oro et di seda, denti d’elefanti et molte altre mercantie, et qui le vendono a diversi altri mercadanti che le conducono poi per il mondo. [4] La città nel vero è molto mercantesca, et ha città et castelli sotto di sé, et è capo del regno Chermain; et il signore della città si chiama Ruchmedin Achomach, il qual signoreggia |8r| per tirannide, ma ubidisce al re di Chermain. [5] Et se vi muore alcuno mercatante forestiero, il signor della terra gli tol tutto il suo havere et riponlo nel suo thesoro. [6] La state le genti non habitano nella città, per il gran caldo che è causa di mal aere, ma vanno fuori a’ suoi giardini, presso le rive dell’acque et fiumi, dove con certe graticcie fanno solari sopra l’acque, et quelli da una parte fermano con pali fitti nell’acque et dall’altra parte sopra la riva, et di sopra per difendersi dal sole copreno con le foglie, et vi stanno un certo tempo. [7] Et dall’hora di mezza terza fino mezzodí ogni giorno vien un vento dall’arena cosí estremamente caldo che per il troppo calore vieta all’huomo il respirare, et subito lo soffoca et muore: et da detto vento niuno che si trovi su l’arena può scampare, per la qual cosa, subito che sentono il vento, si mettono nell’acque fin alla barba et vi stanno fin che ’l cessi. [8] Et in testimonio della calidità di detto vento, disse messer Marco che si trovò in quelle parti quando intravenne un caso in questo modo: che, non havendo il signor di Ormus pagato il tributo al re di Chermain, pretendendo haverlo al tempo che gli huomini di Ormus dimoravano fuori della città nella terra ferma, fece ap‹ar›ecchiare mille et seicento cavalli et cinquemila pedoni, i quali mandò per la contrata di Reobarle per prenderli alla sprovista. [9] Et cosí un giorno, per essere mal guidati, non potendo arrivare al luogo destinato per la sopravegnente notte, si riposorono in un boscho non molto lontano da Ormus; et la mattina, volendosi partire, il detto vento gli assaltò et soffocò tutti, di modo che non si trovò alcuno che portasse la nova al suo signore. [10] Questo sapendo gli huomini di Ormus, acciò che quei corpi morti non infettassero l’aere, andorno per sepelirli, et pigliandoli per le braccia per porli nelle fosse, erano cosí cotti pel grandissimo calor che le braccia si lasciavano dal busto, per il che fu di bisogno far le fosse presso alli corpi et gettarli in quelle.

16

[0] Delle sorte delle navi di Ormus; et della stagion nella qual nascono i frutti loro, et del viver et costumi degli habitanti. Cap. 16.

[1] Le navi di Ormus sono pessime et pericolose, onde li mercatanti et altri spesse volte in quelle pericolano: et la causa è questa, perché non si ficcano con chiodi, per esser el legno col quale si fabricano duro et di materia fragile a modo di vaso di terra, et subito che si ficca il chiodo si ribatte in se medesimo et quasi si rompe; ma le tavole si forano con trivelle di ferro piú leggiermente che possono nelle estremità, et dipoi vi si mettono alcune chiavi di legno con le quali si serrano, dipoi le legano o vero cusono con un filo grosso che si cava di sopra il scorzo delle noci de India. [2] Le quali sono grandi, et sopra vi sono fili come sede de cavalli, li qual, posti in acqua, come è putrefatta la sostanza rimangono mondi, et se ne fanno cordi con le quali legano le navi, et durano longamente in acqua; alle qual navi non si pone pece per difesa della putrefattione, ma si ungono con oglio fatto di grasso de pesci, et calcasi la stoppa. [3] Ciaschaduna nave ha un arboro solo et uno timone et una coperta, et quando è carica si copre con cuori, et sopra i cuori pongono i cavalli che si conducono in India. [4] Non hanno ferri da sorzer, ma con altri suoi instrumenti sorzeno, et però con ogni legger fortuna periscono, per esser molto terribile et tempestuoso quel mare. [5] Quelle genti sono negre et osservano la legge di Macometto. [6] Seminano il formento, orzo et altre biade nel mese di novembre et le raccolgono il mese di marzo, et cosí hanno tutti li loro frutti degli altri mesi nel detto mese, eccetto i dattali, che si raccoglieno nel mese di mazzo, de’ quali si fa vino con molte altre specie mescolatevi, il qual è molto buono: et se gli huomini che non vi sono assuefatti beono di quello, subito patiscono flusso, ma risanati quel vino molto gli giova et ingrassagli. [7] Non usano i nostri cibi, perché se mangiassero pan di formento et carni subito s’infermarebbono, ma mangiano dattoli et pesci salati, cioè pesci tuoni, et cepolle et altre simil cose che si confanno alla sanità loro. [8] In quella terra non si trova herba che duri sopra la terra, salvo che ne’ luoghi aquosi, et questo pel troppo caldo che disecca ogni cosa. [9] Quando gli huomini grandi muoiono, le moglie loro gli piangono quattro settimane continue una volta il giorno; ivi si trovano donne ammaestrate nel pianto, le quali si conducono a prezzo, che pianghino ogni giorno sopra gli altrui morti.

17

[0] Della campagna che si trova partendosi da Ormus et ritornando verso Chermain, et del pan amaro per causa dell’acque salse. Cap. 17.

[1] Havendosi detto di Ormus, voglio che lasciamo star il parlare dell’India, la qual sarà descritta in un libro particolare, et che ritorniamo di nuovo a Chermain verso tramontana. |8v| [2] Et però dico che, partendosi da Ormus et andando verso Chermain per un’altra strada, si trova una pianura bellissima et abondante de ogni sorte di vettovaglie: ma il pan de formento che nasce in quella terra non si puol mangiare se non da quelli che vi sono usi per longo tempo, per essere amaro per causa dell’acque, le quali son tutte amare et salse. [3] Et da ogni canto si veggono scorrere bagni caldi, molto utili a guarire et sanare molte infirmità che vengono agl’huomini sopra la persona. [4] Vi sono ancho molti dattoli et altri frutti.

18

[0] Come partendosi da Chermain si va per un deserto de sette giornate alla città di Cobinam, et dell’acque amare che si trovano, et alla fine di uno fiume di acqua dolce. Cap. 18.

[1] Partendosi di Chermain et cavalcando per tre giornate si arriva a un deserto pel qual si va fino a Cobinam, et dura sette giornate, et nelli primi tre giorni non si trova salvo che un poco di acqua: et quella ‹è› salsa et verde come l’herba d’un prato, et è tanto amara che niuno ne può bere, et se alcuno ne bee pur una gocciola va da basso piú di dieci volte, et similmente gli avviene se mangiasse un sol grano di sale che si fa di quell’acqua. [2] Et però gl’huomini che passano per quei deserti si portano dietro dell’acqua, ma le bestie ne beono per forza constrette dalla sete, et subito patiscono flusso di corpo. [3] In tutte queste tre giornate non si trova pur un’habitatione, ma tutto è deserto et secco; non vi sono bestie, perché non hanno che mangiare. [4] Et nella quarta si arriva ad un fiume di acqua dolce, il quale scorre sotto terra, et in alcuni luoghi vi sono certe caverne derotte et fosse pel scorrere del fiume, per le qual si vede passare, qual poi subito entra sotto terra; nondimeno si ha abondanza di acqua, presso la quale i viandanti, stracchi per l’asprezza del deserto precedente, recreandosi con le loro bestie si riposano. [5] Nell’ultime tre giornate trovasi come nelle tre precedenti, et nella fine si trova la città di Cobinam.

19

[0] Della città di Cobinam, et delli specchi di azzai, et del’andanico, et della tucia et spodio che si fa ivi. Cap. 19.

[1] Cobinam è una gran città, la cui gente osserva la legge di Macometto, dove si fanno i specchi di acciaio finissimo molto belli et grandi. [2] Vi è ancho assai andanico, et ivi si fa la tuccia, la quale è buona all’egritudine degl’occhi, et il spodio, in questo modo: tolgono la terra di una vena che è buona a quest’effetto et la metteno in una fornace ardente, et sopra la fornace sono poste graticcie di ferro molto spesse, et il fumo et l’humor che ne viene ascendendo si attaccha alle graticcie, et rafreddato s’indurisce, et questa è tuccia; et il resto di quella terra che riman nel fuogo, cioè il grosso che resta arso, è il spodio.

20

[0] Come da Cobinam si va per un deserto de otto giornate alla provincia di Timochaim nelle confine della Persia verso tramontana, et dell’Alboro del Sole, che si chiama l’Alboro Secco, et della forma de’ frutti di quello. Cap. 20.

[1] Partendosi da Cobinam si va per un deserto di otto giornate, nel qual è gran siccità, né vi sono frutti né arbori, et l’acqua è ancho amara, onde i viandanti portano seco le cose al vivere necessarie; nondimeno le bestie loro per la gran sete le fanno per forza bere di quell’acqua, imperoché meschiano farina con quell’acqua et bellamente le inducono a bere. [2] Et in capo delle otto giornate si trova una provincia nominata Timochaim, la quale è posta verso tramontana ne’ confini della Persia, nella quale sono molte città et castelli. [3] Vi è anchora una gran pianura nella qual vi è l’Albero del Sole, che si chiama per i christiani l’Albor Secco, la qualità et conditione del quale è questa: è uno arbore grande et grosso, le cui foglie da una parte son verdi, dall’altra bianche, il quale produce ricci simili a quelli delle castagne, ma niente è in quelli, et il suo legno è saldo et forte, di color giallo a modo di busso; et non vi è appresso arbore alcuno per spatio di cento miglia se non da una banda, dalla qual vi sono arbori quasi per dieci miglia, et dicono gli habitanti in quelle parti che quivi fu la battaglia tra Alessandro et Dario. [4] Le città et castelli abondano di tutte le belle et buone cose, perché quel paese è di aere non molto caldo né molto freddo, ma temperato. [5] La gente osserva la legge di Macometto; sono in quelle belle genti, et specialmente donne, le qual a mio giudicio sono le piú belle del mondo.

21

[0] Del Vecchio della Montagna, et del palazzo fatto far per lui, et come fu preso et morto. Cap. 21.

[1] Detto di questa contrata, hora dirassi del Vecchio della Montagna. [2] Mulehet è una con|9r|trada nella qual anticamente soleva stare il Vecchio detto della Montagna, perché questo nome di Mulehet è come a dire luogo dove stanno li heretici nella lingua saracena; et da detto luogo gl’huomini si chiamano “mulehetici”, cioè “heretici della sua legge”, sí come, appresso li christiani, patarini. [3] La condition di questo Vecchio era tale, secondo che messer Marco affermò haver inteso da molte persone: ch’egli havea nome Aloadin et era machomettano, et havea fatto far in una bella valle serrata fra duoi monti altissimi un bellissimo giardino, con tutti i frutti et arbori che havea saputo ritrovare, et d’intorno a quelli diversi et varii palazzi et casamenti, adornati di lavori d’oro et di pitture et fornimenti tutti di seda. [4] Quivi per alcuni piccioli canaletti che rispondevan in diverse parti di questi palazzi si vedeva correr vino, latte et melle et acqua chiarissima, et vi havea posto ad habitar donzelle leggiadre et belle, che sapean cantar et sonar d’ogni instrumento et ballar, et sopra tutto ammaestrate a far tutte le carezze et lusinghe agl’huomini che si possin imaginar. [5] Queste donzelle, benissimo vestite d’oro et di seda, si vedevano andar sollazzando di continuo per il giardino et per i palazzi, perché quelle femine che l’attendevano stavan serrate et non si vedevano mai fuori all’aere. [6] Hor questo Vecchio havea fabricato questo palazzo per questa causa, che, havendo detto Macometto che quelli che facevano la sua volontà anderiano nel paradiso, dove troverian tutte le delicie et piaceri del mondo, et donne bellissime, con fiumi di latte et melle, lui voleva dar ad intender ch’egli fosse propheta et compagno di Macometto, et potesse far andar nel detto paradiso chi egli voleva. [7] Non poteva alcuno intrare in questo giardino, perché alla bocca della valle vi era fatto un castello fortissimo et inespugnabile, et per una strada secreta si poteva andare dentro. [8] Nella sua corte detto Vecchio teneva gioveni da 12 fino a 20 anni, che li pareva essere disposti alle armi et audaci et valenti degli habitanti in quelle montagne, et ogni giorno gli predicava di questo giardino di Macometto, et come lui poteva farli andar dentro. [9] Et quando li pareva faceva dar una bevanda a dieci o dodici de’ detti gioveni, che gli addormentava, et come mezzi morti li faceva portar in diverse camere d’i detti palazzi; et quivi, come si risvegliavano, vedevan tutte le sopradette cose, et a cadauno le donzelle eran intorno cantando, sonando et facendo tutte le carezze et sollazzi che si sapevan imaginare, dandoli cibi et vini delicatissimi, di sorte che quelli, imbriacati da tanti piaceri et dalli fiumicelli di latte et vino che vedevano, pensavano certissimamente essere in paradiso et non si haverian mai voluto partire. [10] Passati quattro o cinque giorni, di novo gli faceva addormentare et portar fuori, et quelli fatti venir alla sua presenza, gli dimandava dove eran stati, quali dicevano: «Per gratia vostra, nel paradiso», et in presenza di tutti raccontavano tutte le cose che haveano vedute, con estremo desiderio et admiratione de chi gli ascoltavano. [11] Et il Vecchio gli rispondeva: «Questo è il comandamento del nostro propheta, che chi difende il signor suo gli fa andar in paradiso, et se tu sarai obediente a me tu haverai questa gratia», et con tal parole gli havea cosí inanimati che beato si reputava colui a cui il Vecchio comandava che andasse a morire per lui. [12] Di sorte che quanti signori o vero altri che fossero inimici del detto Vecchio, con questi seguaci et assassini erano uccisi, perché niuno temeva la morte, pur che facessero il comandamento et volontà del detto Vecchio, et si esponevano ad ogni manifesto pericolo disprezzando la vita presente: et per questa causa era temuto in tutti quei paesi come un tiranno, et havea constituito duoi suoi vicarii, uno alle parti di Damasco, l’altro in Curdistana, che osservavano il medemo ordine con li gioveni che gli mandava; et per grande huomo che si fosse, essendo inimico del detto Vecchio, non poteva campare che non fosse ucciso. [13] Era detto Vecchio sottoposto alla signoria di Ulaú, fratello del Gran Can, qual, havendo inteso delle sceleratezze di costui (perché oltra le cose sopradette faceva rubbar tutti quelli che passavan per il suo paese), nel 1262 mandò un suo essercito ad assediarlo nel castello, dove stette anni tre che non li poteron far cosa alcuna; al fine, mancandogli le vettovaglie, fu preso et morto, et spianato il castello et il giardino del paradiso.

22

[0] D’una pianura abondante di sei giornate, et poi d’un deserto d’otto, che si passa per arrivare alla città di Sapurgan; et delle buone pepone che vi sono, le qual fatte in coreggie seccano. Cap. 22.

[1] Partendosi da questo castello, si cavalca per una bella pianura et per valli et colline, dove sono herbe et pascoli et molti frutti in grande abondanza (e per questo l’essercito di Ulaú vi dimorò volentieri): et dura questa contrata per spazio ben di sei giornate. [2] Qui sono città et castelli, et li huomini osservano la legge di Macometto. [3] Dipoi si entra in un deserto che dura quaranta miglia et cinquanta, dove non è acqua, ma bisogna che gli huomini la portino seco, et le bestie mai non beono fino che non sono fuori di quello, il quale è necessario di passar con gran prestezza perché poi trovan acqua. [4] Et cavalcato che si è le dette sei giornate, si arriva ad una città detta Sapurgan, la qual è abondantissima di tutte le cose necessarie al vivere, et sopra tutto delle miglior pepone del mondo, le quali fanno seccare in questo modo: le tagliano tutte a torno a torno a modo di coreggie, sí come si fanno delle zucche, et poste al sole le seccano, et poi le portano a vendere alle terre prossime per gran mercantia, et ognuno ne compra perché son dolci come mele. [5] Sono in quella cacciagioni di bestie et di uccelli. [6] Hora lasciasi questa città et dirassi di un’altra, che si trova passando la sopradetta, chiamata Balach, la quale è città nobile et grande, ma piú nobile et piú grande fu già, perciò che li Tartari, facendoli molte volte danno, l’hanno malamente trattata et rovinata: et già furono in quella molti palazzi di marmo et corti, et sonvi anchora, ma distrutti et guasti. [7] In questa città dicono gli habitanti che Alessandro tolse per moglie la figliuola del re Dario, i quali osservano la legge di Macometto. [8] Et fino a questa città durano li confini della Persia fra greco et levante, et partendosi dalla sopradetta città si cavalca per due giornate tra levante et greco, nelle quali non si trova habitatione alcuna, perché le genti se ne fuggono alli monti et alle fortezze, per paura de molte male genti et de’ ladri che vanno scorrendo per quelle contrade facendoli gran danni. [9] Vi sono molte acque et molte cacciagioni de diversi animali, et vi sono ancho dei leoni. [10] Vettovaglie non si trovano in questi monti per dette due giornate, ma bisogna che quelli che passano se le portino seco per loro et per li suoi cavalli.

23

[0] Del castello detto Thaican, et de’ monti del sale, et de’ costumi degli habitanti. Cap. 23.

[1] Poi che s’è cavalcato le dette due giornate, si trova un castello detto Thaican, nel quale è un grandissimo mercato di biade, però ch’egli è posto in un bel et gratioso paese. [2] I suoi monti verso mezzodí sono grandi et alti, alcuni de’ quali sono di un sale bianco et durissimo, et li circonstanti per trenta giornate ne vengono a torre, perché egli è il miglior che sia in tutto ’l mondo; ma è tanto duro che non se ne può torre se non rompendolo con pali di ferro, et ve n’è in tanta copia che tutto ’l mondo si potria fornire. [3] Gli altri monti sono abondanti di mandole et pistacchi, de’ quali si ha grandissimo mercato. [4] Et partendosi dal detto castello, si va per tre giornate fra greco et levante, sempre trovando contrate bellissime, dove sono molte habitationi abondanti de frutti, biade et vigne. [5] Gli habitatori osservano la legge di Macometto, et sono micidiali, perfidi et maligni, et attendono molto alle crapole et bere, perché hanno buon vino cotto. [6] In capo non portano cosa alcuna, se non una cordella de dieci palmi, con la quale circondano il capo. [7] Sono anchora buoni cacciatori et prendono assai bestie salvatiche, et non portano altre veste se non delle pelli di quelle che uccideno, delle quali acconcie se ne fanno fare veste et scarpe.

24

[0] Della città di Scassem, et de’ porci spinosi che ivi si trovano. Cap. 24.

[1] Doppo il cammino di tre giornate si trova una città nominata Scassem, quale è di un conte, et sono altre sue città et castelli ne’ monti. [2] Per mezzo di questa città corre un fiume assai ben grande. [3] Ivi sono porci spinosi, contra i quali come il cacciatore instiga i cani, immediate si reducono insieme et con gran furia tirano le spine agli huomini et ai cani, et gli feriscono con le spine che hanno sopra la pelle. [4] Gli habitanti han lingua per sé, et li pastori che hanno bestie habitano in que’ monti, in alcune caverne che da loro medesimi si hanno fatte; il che possono far facilmente, perché i monti sono di terra et non sassosi. [5] Et quando si parte dalla città sopradetta, si va per tre giornate che non si trova habitatione alcuna né cosa pel viver de’ viandanti, salvo che acqua, ma per li cavalli si trovano herbe sufficientemente: per il che gli viandanti si portano seco le cose necessarie. [6] In capo veramente di tre giornate si trova una provincia detta Balaxiam.

25

[0]|10r| Della provincia di Balaxiam, et delle pietre pretiose, detti balassi, che ivi si cavano, le qual sono tutte del re; et d’i cavalli et falconi che si trovano, et dell’aer eccellente et sano che è nelle sommità de alcuni monti; et de’ vestimenti che portano le donne per parer belle.

Cap. 25.

[1] Balaxiam è una provincia le cui genti osservano la legge macomettana et hanno parlare da sé; et certamente è gran regno, che per lunghezza dura ben 12 giornate. [2] Reggesi per successione di heredità, cioè tutti i re sono d’una progenie, la qual discese dal re Alessandro et dalla figliuola di Dario, re de’ Persiani: et tutti quei re si chiamano Zulcarnen, che vuol dire “Alessandro”. [3] Quivi si trovano quelle pietre pretiose che si chiamano balassi, molto belli et di gran valuta, et nascono ne’ monti grandi. [4] Ma questo però è in un monte solo, il qual si chiama Sicinan, nel qual il re fa far caverne simili a quelle dove si cava l’argento et l’oro, et a questo modo trovano queste pietre; né alcuno altro salvo che ’l re può farne cavare, sotto pena della vita, se di special gratia per il re non vien concesso. [5] Et qualche volta ne dona ad alcuni gentilhuomini che passano di là, quali non possono comprarne da altri né portarne fuori del suo regno senza sua licenza: et questo fa egli perché vuole che i suoi balassi per honor suo siano di maggior valuta et tenuti piú cari, perché, se cadauno a suo piacere li potesse cavare o comprare et portar fuori, trovandosene in tanta copia venirebbono a vilissimo pretio. [6] Et però il re dona di quelli ad alcuni re et prencipi per amore, ad alcuni ne dà per tributo, et ancho ne cambia per oro: et questi si possono trazere per altre contrade. [7] Si trovano similmente monti nelli quali vi è la vena delle pietre delle qual si fa l’azzurro, il migliore che si trovi nel mondo, et vene che producono argento, rame et piombo in grandissima quantità. [8] È provincia certamente fredda. [9] Ivi anchora nascono buoni cavalli, che sono buoni corridori, et hanno l’unghie d’i piedi cosí dure che non hanno bisogno di portar ferri: et gli huomini correno con quelli per le discese de’ monti, dove altre bestie non potriano correre né havrebbono ardire di corrervi. [10] Et gli fu detto che non era passato molto tempo che si trovavano in questa provincia cavalli ch’erano discesi dalla razza del cavallo di Alessandro, detto Bucefalo, i quali nascevano tutti con un segno in fronte, et ne era solamente la razza in poter de un barba del re; qual, non volendo consentir che ’l re ne havesse, fu fatto morire da quello, et la moglie per dispetto della morte del marito distrusse la detta razza, et cosí s’è perduta. [11] Oltre di ciò, ne’ monti di quella provincia nascono falconi sacri, che sono molto buoni et volano bene, et similmente falconi laneri, astori perfetti et sparavieri. [12] Sono gli habitanti cacciatori di bestie et uccellatori; hanno buono formento, et vi nasce l’orzo senza scorza. [13] Non hanno oglio d’olivo, ma lo fanno de noci et de susimano, il quale è simile alle semenze di lino, ma quelle del susiman sono bianche, et l’oglio è migliore et piú saporito di qualunche altro oglio, et l’usano i Tartari et altri habitanti in quelle parti. [14] In questo regno sono passi molto stretti et luoghi molto forti, di modo che non temono di alcuna persona che possi entrar nelle loro terre per farli danni. [15] Gli huomini sono buoni arcieri et ottimi cacciatori, et quasi tutti si vestono di quori di bestie, perché hanno carestia dell’altre veste. [16] In quei monti abondano montoni infiniti, et vanno alle volte in un gregge quattrocento, cinquecento et seicento, et tutti sono salvatichi, et se ne prendono molti né mai mancano. [17] La proprietà di quei monti è tale che sono altissimi, di modo che un huomo ha che fare dalla mattina insino alla sera a poter ascendere in quelle sommità, nelle quali vi sono grandissime pianure et grande abondanza di herbe, et arbori, et fonti grandi di purissime acque, che discorreno a basso per quei sassi et rotture. [18] In detti fonti si trovano temali et molti altri pesci delicati, et l’aere è cosí puro in quelle sommità et l’habitarvi cosí sano, che gli huomini che stanno nella città et nel piano et valli, come si sentono assaltar dalla febre di cadauna sorte o d’altra infirmità accidentale, immediate ascendono il monte et stanvi duoi o tre giorni et si ritrovano sani, per causa dell’eccellenza dell’aere: et messer Marco affermò haverlo provato, perciò che ritrovandosi in quelle parti stette ammalato circa un anno, et subito che fu consigliato di andar sopra detto monte si risanò. [19] Le donne di questo luogo grande et honorevoli si fanno dalla cintura in giú veste a modo di braghesse, et mettono in quelle secundo le sue facultà chi cento, chi ottanta, chi sessanta braccia di bambasina, et le fanno increspate: et questo acciò che parino piú grosse nelle parti dalla cinta in giú, però che i suoi mariti si dilettano di donne che habbino quelle parti grosse, et quelle che l’han maggiori vengono riputate piú belle.

26

[0] |10v| Della provincia di Bascià, che è verso mezzodí, et come gli habitanti portano molti lavori d’oro all’orecchie, et costumi loro. Cap. 26.

[1] Partendosi da Balaxiam et cavalcando verso mezzodí per dieci giornate, si trova una provincia detta Bascià, gli huomini della qual hanno il parlar da per sé et adorano gli idoli, et sono genti brune, et molto esperti nell’arte magica, et di continuo attendono a quella. [2] Portano all’orecchie circoli d’oro et d’argento pendenti, con perle et pietre pretiose, lavorati con grande artificio. [3] Sono genti perfide et crudeli et astute secondo i costumi loro. [4] La provincia è in luogo molto caldo. [5] Il viver loro sono carne et risi.

27

[0] Della provincia di Chesmur, che è verso sirocco; degli habitanti, che sanno l’arte magica; et come sono vicini al mare dell’India, et della sorte di heremiti che son ivi, et vita loro di grande astinentia. Cap. 27.

[1] Chesmur è una provincia che è distante da Bascià per sette giornate, la cui gente ha il parlar da sua posta; sanno l’arte magica sopra tutti gli altri, di sorte che constringono gli idoli, che sono muti et sordi, a parlare, et fanno oscurare il giorno et molte altre cose maravigliose, et sono il capo di tutti quelli che adorano gli idoli, et da loro discesero gli idoli. [2] Da questa contrata si può andare al mare degli Indiani. [3] Gli huomini di questa provincia sono bruni et non del tutto negri, et le donne, anchor che siano brune, sono però bellissime. [4] Il viver loro è carne, riso et altre cose simili; nondimeno sono magri. [5] La terra è calda temperatamente, et in quella provincia sono di molte altre città et castelli. [6] Sonvi anchora boschi et luoghi deserti et passi fortissimi, di modo che gli huomini di quella contrada non hanno paura di persona alcuna che li vada ad offendere; il re loro non è tributario di alcuno. [7] Hanno heremiti secondo la loro consuetudine, i quali stanno ne’ suoi monasterii, et sono molto astinenti nel mangiare et bere et osservano grandissima castità, et guardansi grandemente dalli peccati, per non offender li lor idoli che adorano, et vivono lungo tempo. [8] Di questa tal sorte ‹di› huomini vi sono abbatie et molti monasterii, et da tutto il popolo gli viene portata gran riverentia et honore. [9] Et gl’huomini di quella provincia non uccidono animali né fanno sangue, et se vogliono mangiare carne è necessario che li Saraceni, che sono mescolati tra loro, uccidano gli animali. [10] Il corallo che si porta dalla patria nostra in quelle parti si spende per maggior pretio che in alcuna altra parte. [11] Se io volessi andar seguendo alla dritta via intrarei nell’India, ma ho deliberato di scriverla nel terzo libro, et per tanto ritornarò alla provincia Balaxiam, per la quale si drizza il cammino verso il Cataio tra levante et greco, trattando come s’è cominciato delle provincie et contrate che sono nel viaggio, et dell’altre che vi sono a torno a destra et a sinistra confinanti con quelle.

28

[0] Della provincia di Vochan, dove si va ascendendo per tre giornate fino sopra un grandissimo monte, et dei montoni che son ivi; et come il fuogo che si fa in quella altezza non ha la forza che ha nel piano; et degli habitanti, che sono come selvatichi. Cap. 28.

[1] Partendosi dalla provincia di Balaxiam et camminando per greco et levante, si trovano sopra la ripa di uno fiume molti castelli et habitationi, che sono del fratello del re de Balaxiam; et passate tre giornate si entra in una provincia che si chiama Vochan, la qual tien per longhezza et larghezza tre giornate: et le genti di quella osservano la legge di Macometto, et hanno parlar da per sé; sono huomini di approbata vita et valenti nell’arme. [2] Il loro signore è un conte che è soggetto al signore di Balaxiam. [3] Hanno bestie et uccellatori di ogni maniera. [4] Et partendosi da questa contrata si va per tre giornate tra levante et greco sempre ascendendo per monti, et tanto si ascende che la sommità di quei monti si dice essere il piú alto luogo del mondo. [5] Et quando l’huomo è in quel luogo trova fra duoi monti un gran lago, dal qual per una pianura corre un bellissimo fiume: et in quella sono i migliori et i piú grassi pascoli che si possino trovare, dove in termine di dieci giorni le bestie (siano quanto si voglin magre) diventano grasse. [6] Ivi è grandissima moltitudine di animali salvatichi, et specialmente montoni grandissimi, che hanno le corna alla misura di sei palmi et almanco quattro o tre, delle qual li pastori fanno scodelle et vasi grandi dove mangiano, et con quelli serrano ancho i luoghi dove tengono le lor bestie; et gli fu detto che vi sono lupi infiniti che uccidono molti di quei becchi, et che si trova tanta moltitudine di corna et ossa, che di quelli atorno le vie si fanno gran monti per mostrar alli viandanti la strada |11r| che passano al tempo della neve. [7] Et si cammina per dodici giornate per questa pianura, la qual si chiama Pamer, et in tutto questo cammino non si trova alcuna habitatione, per il che bisogna che i viandanti portino seco le vettovaglie. [8] Ivi non appare sorte alcuna de uccelli, per l’altezza de’ monti, et gli fu affermato per miracolo che per l’asprezza del freddo il fuogo non è cosí chiaro come negli altri luoghi, né si può ben con quello cuocere cosa alcuna. [9] Poi che si ha cavalcato le dette dodici giornate, bisogna cavalcare circa giornate quaranta pur verso levante et greco, continuamente per monti, coste et valli, passando molti fiumi et luoghi deserti, ne’ quali non si trova habitatione né herba alcuna, ma bisogna che li viandanti portino seco da vivere: et questa contrada si chiama Beloro. [10] Nelle sommità di quei monti altissimi vi habitano huomini che sono idolatri et come salvatichi, quali non vivono di altro che di cacciagioni di bestie, si vestono de cuori et sono genti inique.

29

[0] Della città di Caschar, et delle mercantie che fanno gli habitanti. Cap. 29.

[1] Dapoi si perviene a Caschar, che (come si dice) già fu reame, ma ora è sottoposto al dominio del Gran Can, le cui genti osservano la legge di Macometto. [2] La provincia è grande, et in quella sono molte città et castella, delle quali Caschar è la piú nobile et maggiore; sono tra levante et greco. [3] Gli habitanti di questa provincia hanno parlar da per sé, vivono di mercantie et arti, et specialmente de’ lavoreri di bambagio. [4] Hanno belli giardini et molte possessioni fruttifere et vigne; vi nasce bambagio in grandissima quantità, lino et canevo. [5] La terra è fertile et abondante di tutte le cose necessarie. [6] Da questa contrata si partono molti mercatanti che vanno per il mondo, et nel vero sono genti avare et misere, perché mangiano male et peggio bevono. [7] Oltra li macomettani vi habitano alcuni christiani nestorini, che hanno la loro legge et chiese. [8] Et la sopradetta provincia è di lunghezza di cinque giornate.

30

[0] Della città di Samarchan, et del miracolo della colonna nella chiesa di San Giovambattista. Cap. 30.

[1] Samarchan è una città nobile, dove sono bellissimi giardini et una pianura piena di tutti i frutti che l’huomo può desiderare. [2] Gli habitanti parte sono christiani, parte Saraceni, et sono sottoposti al dominio d’un nepote del Gran Can, del qual non è però amico, anzi è di continuo fra loro inimicitia et guerra. [3] Et è posta la detta città verso il vento maestro. [4] Et in questa città gli fu detto esser accaduto un miracolo, in questo modo: che già anni cento et venticinque uno nominato Zagathai, fratello germano del Gran Can, si fece christiano, con grande allegrezza dei christiani habitanti, quali col favore del signore fecero fabricar una chiesa in nome di San Giovambattista: et fu fatta con tal artificio che tutto il tetto di quella (che era ritonda) si fermava sopra una colonna che era in mezzo, et di sotto di quella vi metterono una pietra quadra, la qual tolsero con il favor del signor di uno edificio de’ Saraceni, li quali non hebbero ardimento di contradirgli per paura. [5] Ma, venuto a morte Zagathai, gli successe un suo figliuolo qual non volse essere christiano, et allhora i Saraceni impetrorno da lui che li christiani li restituissero la sua pietra; la qual anchor che i christiani si offerissero di pagarla, non volsero, percioché pensavano che, levandola via, la chiesa dovessi rovinare: per la qual cosa li christiani dolenti ricorsero a ricomandarsi al glorioso San Giovanni, con grande lachrime et humiltà. [6] Et venuto il giorno nel qual doveano restituire la detta pietra, per intercession del santo, la colonna si levò alta dalla base della detta pietra per palmi tre in aere, che facilmente si poteva levar via la pietra de’ Saraceni senza che li fosse posto sostentamento alcuno, et cosí fino al presente si vede detta colonna senza alcuna cosa sotto. [7] Si è detto a bastanza di questo, dirassi della provincia de Carchan.

31

[0] Della città di Carchan, dove gli huomini hanno le gambe grosse et il gosso nella gola. Cap. 31.

[1] De qui partendosi si vien nella provincia di Carchan, la cui lunghezza dura cinque giornate. [2] Le genti osservano la legge di Macometto, et vi sono alcuni christiani nestorini, et ‹sono› soggetti al dominio del sopradetto nepote del Gran Can. [3] Sono copiosi delle cose necessarie, et massimamente di bambaso. [4] Gli habitanti sono grandi artefici, et hanno per la maggior parte le gambe grosse et un gran gosso nella gola, il che avviene per la proprietà dell’acque che bevono. [5] Et in questa provincia altro non v’è degno di memoria.

32

[0] |11v| Della città di Cotam, et abondanza di ogni cosa necessaria al viver. Cap. 32.

[1] Dapoi si perviene alla provincia di Cotam, fra greco et levante, la cui lunghezza è otto giornate, et è subdita al Gran Can, et quelle genti osservano la legge di Macometto. [2] Sono in essa molte città et castelli, et la piú nobil città, et dalla quale il regno ha tolto il nome, è Cotam, la quale è abondantissima di tutte le cose necessarie al viver humano. [3] Vi nasce bambagio, lino et canevo, biada et vino et altro. [4] Gli habitanti hanno vigne, possessioni et molti giardini; vivono di mercantie et di arti, et non sono huomini da guerra. [5] Si è detto di questa provincia, dicasi d’un’altra detta Peym.

33

[0] Della provincia di Peym, et delle pietre calcedonie et diaspri che si trovano in un fiume; et della consuetudine che hanno di maritarsi di novo ogni fiata che vogliono. Cap. 33.

[1] Peym è una provincia la cui lunghezza è di cinque giornate tra levante et greco, le cui genti sono macomettane et soggette al Gran Can. [2] Vi son molte città et castella, ma la piú nobile si chiama Peym; per quella discorre un fiume, nel qual si trovano molte pietre di calcedonii et diaspri. [3] Sono in questa provincia tutte le cose necessarie; ivi anchor nasce il bambagio. [4] Gli huomini vivono d’arti et di mercantie, et hanno questo brutto costume, che se la donna ha marito al qual accada andar ad altro luogo dove habbia a stare per venti giorni, la donna, secondo la loro consuetudine, subito può torre un altro marito, s’ella vuole; et gli huomini ovunque vadano similmente si maritano. [5] Et tutte le provincie sopradette, cioè Caschar, Cotam, Peym, fino alla città di Lop, sono comprese nelli termini della Gran Turchia. [6] Seguita della provincia Ciarcian.

34

[0] Della provincia di Ciarcian, et delle pietre de diaspri et calcedonii che si trovano nei fiumi et sono portati in Aucata; et come gli habitanti fuggono nei diserti come passa l’essercito de’ Tartari. Cap. 34.

[1] Ciarcian è una provincia della Gran Turchia, intra greco et levante; già fu nobile et abondante, ma da’ Tartari è stata destrutta. [2] Le sue genti osservano la legge di Macometto. [3] Sono in detta provincia molte città et castelli, ma la città maestra del regno è Ciarcian. [4] Vi sono molti fiumi grossi, nelli quali si trovano molti diaspri et calcedonii che si portano fino ad Ouchach a vendere, et di quelli ne fanno gran mercantia, per esservene gran copia. [5] Da Peym fino a questa provincia et ancho per essa è tutta arena, et sonvi molte acque triste et amare, et in pochi luoghi ve n’è de dolci et buone. [6] Et quando avviene che qualche essercito de’ Tartari, cosí di amici come de nimici, passa per quelle parti, se sono nimici depredano tutti i suoi beni, et se sono amici uccidono et mangiano tutte le loro bestie: et però, quando sentono che deono passare, subitamente con le mogli, con figliuoli et bestie fuggono nell’arena per due giornate, a qualche luogo dove siano buone acque et che possino vivere. [7] Et sappiate che, quando raccoglieno le loro biade, le ripongono lontano dalle habitationi in quelle arene, in alcune caverne, per paura degli esserciti, et d’indi riportano le cose necessarie a casa di mese in mese; né altri che essi cognoscono que’ luoghi, né mai alcuno può sapere dove vadano, perché soffiando il vento subito cuopre le loro pedate con l’arena. [8] Et poi, partendosi da Ciarcian, si va per cinque giornate per l’arena, dove sono cattive acque et amare, et in alcuni luoghi sono buone et dolci, ma non vi sono altre cose che siano da dire. [9] Et al fine delle cinque giornate si trova una città detta Lop, la quale confina col gran deserto.

35

[0] Della città di Lop et del deserto che è vicino; et delle cose mirabili che sentono passando per quello. Cap. 35.

[1] Lop è una città dalla qual partendosi s’entra in un gran deserto, il qual similmente si chiama Lop, posto fra greco et levante; et la città è del Gran Can, le cui genti osservano la legge di Macometto. [2] Et quelli che vogliono passar il deserto riposano in questa città per molti giorni, per preparar le cose necessarie per il cammino, et cargati molti asini forti et camelli di vettovaglie et mercantie, se le consumano avanti che possino passarlo, ammazzano gli asini et camelli et li mangiano; ma menano per il piú li camelli, perché portano gran cariche et sono di poco cibo. [3] Et le vettovaglie deono essere per un mese, perché tanto stanno a passarlo per il traverso, perché alla lunga saria quasi impossibile a poterlo passare, non potendosi portare vittuaria a sufficienza, per la lunghezza del cammino, che dureria quasi un anno. [4] Et in queste trenta giornate sempre si va per pianura di arena et per montagne sterili, et sempre in capo di ciascuna giornata si truova acqua, non già a bastanza per molta gente, ma |12r| per cinquanta o vero cento huomini con le loro bestie: et in tre o vero quattro luoghi si trova acqua salsa et amara, et tutte le altre acque sono buone et dolci, che sono circa ventiotto. [5] In questo deserto non habitano bestie né uccelli, perché non vi trovano da vivere. [6] Dicono per cosa manifesta che nel detto deserto vi habitano molti spiriti, che fanno agli viandanti grandi et maravigliose illusioni per fargli perire, perché a tempo di giorno, se alcuno riman adietro o per dormire o per altri suoi necessarii bisogni, et che la compagnia passi alcun colle che non lo possino piú veder, subito si sentono chiamar per nome et parlar a similitudine della voce d’i compagni, et credendo che siano alcun di quelli vanno fuor del cammino, et non sapendo dove andar periscono. [7] Alcune fiate di notte sentiranno a modo de impeto di qualche gran cavalcata di gente fuor di strada, et credendo che siano della sua compagnia se ne vanno dove sentono il rumore, et fatto il giorno si trovano ingannati et capitano male. [8] Similmente di giorno, se alcun riman adietro, gli spiriti appareno in forma di compagni et lo chiaman per nome et lo fanno andar fuor di strada. [9] Et ne sono stati di quelli che, passando per questo deserto, hanno veduto un essercito di gente che gli veniva incontro, et dubitando che vogliano rubbarli si han messo a fuggire, et lasciata la strada maestra, non sapendo piú in quella ritornare, miseramente sono mancati dalla fame. [10] Et veramente sono cose maravigliose et fuor di ogni credenza quelle che vengono narrate che fanno questi spiriti in detto deserto, che alle fiate per aere fanno sentire suoni di varii et diversi instrumenti di musica et similmente tamburi et strepiti di arme: et però costumano d’andar molto stretti in compagnia, et avanti che comenzino a dormire mettono un segnal verso che parte hanno da camminare, et a tutti li loro animali legano al collo una campanella, qual sentendosi non li lascia uscire di strada; et con grandi travagli et pericoli è di bisogno di passar per detto deserto.

36

[0] Della provincia di Tanguth et della città di Sachion, et dei costumi quando nasce loro un figliuolo, et del modo come abbrucciano li corpi d’i morti. Cap. 36.

[1] Quando s’è cavalcato queste trenta giornate pel deserto, si trova una città detta Sachion, la quale è del Gran Can, et la provincia si chiama Tanguth. [2] Et adorano gl’idoli, et vi sono Turchi et alcuni pochi christiani nestorini et ancho Saraceni, ma quelli che adorano gli idoli hanno linguaggio da per sé. [3] La città è tra levante et greco. [4] Non sono genti che vivano di mercantie, ma delle biade et frutti che raccogliono delle lor terre. [5] Oltre di ciò hanno molti monasterii et abbatie, che sono piene de idoli di diverse maniere, alli quali sacrificano et honorano con grandissima riverenza. [6] Et come nasce loro un figliuolo maschio, lo raccomandano ad alcun di detti idoli, ad honor del qual nutriscono un montone in casa quell’anno, in capo del quale, quando vien la festa del detto idolo, lo conducono avanti di quello insieme con il figliuolo: dove sacrificano il montone, et cotte le carni gliele lassano per tanto spatio fino che compino le sue orationi, nelle quali pregano gli idoli che conservino il suo figliuolo in sanità, et dicono che essi idoli fra questo spatio hanno succiato tutta la sustantia o vero sapore delle carni. [7] Fatto questo portano quelle carni a casa, et congregati i parenti et amici con grande allegrezza et riverenza le mangiano, et salvano tutte le ossa in alcuni belli vasi; et li sacerdoti degl’idoli hanno il capo, li piedi, l’interiori et la pelle et qualche parte della lor carne. [8] Similmente questi idolatri nella lor morte osservano questo costume, che quando manca alcun di loro che sia di condition, che gli vogliono abbrucciar il corpo, li parenti mandano a chiamare gli astrologhi et li dicono l’anno, il giorno et l’hora che ’l morto nacque; quali, poi che hanno veduto sotto che constellation, pianeta et segno l’era nato, dicono in tal giorno el die’ esser abbrucciato. [9] Et se allhora quel pianeta non regna, fanno retener il corpo tal volta una settimana morto et ancho sei mesi avanti che l’abbruccino, aspettando che ’l pianeta gli sia propitio et non contrario, né mai gli abbrucciarebbono fino che gli astrologhi non dicono: «Hora è il tempo». [10] Di sorte che, bisognando tenerlo in casa longamente, per schiffar la puzza fanno far una cassa di tavole grosse un palmo, molto ben congionte et depinte, dove posto il corpo con molte gomme odorifere, canfora et altre speciarie, gli stroppano le congiunture con pezze et calcina, coprendola di panni di seta. [11] Et in questo tempo che la tengono in casa, ogni giorno gli fanno preparar la tavola con pan, vino et altre vivande, lassandogliela per tanto spatio quanto uno potria mangiare commodamente, perché dicono che ’l spirito, che è ivi presente, si satia dell’odore di quelle vivande. [12] Alcune fiate detti astrologhi dicon alli parenti che ’l non è buon che ’l corpo sia portato per |11v| la porta maestra, perché trovano cause delle stelle o altra cosa che gli è in opposito alla detta porta, et lo fanno portar fuori per un’altra parte della casa, et alle volte fanno rompere i muri li quali guardano a dirittura verso il pianeta che gli è secondo et prospero, et per quella apritura fanno portar fuori il corpo: et se fosse fatto altramente, dicono che gli spirti d’i morti offenderebbono quelli di casa et gli farian danno. [13] Et se accade che ad alcuno di casa gli intravengha qualche male o disgratia o vero muora, subito gli astrologhi dicono che ’l spirito del morto ha fatto questo per non esser stà portato fuori essendo in essaltation il pianeta sotto il qual nacque, o vero che gli era contrario, o vero che non è stà per quella debita parte della casa che si dovea. [14] Et dovendosi abbrucciar fuori della città, li fanno fare per le strade dove l’ha da passar alcune casette de legname con il suo portico, coperte di seta; et quando vi gionge il corpo lo mettono in quelle, ponendoli avanti pan, vino, carne et altre vivande, et cosí fanno fin che giongono al luogo determinato, havendo per opinione che ’l spirito del morto si restauri alquanto et pigli vigore, dovendo esser presente a veder abbrucciare il corpo. [15] Usano ancho un’altra cerimonia, che pigliano molte carte fatte di scorzi de arbori, et sopra quelle dipingono huomini, donne, cavalli, camelli, danari et veste, et quelle abbrucciano insieme col corpo, perché dicono che nell’altro mondo l’haverà servitori, cavalli et tutte le altre cose che son state depinte sopra le carte. [16] Et a tutto questo officio vi sono presenti tutti li stormenti della città, di continuo sonando. [17] Havendo detto di questa, dicasi delle altre città che sono verso maestro, presso al capo del deserto.

37

[0] Della provincia di Chamul, et del costume che hanno di lasciar che le lor mogli et figliuole dormino con li forestieri che passano per il paese. Cap. 37.

[1] Chamul è una provincia posta fra la gran provincia di Tanguth soggetta al Gran Can, et sono in quella molte città et castella, delle quali la maestra città è detta similmente Chamul; et la provincia è in mezzo de duoi deserti, cioè del gran deserto che di sopra s’è detto et di un altro picciolo forse di tre giornate. [2] Tutte quelle genti adorano gl’idoli et hanno linguaggio da per sé; vivono de frutti della terra, perché ne hanno grande abondanza, et di quelli vendono a’ viandanti. [3] Gli huomini di questa provincia sono sollazzosi, et non attendono ad altro che a sonare instrumenti, cantare, ballare, et a scrivere et leggere secondo la loro consuetudine, et darsi piacere et diletto. [4] Et se alcun forestiero va ad alloggiar alle loro case molto si rallegrano, et comandano strettamente alle loro mogli, figliuole, sorelle et altre parenti che debbano integramente adimpire tutto quello che li piace; et loro, partendosi di casa, se ne vanno alle ville et de lí mandano tutte le cose necessarie al lor hoste, nondimeno con il pagamento di quelli, né mai ritornano a casa fin che ’l forestiero vi sta. [5] Giaceno con le lor moglie, figliuole et altre, pigliandosi ogni piacere come se fussero proprie sue mogli: et questi popoli reputano questa cosa esserli di grande honore et ornamento, et molto grata alli loro idoli, facendo cosí buon ricetto agli viandanti bisognosi di recreatione, et che per questo siano multiplicati tutti li loro beni, figliuoli et facultà, et guardati da tutti i pericoli, et che tutte le cose gli succedino con grandissima felicità. [6] Le donne veramente sono molto belle et molto sollazzose, et obedientissime a quanto li mariti comandano. [7] Ma avvenne al tempo che Manghú Gran Can regnava in questa provincia, havendo inteso i costumi et consuetudini cosí vergognose, comandò strettamente agli huomini di Chamul che per lo innanzi dovessero lasciare questa cosí dishonesta opinione, non permettendo che alcun di quella provincia alloggiasse forestieri, ma che li provedessero di case communi dove potessero stare. [8] Costoro, dolenti et mesti, per tre anni incirca osservorono i comandamenti del re; ma finalmente, vedendo che le terre sue non rendevano i soliti frutti, et nelle cose loro gli succedevano molte adversità, ordinorono ambassadori al Gran Can, pregandolo che quello che dalli loro antichi padri et avi a loro era stà lasciato con tanta sollennità fosse contento che potessero osservare, perciò che, dapoi che mancavano di far questi piaceri et elemosine verso i forestieri, le lor case andavano di mal in peggio et in rovina. [9] Il Gran Can, intesa questa dimanda, disse: «Poi che tanto desiderate il vituperio et ignominia vostra, siavi concesso: andate et vivete secondo i vostri costumi, et fate che le donne vostre siano limosinarie verso i viandanti». [10] Et con questa risposta tornarono a casa, con grandissima allegrezza de tutto il popolo, et cosí fino al presente osservano la prima consuetudine.

38

[0] |13r| Della provincia di Succuir, dove si trova il reubarbaro, che vien condotto per il mondo. Cap. 38.

[1] Partendosi dalla provincia predetta si va per dieci giornate fra greco et levante, et in quel cammino vi sono poche habitationi, né cose degne di raccontarle; et in capo de dieci giornate si trova una provincia chiamata Succuir, nella qual sono molte città et castella, et la principal città è anchor lei nominata Succuir, le cui genti adorano gli idoli, et sono anchora in quella alcuni christiani. [2] Sono sottoposti alla signoria del Gran Can, et la gran provincia generale nella quale si contiene questa provincia, et altre due provincie subsequenti, si chiama Tanguth. [3] Et per tutti li suoi monti si trova reubarbaro perfettissimo in grandissima quantità, et i mercatanti che ivi lo cargano lo portano per tutto ’l mondo. [4] Vero è che gli viandanti che passano de lí non ardiscono andare a que’ monti con altre bestie che di quella contrata, perché vi nasce un’herba venenosa, di sorte che se le bestie ne mangiano perdono l’unghie: ma quelle di detta contrata cognoscono l’herba et la schifano di mangiare. [5] Gli huomini di Succuir vivono dei frutti della terra et delle lor bestie, et non usano mercantie. [6] La provincia è tutta sana, et le genti sono brune.

39

[0] Della città di Campion, capo della provincia di Tanguth, et della sorte de’ loro idoli, et della vita de’ religiosi idolatri, et il lunario che hanno; et de’ costumi degli altri habitanti nel maritarsi. Cap. 39.

[1] Campion è una città che è capo della provincia di Tanguth: la città è molto grande et nobile et signoreggia a tutta la provincia. [2] Le sue genti adorano gli idoli, alcuni osservano la legge di Macometto, et altri sono christiani, i quali hanno tre belle et grandi chiese in detta città. [3] Quelli che adorano gl’idoli hanno secondo la loro consuetudine molti monasterii et abbatie, et in quelle gran moltitudine de idoli, de’ quali alcuni sono di legno, alcuni di terra et alcuni di pietra, coperti d’oro et molto maestrevolmente fatti. [4] Di questi ne sono de grandi et de piccioli: quelli che sono grandi sono ben passa dieci di lunghezza et giaceno distesi, et li piccioli gli stanno adietro, quasi che paiono come discepoli a farli riverenza. [5] Vi sono idole grande et picciole, che similmente hanno in gran veneratione. [6] I religiosi idolatri vivono, secondo che pare a loro, piú honestamente degli altri idolatri, perché s’astengono da certe cose, cioè dalla lussuria et altre cose dishoneste; quantunque reputino la lussuria non essere gran peccato, perché questa è la loro conscienza, che se la donna ricerca l’huomo d’amore possino usare con quella senza peccato, ma se essi sono primi a ricercar la donna allhora lo reputano a peccato. [7] Item hanno uno lunario di mesi quasi come habbiamo noi, secondo la cui ragione quelli che adorano gli idoli per cinque o quattro o vero tre giorni al mese non fanno sangue, né mangiano uccelli né bestie, come è usanza appresso di noi ne’ giorni di venere, di sabbato et vigilie de’ Santi. [8] Et i seculari toglieno fino a trenta mogli, et piú et manco secondo che le loro facultà ricercano, et non hanno dote da quelle, ma loro danno alle donne dote di bestie, schiavi et danari. [9] Et la prima moglie tiene sempre il luogo della maggiore, et se veggono ch’alcuna di loro non si porti bene con l’altre, o vero non li piace, la possono scacciare. [10] Pigliano ancho le parente et congiunte di sangue per mogli, et le matrigne. [11] Et molti peccati mortali appresso loro non si reputano peccati, perché vivono quasi a modo di bestie. [12] In questa città messer Marco Polo dimorò con suo padre et barba per sue faccende circa un anno.

40

[0] Della città di Ezina, et degli animali et uccelli che ivi si trovano, et del deserto che è di quaranta giornate verso tramontana. Cap. 40.

[1] Partendosi da questa città di Campion et cavalcando per dodici giornate, si trova una città nominata Ezina, in capo del deserto dell’arena verso tramontana: et contiensi sotto la provincia di Tanguth. [2] Le sue genti adorano idoli; hanno camelli et molte bestie di molte sorti. [3] In quella si trovano falconi laneri et molti sacri molto buoni. [4] Gli huomini vivono di frutti della terra et di bestie, et non usano mercantie. [5] I viandanti che passano per questa città tolgono vettovaglia per quaranta giornate, però che, partendosi da quella verso tramontana, si cavalca per un deserto quaranta giornate, dove non si trova habitatione alcuna, né stanno le genti se non l’estate nei monti et in alcune valli. [6] Ivi si trovano acque et boschi di pini, asini salvatichi et molte altre bestie similmente salvatiche. [7] Et quando s’è cavalcato per questo deserto 40 giornate, si trova una città verso tramontana detta Carachoran. |13v| [8] Et tutte le provincie sopradette et città, cioè Sachion, Chamul, Chinchitalas, Succuir, Campion et Ezina, sono pertinenti alla gran provincia di Tanguth.

41

[0] Della città di Carchoran, che è il primo luogo dove li Tartari si riducessero ad habitare. Cap. 41.

[1] Carchoran è una città il cui circuito dura tre miglia, et fu il primo luogo appresso al quale ne’ tempi antichi si ridussero i Tartari. [2] Et la città ha d’intorno un forte terraglio, perché non hanno copia di pietre; appresso la qual di fuori è uno castello molto grande, et in quello è un palazzo bellissimo dove habita il rettore di quella.

42

[0] Del principio del regno d’i Tartari, et de che luogo vennero, et come erano sottoposti ad Umcan, che chiamano un Prete Gianni, che è sotto la tramontana. Cap. 42.

[1] Il modo adunque pel quale i Tartari cominciorono primamente a dominare si dechiarirà al presente. [2] Essi habitavano nelle parti di tramontana, cioè in Ciorza et Bargu, dove sono molte pianure grandi et senza habitatione alcuna, cioè di città et castella, ma vi sono buoni pascoli et grandi fiumi et molte acque. [3] Fra loro non haveano alcun signore, ma davano tributo ad un gran signore che, come intesi, nella lingua loro si chiamava Umcan, qual è opinion de alcuni che vogli dire nella nostra Prete Gianni: a costui i Tartari davano ogni anno la decima de tutte le lor bestie. [4] Procedendo il tempo, questi Tartari crebbero in tanta moltitudine che Umcan, cioè Prete Gianni, temendo di loro si propose separarli per il mondo in diverse parti; onde, qualunche volta gli veniva occasione che qualche signoria si ribellasse, eleggeva tre et quattro per centenaro di questi Tartari et mandavali a quelle parti: et cosí la loro potenza si diminuiva; et similmente faceva nell’altre sue faccende, et deputò alcuni de’ suoi principali ad essequir questo effetto. [5] Allhora, vedendosi i Tartari a tanta servitú cosí indegnamente soggiogati, non volendo separarsi l’un dall’altro, et conoscendo che non si cercava altro che la sua ruina, si partirono dai luoghi dove habitavano et andorno tanto per un lungo deserto verso tramontana che per la lontananza li parse esser sicuri, et allhora denegorno di dare ad Umcan il solito tributo.

43

[0] Come Cingis Can fu il primo imperator de’ Tartari, et come el combatté con Umcan et lo ruppe et prese tutto il suo paese. Cap. 43.

[1] Avvenne che, circa l’anno del nostro Signore mclxii, essendo stati i Tartari per certo tempo in quelle parti, elessero in loro re uno che si chiamava Cingis Can, huomo integerrimo, di molta sapienza, eloquente et valoroso nell’armi, qual cominciò a reggere con tanta giustitia et modestia, che non come signore ma come dio era da tutti amato et reverito; di modo che, spargendosi per il mondo la fama del valor et virtú sua, tutti i Tartari che erano in diverse parti del mondo si ridussero all’obedienza sua. [2] Costui, vedendosi signore di tanti valorosi huomini, essendo di gran core, volse uscire di quelli deserti et luoghi salvatichi, et havendo ordinato che si preparassero con gl’archi et altre armi, perché con gli archi erano valenti et bene ammaestrati, havendosi con quelli essercitati mentre erano pastori, cominciò a soggiogar città et provincie. [3] Et tanta era la fama della giustitia et bontà sua, che dove l’andava cadauno veniva a rendersi, et beato era colui che poteva esser nella gratia sua, di modo che ’l acquistò circa nove provincie. [4] Et questo puoté ragionevolmente avvenire, perché allora in quelle parti le terre et provincie o si reggevano a commune, o vero cadauna haveva il suo re et signore, fra li quali non vi essendo unione, da se stessi non potean resistere a tanta moltitudine. [5] Et acquistate et prese che havea le provincie et città, metteva in quelle governatori di tal sorte giusti che li popoli non erano offesi né in la persona né in la robba, et tutti li principali menava seco in altre provincie, con gran provisione et doni. [6] Vedendo Cingis Can che la fortuna cosí prosperamente li succedeva, si propose di tentar maggior cose. [7] Mandò adunque suoi ambassadori al Prete Gianni simulatamente, conciosiach’egli veramente sapeva che ’l detto non prestarebbe audienza alle lor parole, et gli fece dimandare la figliuola per moglie. [8] Il che udito dal Prete Gianni, tutto adirato disse: «Onde è tanta presonzione in Cingis Can, che sapendo che è mio servo mi dimandi mia figliuola? [9] Partitevi dal mio cospetto immediate, et diteli che se mai piú mi farà simil dimande il farò morire miseramente». [10] La qual cosa havendo udito Cingis, si turbò fuor di modo e, congregato un grandissimo essercito, andò con quello a mettersi nel paese del Prete Gianni, in una gran pianura che si chiama Tenduch, et mandò a dire al re che si difendesse: qual simil|14r|mente con grande essercito se ne venne nella detta pianura, et erano lontani un dall’altro circa dieci miglia. [11] Et quivi Cingis comandò alli suoi astrologhi et incantatori che dovessero dire qual essercito dovea haver vittoria: costoro, presa una canna verde, la divisero in duoi parti per longo, le qual posero in terra lontane una dall’altra, et scrissero sopra una il nome di Cingis et sopra l’altra de Umcan, et dissero al re che, come loro leggeranno le sue scongiure, per potenza degl’idoli queste canne veniranno una contra l’altra, et quel re haverà la vittoria la cui canna montarà sopra l’altra. [12] Et essendo concorso tutto l’essercito a vedere questa cosa, domente che gli astrologhi leggevan i libri d’i suoi incanti, questi duoi pezzi di canne si mossero, et pareva che uno si levasse contra l’altro: alla fine, dapoi alquanto di spatio, quella di Cingis montò sopra di quella di Umcan. [13] Il che veduto dai Tartari et da Cingis, con grande allegrezza andorono ad affrontar l’essercito di Umcan, et quello ruppero et fracassorono, et fu morto Umcan et tolto il regno, et Cingis prese per moglie la figliuola di quello. [14] Doppo questa battaglia, Cingis andò anni sei continuamente acquistando regni et cittade; alla fine, essendo sotto un castello detto Thaigin, fu ferito con una saetta in un ginocchio et morse, et fu sepolto nel monte Altay.

44

[0] Della successione de sei imperatori de’ Tartari, et solennità che gli fanno quando li sepeliscono nel monte Altay. Cap. 44.

[1] Doppo Cingis Can fu secondo signore Cyn Can; il terzo Bathyn Can; il quarto Esu Can; il quinto Mongú Can; il sesto Cublai Can, il quale fu piú grande et piú potente di tutti gli altri, perché egli ereditò quel c’hebbero gli altri, et dipoi acquistò quasi il resto del mondo, perché lui visse circa anni sessanta nel suo reggimento. [2] Et questo nome Can in lingua nostra vuol dire “imperatore”. [3] Et dovete sapere che tutti i Gran Can et signori che descendono dalla progenie di Cingis Can si portano a sepelire ad un gran monte nominato Altay, et in qualunque luogo muoiano, se ben fossero cento giornate lontani da quel monte, bisogna che vi sian portati. [4] Et quando si portano i corpi di questi Gran Cani, tutti quelli che scontrano pel cammino quei che conducono il corpo gli ammazzano, et li dicono: «Andate all’altro mondo a servire al vostro signore», perché credono che tutti quelli che uccidono debbano servire al suo signore nell’altro mondo; il simile fassi de’ cavalli, et uccidono tutti i migliori, acciò che haver li possa nell’altro mondo. [5] Quando il corpo di Mongú fu portato a quel monte, li cavallieri che ’l portavano, havendo questa scelerata et ostinata persuasione, uccisero piú di diecimila huomini che incontrorono.

45

[0] Della vita de’ Tartari, et come non stanno mai fermi, ma vanno sempre camminando; et delle lor case sopra carrette, costumi et vivere; et dell’honestà delle lor mogli, delle quali ne cavano grandissima utilità. Cap. 45.

[1] I Tartari non stanno mai fermi, ma conversano al tempo del verno ne’ luoghi piani et caldi, dove trovino herbe a bastanza et pascoli per le loro bestie, et l’estate ne’ luoghi freddi, cioè ne’ monti, dove siano acque et buoni pascoli: et ancho per questa causa, perché dove è il luogo freddo non si trovano mosche né taffani et simili animali, che molestano loro et le bestie. [2] Et vanno per duoi o tre mesi ascendendo di continuo et pascolando, perché non haverebbono herbe sufficienti, per la moltitudine delle lor bestie, pascendo sempre in un luogo. [3] Hanno le case coperte di bacchette et feltroni et rotonde, cosí ordinatamente et con tal artificio fatte che le verghe si raccolgono in un fasso, et si ponno piegar et acconciare a modo de una soma: quali case portano seco sopra carri di quattro rote ovunque vadano, et sempre quando le dirizzano pongono le porte verso mezzodí. [4] Hanno oltre ciò carrette bellissime di due rote solamente, coperte di feltro, et cosí bene che se piovessi tutto il giorno non si potria bagnar cosa che fosse in quelle, qual menano con buoi et camelli. [5] Sopra quelle conducono i loro figliuoli et mogli, et tutte le massarie et vettovaglie che li bisognano. [6] Le donne fanno mercantie, comprano et vendono et revendono de tutte quelle cose che sono necessarie ai loro mariti et famiglia, perché gl’huomini non s’intromettono in cosa alcuna, salvo che in cacciare, uccellare et nelle cose pertinenti alle armi. [7] Hanno falconi li miglior del mondo, et similmente cani. [8] Vivono solamente di carne et latte et di ciò che pigliano alla caccia, et mangiano alcuni animaletti ch’assomigliano a conigli, che appresso noi si chiamano sorzi di pharaone, de’ quali si trova gran copia per le pianure nella state et in ogni parte, et carne di ogni sorte, et cavalli et camelli et cani, pur che sian grassi; bevono latte di |14v| cavalle, qual acconciano di sorte che par vin bianco et saporito, et lo chiaman in la loro lingua “chemurs”. [9] Le donne loro sono le piú caste et honeste del mondo, et che piú amano et reveriscano i suoi mariti, et si guardano sopra ogn’altra cosa di commettere adulterio, qual vien riputato in grandissimo dishonore et vituperio. [10] Et è cosa maravigliosa la lealtà d’i mariti verso le mogli, le quali se sono dieci o venti, fra loro è una pace et unione inestimabile, né mai si sente che dican una mala parola; ma tutte sono (come è detto) intente et sollicite alle mercantie, cioè al vender et comprar, et cose pertinenti agli essercitii loro, al viver di casa et cura della fameglia et d’i figliuoli, che sono fra loro communi. [11] Et tanto piú son degne de admiration di questa virtú della pudicitia et honestà, quanto che agli huomini è concesso di pigliare quante mogli vogliono, le qual sono alli mariti di poca spesa, anzi di gran guadagno et utile, per li traffichi et essercitii che di continuo fanno. [12] Et per questo, quando le pigliano, li danno loro le doti alle madri per haver quelle, et la prima ha questo privilegio, de essere tenuta la piú cara et la piú legitima, et similmente i figliuoli che di quella nascono; et perché possono pigliare quante mogli a lor piace, perciò hanno piú numero di figliuoli di tutte l’altre genti. [13] Se ’l padre muore, il figliuolo può pigliar per mogli tutte quelle che son stà lassate dal padre, eccettuando la madre et le sorelle, et pigliano ancho le cognate, se sono morti i fratelli, et celebrano ogni fiata le nozze con gran solennità.

46

[0] Del Dio d’i Tartari celeste et sublime, et d’un altro detto Natigay, et come l’adorano; et della sorte delli loro vestimenti et armi, et della ferocità loro nel combattere; et come sono patientissimi in ogni disagio et bisogno, et obedientissimi al loro signore. Cap. 46.

[1] La legge et fede de’ Tartari è tale: dicono esservi il Dio alto, sublime et celeste, al qual ogni giorno col torribolo et incenso non dimandano altro se non buon intelletto et sanità; ne hanno poi un altro che chiamano Natigay, ch’è a modo di una statua coperta di feltre o vero di altro, et ciascheduno ne tiene uno in casa sua. [2] Fanno a questo dio la moglie et figliuoli, et pongongli la moglie dalla parte sinistra et li figliuoli avanti di lui, quali pare che li facciano riverenza. [3] Questo dio lo chiamano dio delle cose terrene, il quale custodisce et guarda i loro figliuoli et conserva le bestie et le biade, al quale fanno grande riverenza et honore; et sempre quando mangiano toglieno della parte delle carni grasse, et con quelle ungono la bocca del dio, della moglie et de’ figliuoli; dapoi gettano del brodo delle carni fuor della porta agli altri spiriti. [4] Fatto questo, dicono che ’l loro dio con la sua famiglia ha havuto la parte sua, et poscia mangiano et bevono a lor piacere. [5] I ricchi si vestono di drappi d’oro et di seda et di pelle di zibellini, armellini et vari, et tutti i loro fornimenti sono di gran prezzo et valore. [6] L’arme sue sono archi, spade et mazze ferrate, et alcune lancette, ma con gli archi meglio si essercitano che con l’altre arme, perché sono ottimi arcieri et essercitati da piccolini; et indosso portan arme de cuori de buffali et altri animali, molto grossi, cotti, et per questo sono molto duri et forti. [7] Sono huomini fortissimi in battaglia et quasi furibondi et che poco stimano la lor vita, la qual mettono ad ogni pericolo senza alcun rispetto. [8] Sono crudelissimi et sofferenti di ogni disagio, et bisognando viveranno un mese solamente con latte di cavalle et de animali che pigliano. [9] Li lor cavalli si pascono di herbe, né hanno bisogno di orzo né di altra biada; et stanno armati a cavallo duoi giorni et duoi notte che mai smontano, et similmente vi dormono, et i loro cavalli intanto vanno pascendo. [10] Non è gente al mondo che piú di loro duri affanno et piú pacienti in ogni necessità, obedientissimi alli lor signori et di poca spesa: et per queste parti cosí eccellenti nell’essercitio delle armi, sono atti a soggiogare il mondo, come hanno fatto di una gran parte.

47

[0] Dell’essercito de’ Tartari, in quante parti è diviso; et del modo con il qual cavalcano, et di ciò che portano per loro vivere, et del latte secco; et modo del loro combattere. Cap. 47.

[1] Quando alcun signor de’ Tartari va ad alcuna espeditione, mena seco l’essercito di centomila cavalli, et ordina le sue genti in questa maniera: egli statuisce un capo a cadauna decena et a cadaun centenaio et a cadauno migliaio et a ogni diecimila, et cosí ogni dieci capi di decena rispondono alli capi di centenaia, et ogni dieci capi di centenaia rispondono alli capi di migliaia, et ogni dieci capi di migliaia rispondono alli capi di dieci migliaia, et in questo modo cadauno huomo o vero capo, senza altro consiglio o vero fastidio, non ha da cer|15r|care altri se non dieci. [2] Per il che, quando il signore di questi centomila vuol mandarne alcuna parte a qualche espeditione, comanda al capo di diecimila che li dia mille huomini, et il capo di diecimila comanda al capo di mille, et il capo di mille al capo di cento, et il capo di cento al capo di dieci, et allhora tutti i capi delle decene sanno le parti che li toccano, et subito danno quelle a’ suoi capi: cento capi ai cento di mille, et mille capi ai capi di diecemila, et cosí subito si discernono; et tutti sono obedientissimi a’ suoi capi. [3] Item cadauno centenaio si chiama un “tuc”, dieci un “toman”, per migliaio, centenaio et decena. [4] Et quando si muove l’essercito per andar a far qualche impresa, essi mandano avanti gli altri huomini per la loro custodia per duoi giornate, et mettono genti da dietro et da’ lati, cioè da quattro parti, a questo effetto, acciò che qualche essercito non possi assaltargli all’improviso.

[5] Et quando vanno con l’essercito lontani, non portano seco cosa alcuna, di quelle massimamente che sono necessarie pel dormire. [6] Vivono il piú delle volte di latte (come s’è detto), et fra cavalli et cavalle sono per cadauno huomo circa dieciotto: et quando alcun cavallo è stracco pel cammino si cambia un altro; nondimeno portano seco vasi per cuocer la carne. [7] Portano ancho seco le sue picciol casette di feltro alla guerra, dentro alle quali stanno al tempo della pioggia. [8] Et alle volte, quando ricerca il bisogno et pressa di qualche impresa che si facci presta, cavalcano ben dieci giornate senza vettovaglie cotte, et vivono del sangue de’ suoi cavalli, però che cadauno punge la vena del suo et beve il sangue. [9] Hanno anchora latte secco a modo di pasta, et seccasi in questo modo: fanno bollire il latte, et allhora la grassezza che nuota di sopra si mette in un altro vaso, et di quella si fa il butiro, perché fin che stesse nel latte non si potria seccare; si mette poi il latte al sole, et cosí si secca. [10] Et quando vanno in essercito portano di questo latte circa dieci libre, et la mattina ciascheduno ne piglia mezza libra et la mette in un fiasco picciolo di cuoio, fatto a modo di un utre, con tanta acqua quanto li piace; et mentre cavalca, il latte nel fiasco si va sbattendo et fassi come sugo, il qual bevono: et questo è il suo desinare. [11] Oltre di ciò, quando i Tartari combattono coi nimici, mai si meschiano totalmente con loro, anzi continuamente cavalcano a torno qua et là saettando, et alle volte fingono di fuggire, et fuggendo saettano da dietro gli nimici che seguitano, sempre uccidendo cavalli et huomini come se combattessero a faccia a faccia: et a questo modo i nimici, credendo haver havuto vittoria, si trovano haver perso, et allhora i Tartari, vedendo havergli fatto danno, ritornano di nuovo contra di loro, et quelli virilmente combattendo conquistano et prendono. [12] Et hanno li lor cavalli cosí ammaestrati a voltarsi che ad un signo si voltano in ogni parte che vogliono, et in questo modo hanno vinto molte battaglie. [13] Tutto quello che vi habbiam narrato è nella vita et costumi de’ rettori de’ Tartari. [14] Ma al presente sono molto bastardati, perché quelli che conversano in Ouchacha osservano la vita et costumi di quelli che adorano gl’idoli et hanno lasciata la sua legge; quelli che conversano in oriente osservano i costumi d’i Saraceni.

48

[0] Della giustitia che osservano, et della vanità de’ matrimonii che fanno de’ figliuoli morti. Cap. 48.

[1] Mantengono la giustitia come vi narraremo al presente. [2] Quando alcuno ha rubbato alcuna picciola cosa, per la qual non meriti la morte, lo battono sette volte con un bastone, o vero diecisette volte, o ventisette o trentasette o quarantasette, fino a cento sempre crescendo, secondo la quantità del furto et qualità del delitto: et molti muoiono per queste battiture. [3] Se uno rubba un cavallo o altre cose per le quali debba morire, con una spada si taglia per mezzo; ma se quel che ha rubbato può pagare, et dare nove volte piú di quello che ha rubbato, scapola. [4] Item qualunque signore o altro huomo che ha molti animali li fa bollare del suo segno, cioè cavalli et cavalle, camelli et buoi, vacche et altre bestie grosse, poi le lascia andare a pascere per le pianure et monti in qualunque luogo senza custodia di huomo; et se una bestia si mischia con qualche altra, ciascuno ritorna la sua a colui del quale si trova il segno. [5] I castrati et becchi li fanno custodire dagli huomini, et le loro bestie sono tutte grasse et grandi et belle oltra modo. [6] Quando anchora sono duoi huomini, de’ quali uno habbia havuto un figliuol mascolo, et quello sia mancato di tre anni o altramente, et l’altro habbia havuto una figliuola, et ella parimente sia mancata, fanno insieme le nozze, perché danno la fanciulla morta al fanciullo morto: et allhora fanno dipingere in carte huomini in luogo di servi, et cavalli et altri animali, et drappi di ogni maniera, danari et cadauna sorte |15v| di massaritie, et fanno far gli instrumenti a corroboratione della dote et matrimonio predetti; le qual tutte cose fanno abbrucciare, et del fumo che indi viene dicono che tutte queste cose son portate ai loro figliuoli nell’altro mondo, dove si pigliano per marito et moglie; et li padri et madri d’i morti si hanno per parenti, come se veramente le nozze fossero state celebrate et che vivessero. [7] Hora habbiamo dichiarato li costumi et consuetudini de’ Tartari; non però che habbiamo detto i grandissimi fatti et imprese del Gran Can, signor de tutti i Tartari. [8] Ma vogliamo ritornare al nostro proposito, cioè alla gran pianura nella quale eravamo quando cominciamo de’ fatti de’ Tartari.

49

[0] Come, partendosi da Carachoran, si trova la pianura de Bargu, et d’i costumi degli habitanti in quella; et come doppo quaranta giornate si trova il mare Oceano; et delli falconi et girifalchi che vi nascono; et come la tramontana a chi la guarda appar verso mezzodí. Cap. 49.

[1] Partendosi da Carachoran et dal monte Altay, dove si sepeliscono i corpi degl’imperatori de’ Tartari, come habbiam detto di sopra, si va per una contrata verso tramontana, che si chiama la pianura di Bargu et dura ben circa sessanta giornate; le cui genti si chiamano Mecriti, et sono genti salvatiche, perché vivono di carne di bestie, la maggior delle quali sono a modo de cervi, li qual ancho cavalcano. [2] Vivono similmente di uccelli, perché vi sono molti laghi, stagni et paludi, et detta pianura confina verso tramontana col mare Oceano, et quelli uccelli che si spogliano delle piume vecchie conversano il piú della state circa quelle acque, et quando sono del tutto ignudi, che non possono volare, quelli prendono a suo buon piacere; et vivono anchora de pesci. [3] Queste genti osservano le consuetudini et costumi de’ Tartari, et sono sudditi al Gran Can. [4] Non hanno né biade né vino, et nella state hanno cacciagioni et prendono gran quantità di uccelli; ma il verno, pel grandissimo freddo, non vi possono stare bestie né uccelli. [5] Et quando s’è cavalcato (come è detto) quaranta giornate, si trova il mare Oceano, presso al quale è un monte nel quale fanno nido astori et falconi pellegrini, et nella pianura. [6] Ivi non sono huomini, né vi habitano bestie né uccelli, salvo che una maniera de uccelli che si chiamano “bargelach”, et i falconi si pascono di quelli: sono della grandezza delle pernici, et nella coda sono simili alle rondini, et ne’ piedi alli papagalli; volano velocemente. [7] Et quando il Gran Can vuol havere un nido de falconi pellegrini, manda fino a detto luogo per quelli; et nell’isola, che è circondata dal mare, nascono molti girifalchi. [8] Et è quel luogo tanto verso la tramontana che la stella di tramontana pare alquanto rimaner dipoi verso mezzodí. [9] Et i girifalchi che nascono nell’isola predetta sono in tanta copia che ’l Gran Can ne puol havere quanti ne vuole a suo piacere. [10] Né crediate che i girifalchi che delle terre de’ christiani si portano a’ Tartari siano portati al Gran Can, ma portansi in levante solamente, cioè a qualche signore tartaro et altri nobili di levante che sono alle confini de’ Cumani et Armeni. [11] Hora, havendo detto delle provincie che sono verso la tramontana fino al mare Oceano, diremo delle provincie verso il Gran Can, et ritorniamo alla provincia detta Campion, la qual di sopra è descritta.

50

[0] Come, partendosi da Campion, si vien al regno de Erginul; et della città di Singui; et delli buoi, che hanno un pelo sottilissimo; et della forma dell’animal che fa il muscho, et come lo prendono; et de’ costumi degl’habitanti, et bellezza delle lor donne. Cap. 50.

[1] Partendosi dalla provincia di Campion si va per cinque giornate, nelle quali si odono piú volte la notte parlar molti spiriti, con gran paura de’ viandanti; et in capo di quelle, verso levante, si trova un regno nominato Erginul, qual è sottoposto al Gran Can, et contiensi sotto la provincia di Tanguth. [2] In detto regno sono molti altri regni, le cui genti adorano gli idoli; vi sono alcuni christiani nestorini et Turchi, et molte città et castella, de’ quali la maestra città è Erginul. [3] Dalla qual partendosi poi verso sirocco si può andare alle parti del Cataio, et andando per sirocco verso ’l Cataio si trova una città nominata Singui, et anchor la provincia si chiama Singui, nelle quale sono molte città et castella: et contengonsi in detta provincia di Tanguth et sotto il dominio del Gran Can. [4] Le genti di questa provincia adorano gli idoli; alcuni osservano la legge di Macometto, et alcuni sono christiani. [5] Ivi si trovano molti buoi salvatichi, i quali sono della grandezza quasi degl’elephanti et bellissimi da vedere, però che sono bianchi et neri. [6] I loro peli sono in cadauna parte del corpo |16r| bassi, eccetto che sopra le spalle, che sono lunghi tre palmi; qual pelo o vero lana è sottilissima et biancha, et piú sottile et biancha che non è la seta: et messer Marco ne portò a Venetia come cosa mirabile, et cosí da tutti che la viddero fu reputata per tale. [7] Di questi buoi molti si sono dimesticati, che furon presi salvatichi. [8] Et fanno coprire le vacche domestiche, et i buoi che nascono di quelle sono maravigliosi animali, et atti a fatiche piú che niun altro animale: et gli huomini gli fanno portare gran carichi, et lavorano con quelli la terra il doppio piú di quello che lavorano gli altri, et sono molto forti et gagliardi. [9] In questa contrata si trova il piú nobile et fino muschio che sia nel mondo, et è una bestia picciola come una gazella, cioè della grandezza di una capra, ma la sua forma è tale: ha i peli a similitudine di cervo, molto grossi, li piedi et la coda a modo di una gazella; non ha corne come la gazella. [10] Ha quattro denti, cioè duoi dalla parte di sopra et duoi dalla parte di sotto, lunghi ben tre dita et sottili, bianchi come avolio, et duoi ascendono in su et duoi descendono in giú, et è bello animale da vedere. [11] Nasce a questa bestia, quando la luna è piena, nel’umbilico sotto il ventre una apostema di sangue, et i cacciatori nel tondo della luna escono fuori a prender di detti animali, et tagliano questa apostema come la pelle et la seccano al sole: et questo è il piú fin muschio che si sappi. [12] Et la carne del detto animal è molto buona da mangiare, et pigliasene in gran quantità, et messer Marco ne portò a Venetia la testa et i piedi di detto animale secchi. [13] Gli huomini veramente vivono di mercantie et di arti; hanno abondanza di biade. [14] Il transito della provincia è di venticinque giornate, nella quale si trovano fagiani il doppio maggiori de’ nostri, ma sono alquanto minori de’ pavoni, et hanno le penne della coda lunghe otto o dieci palmi. [15] Ne sono ancho della grandezza et statura come sono li nostri, et vi sono anchor altri uccelli di molte altre maniere, che hanno bellissime penne di diversi colori. [16] Quelle genti adorano gli idoli, et sono grassi et hanno il naso picciolo; i loro capelli sono neri, et non hanno barba, salvo che quattro peli nel mento. [17] Le donne honorate non hanno similmente pelo alcuno eccetto i capelli, et sono bianche, di belle carne et ben formate in tutti i membri, ma molto lussuriose. [18] Gli huomini molto si dilettano di star con quelle, perché, secondo le lor consuetudini et leggi, possono haver quante mogli vogliono, purché possino sustentarle. [19] Et se alcuna donna povera è bella, li ricchi per la sua bellezza la pigliano per moglie, et danno alla madre et parenti molti doni per haverle, perché non apprezzano altro che la bellezza. [20] Hora si partiremo de qui, et diremo di una provincia verso levante.

51

[0] Della provincia di Egrigaia et della città di Calacia, et de’ costumi degli habitanti, et zambellotti che vi si lavorano. Cap. 51.

[1] Partendosi da Erginul, andando verso levante per otto giornate, si trova una provincia nominata Egrigaia, nella quale sono molte città et castella, pur nella gran provincia di Tanguth. [2] La maestra città si chiama Calacia, le cui genti adorano gli idoli; vi sono anchora tre chiese de’ christiani nestorini, et sono sotto il dominio del Gran Can. [3] In questa città si lavorano zambellotti di peli di camelli, li piú belli et migliori che si trovino al mondo, et similmente di lana biancha in grandissima quantità, i quali i mercatanti, partendosi de lí, portano per molte contrade, et specialmente al Cataio. [4] Hor lasciamo di questa provincia, et diremo di un’altra verso levante nominata Tenduc, et cosí entraremo nelle terre del Prete Gianni.

52

[0] Della provincia di Tenduc, dove regnano quelli della stirpe del Prete Gianni, et la maggior parte sono christiani; et come ordinano li loro preti; et de una sorte de huomini detti *Argon, che son piú belli et savi di quel paese. Cap. 52.

[1] Tenduc del Prete Gianni è una provincia verso levante, nella quale sono molte città et castella, et sono sottoposti al dominio del Gran Can, perché tutti i Preti Gianni che vi regnano sono sudditi al Gran Can, dapoi che Cingis, primo imperatore, la sottomesse. [2] La maestra città è chiamata Tenduc, et in questa provincia è re uno della progenie del Prete Gianni, nominato Georgio, et è prete et christiano, et la maggior parte degli habitanti sono christiani. [3] Et questo re Georgio mantien la terra per il Gran Can, non però tutta quella c’havea il Prete Gianni, ma certa parte; et li Gran Cani danno sempre in matrimonio delle sue figliuole et altre che discendono dalla sua stirpe ai re che siano discesi dalla progenie delli Preti Gianni. [4] In questa provincia si trovano pietre delle quali si fa l’azzurro; et ve ne sono molte et buone. [5] Quivi si fanno i zambellotti molto buoni de peli de camelli. [6] Gli huomini |16v| vivono di frutti della terra et di mercantie et arti. [7] Et il dominio è de’ christiani, perché ’l re è christiano (come s’è detto), quantunque sia soggetto al Gran Can; ma vi sono molti che adorano gl’idoli, et osservano la legge macomettana. [8] Vi è ancho una sorte di genti che si chiamano Argon, perché sono nati di due generazioni, cioè da quelli di Tenduc, che adorano gli idoli, et da quelli che osservano la legge di Macometto: et questi sono i piú belli huomini che si trovino in quel paese, et piú savi et piú accorti nella mercantia.

53

[0] Del luogo dove regnano quelli del Prete Gianni, detto Og et Magog, et delli costumi degli habitanti et lavori de seda di quelli, et della minera d’argento. Cap. 53.

[1] Nella sopradetta provincia era la principal sedia del Prete Gianni di tramontana quando el dominava li Tartari, et a tutte l’altre provincie et regni circonstanti, et fino al presente ritiene nella sua sedia i successori. [2] Et questo Georgio sopradetto doppo il Prete Gianni è il quarto di quella progenie, et è tenuto il maggior signore. [3] Et vi sono due regioni dove questi regnano, che nelle nostre parti chiamano Og et Magog, ma quelli che ivi habitano lo chiamano Ung et Mongul, in ciascheduno de’ quali è una generazione di gente: in Ung sono Gog, et in Mongul sono Tartari. [4] Et cavalcandosi per questa provincia sette giornate, andando per levante verso ’l Cataio, si trovano molte città et castella, nelle quali le genti adorano gl’idoli, et alcune osservano la legge di Macometto, et altri sono christiani nestorini. [5] Vivono di mercantie et arti, perché si fanno panni d’oro nasiti”, “fin” et “nach”, et panni di seda di diverse sorti et colori come habbiam noi, et panni di lana di diverse maniere. [6] Quelle genti sono suddite al Gran Can, et vi è una città nominata Sindicin, nella quale si essercitano l’arti di tutte le cose et fornimenti che s’appartengono all’armi et ad un essercito. [7] Et ne’ monti di questa provincia è un luogo nominato Idifa, nel quale è una ottima minera d’argento, dalla qual se ne cava grandissima quantità; et oltre di ciò hanno molte cacciagioni.

54

[0] Della provincia di Cianganor, et della sorte di grue che si trovano, et della quantità di pernici et quaglie che ’l Gran Can fa allevare. Cap. 54.

[1] Partendosi dalla sopradetta provincia et città et andando per tre giornate, si trova la città nominata Cianganor, che vuol dire “stagno biancho”, nella qual è un palazzo del Gran Can, nel qual el vi suole habitare molto volentieri, perché vi sono intorno laghi et riviere dove abitano molti cigni, et in molte pianure grue, fagiani, pernici et uccelli di altra sorte in gran quantità. [2] Il Gran Can piglia grandissimo piacere andando ad uccellare con girifalchi et falconi et prendendo uccelli infiniti. [3] Vi sono cinque sorti di grue: la prima sono tutte nere come corvi, con le ali grandi; la seconda ha le ali maggiori delle altre, bianche et belle, et le penne delle ali son piene de occhi rotondi come quelli de’ pavoni, ma gl’occhi sono di color d’oro molto risplendenti, il capo rosso et nero molto ben fatto, il collo nero et bianco, et sono bellissime da vedere; la terza sorte sono grue della statura delle nostre de Italia; la quarta sono grue picciole, che hanno le penne rosse et azzurre divisate molto belle; la quinta sorte sono grue grise, col capo rosso et nero, et sono grandi. [4] Presso a questa città è una valle, nella quale è grandissima abondanza di pernici et quaglie, et pel nutrimento delle qual sempre il Gran Can fa seminar la state sopra quelle coste miglio et panizzo et altre semenze che tali uccelli appetiscono, comandando che niente si raccolga, acciò abondevolmente si possano nudrire; et vi stanno molti huomini per custodia di questi uccelli, acciò non siano presi, et etiandio li buttano il miglio al tempo del verno, et sono tanto assuefatti al pasto che li getta per terra che, subito che l’huomo sibila, ovunque si siano vengono a quello. [5] Et ha fatto fare il Gran Can molte casette dove stanno la notte, et quando el vien a questa contrada ha di questi uccelli abondantemente, et l’inverno, quando sono ben grasse (perché ivi pel gran freddo non sta a quel tempo), ovunque egli si sia, se ne fa portare carghi i camelli. [6] Ma si partiremo di qui, et andremo tre giornate verso tramontana et greco.

55

[0] Del bellissimo palazzo del Gran Can in la città di Xandú; et della mandra di cavalli et cavalle bianche, del latte d’i quali fanno ogn’anno sacrificio; et delle cose maravigliose che li loro astrologhi fanno far quando vien mal tempo, et ancho della sala del Gran Can, et delli sacrificii che li detti fanno; et di due sorti di religiosi, cioè poveri, et d’i costumi et vita loro. Cap. 55.

[1] Quando si parte da questa città di sopra nominata, andando tre giornate per greco si trova una città nominata Xandú, la qual edificò il Gran Can che al presente regna, detto |17r| Cublai Can; et quivi fece fare un palazzo di maravigliosa bellezza et artificio, fabricato di pietre di marmo et d’altre belle pietre, qual con un capo confina in mezzo della città et con l’altro col muro di quella. [2] Dalla qual parte, a riscontro del palazzo, un altro muro ferma un capo da una parte del palazzo nel muro della città, et l’altro dall’altra parte circuisse, et include ben sedeci miglia di pianura, talmente che entrare in quel circuito non si può se non partendosi dal palazzo. [3] In questo circuito et serraglia sono prati bellissimi et fonti et molti fiumi, et ivi sono animali di ogni sorte, come cervi, daini, caprioli, quali vi fece portar il Gran Can per pascer i suoi falconi et girifalchi, ch’egli tiene in muda in questo luogo, i quali girifalchi sono piú di dugento: et esso medesimo va sempre a vederli in muda, al manco una volta la settimana. [4] Et molte volte, cavalcando per questi prati circondati di mura, fa portar un leopardo, o vero piú, sopra le groppe de’ cavalli, et quando vuole lo lascia andare, et subito prende un cervo o vero capriolo o daino, li quali fa dare a’ suoi falconi et girifalchi: et questo fa egli per suo sollazzo et piacere. [5] In mezzo di quei prati, ove è un bellissimo bosco, ha fatto fare una casa regal, sopra belle colonne dorate et invernicate, et a cadauna è un dragone tutto dorato che rivolge la coda alla colonna, et col capo sostiene il soffittado, et stende le branche, cioè una alla parte destra a sostentamento del soffittado et l’altra medesimamente alla sinistra. [6] Il coperchio similmente è di canne dorate, et vernicate cosí bene che niuna acqua li potria nocere, le quali sono grosse piú di tre palmi et lunghe da dieci brazza, et tagliate per cadauno groppo si parteno in duoi pezzi per mezzo et si riducono in forma de coppi: et con queste è coperta la detta casa, ma cadauno coppo di canna per difensione de’ venti è ficcato con chiodi. [7] Et detta casa a torno a torno è sostentata da piú di dugento corde di seda fortissime, perché dal vento (per la leggerezza delle canne) saria rivoltata a terra. [8] Questa casa è fatta con tanta industria et arte che tutta si può levar et metter zoso et poi di nuovo reedificarla a suo piacere; et fecela far il Gran Can per sua dilettatione, per esservi l’aere molto temperato et buono, et vi habita tre mesi dell’anno, cioè zugno, luglio et agosto, et ogn’anno, alli ventiotto della luna del detto mese di agosto, si suol partire et andare ad altro luogo, per far certi sacrificii in questo modo. [9] Ha una mandra di cavalli bianchi et cavalle come neve, et possono essere da diecimila, del latte delle quali niuno ha ardimento bere s’egli non è descendente della progenie di Cingis Can. [10] Nondimeno Cingis Can concesse l’honore di bere di questo latte ad un’altra progenie, la quale al tempo suo una fiata si portò molto valorosamente seco in battaglia, et è nominata Boriat. [11] Et quando queste bestie vanno pascolando per li prati et per le foreste se gli porta gran riverenza, né ardiria alcun andargli davanti o vero impedirli la strada. [12] Et havendo gli astrologhi suoi, che sanno l’arte magica et diabolica, detto al Gran Can che ogn’anno, al vigesimo ottavo dí della luna di agosto, debbia far spandere del latte di queste cavalle per l’aria et per terra per dar da bere a tutti i spiriti et idoli che adorano, acciò che conservino gl’huomini et le femmine, le bestie, gli uccelli, le biade et l’altre cose che nascono sopra la terra, per questa causa il Gran Can in tal giorno si parte dal sopradetto luogo et va a far di sua mano quel sacrificio del latte. [13] Fanno anchora questi astrologhi, o vogliam dire negromanti, una cosa maravigliosa a questo modo: che come appar che ’l tempo sia turbato et vogli piovere, vanno sopra il tetto del palazzo ove habita il Gran Can, et per virtú dell’arte sua il difendono dalla pioggia et da tempesta, talmente che a torno a torno descendono pioggie, tempeste et baleni, et il palazzo non vien tocco da cosa alcuna. [14] Et costoro che fanno tal cose si chiamano “tebeth” et “chesmir”, che sono due sorti d’idolatri quali sono i piú dotti nell’arte magica et diabolica di tutte l’altre genti, et danno ad intendere al vulgo che queste operation siano fatte per la santità et bontà loro, et per questo vanno sporchi et immondi, non curandosi dell’honor suo né delle persone che li veggono; sostengono il fango nella lor faccia, né mai si lavano né si pettinano, ma sempre vanno lordamente. [15] Hanno costoro un bestial et horribil costume, che quando alcuno per il dominio è giudicato a morte, lo tolgono et cuoceno et mangianlo; ma se muore di propria morte non lo mangiano. [16] Oltra il nome sopradetto si chiamano ancho “bachsi”, cioè di tal religione o vero ordine come si direbbono frati predicatori o vero minori, et sono tanto ammaestrati et esperti in quest’arte magica o diabolica che fanno quasi ciò che vogliono, et fra le altre se ne dirà una fuor di ogni credenza. [17] Quando il Gran Can nella sua sala senta a tavola, la quale, come si dirà nel |17v| libro di sotto, è di altezza piú di otto braccia, et in mezzo della sala, lontano da detta tavola, è apparecchiata una credentiera grande, sopra la quale si tengono i vasi da bere, essi operano con l’arte sue che le caraffe piene di vino o vero latte o altre diverse bevande da se stesse empiono le tazze loro senza che alcuno con le mani le tocchino, et vanno ben per dieci passa per aere in mano del Gran Can; et poi c’ha bevuto, le dette tazze ritornano al luogo d’onde erano partite: et questo fanno in presenza di coloro i quali vuole il signore che veggano. [18] Questi bachsi similmente, quando sono per venire le feste delli suoi idoli, vanno al Gran Can et li dicono: «Signore, sappiate che, se li nostri idoli non sono honorati con gl’holocausti, faranno venire mal tempo et pestilenze alle nostre biade, bestie et altre cose: per il che vi supplicamo che vi piaccia di darne tanti castrati con li capi neri et tante libre de incenso et legno di aloè, che possiamo fare il debito sacrificio et honore». [19] Ma queste parole non dicono personalmente al Gran Can, ma a certi principi che sono deputati parlar al signore per gl’altri, et essi dipoi lo dicono al Gran Can, qual li dona integramente ciò che dimandano. [20] Et venuto il giorno della festa, li fanno i sacrificii di detti castrati, et spargano il brodo avanti gli idoli, et a questo modo gli honorano. [21] Hanno questi popoli grandi monasterii et abbatie, et cosí grandi che pareno una picciola città, in alcuna delle quali vi potriano essere quasi duoimila monachi, i quali secondo i costumi loro servono agl’idoli, et si vestono piú honestamente degli altri huomini, et portano il capo raso et la barba, et fanno festa agl’idoli con piú solenni canti et lumi che sia possibile; et di questi alcuni possono pigliar moglie. [22] Vi è poi un altro ordine di religiosi, nominati “sensim”, quali sono huomini di grande astinenza, et fanno la loro vita molto aspra, però che tutto il tempo della vita sua non mangiano altro che semole, le quali mettono in acqua calda et lasciano stare alquanto, fin che si levi via tutto il bianco della farina: et allhora le mangiano cosí lavate, senza alcuna sustanza di sapore. [23] Questi adorano il fuogo et dicono gli huomini dell’altre regole che questi che vivono in tanta astinenza sono heretici della sua legge, perché non adorano gli idoli come loro; ma è gran differenza tra loro, cioè tra l’una regola et l’altra, et questi tali non tolgono moglie per qualsivoglia causa del mondo. [24] Portano il capo raso et la barba, et le lor vesti sono di canapo, nere et biave, et se fossero ancho di seda, le portarebbero di tal colore. [25] Dormono sopra stuore grosse, et fanno la piú aspra vita de tutti gli huomini del mondo. [26] Hor lasciamo di questi, et diremo d’i grandi et maravigliosi fatti del gran signor et imperator Cublai Can.

Libro Secondo.

1

[0] Delli maravigliosi fatti di Cublai Can, che al presente regna, et della battaglia ch’egli hebbe con Naiam suo barba, et come vinse. Cap. 1.

[1] Hora nel libro presente vogliamo cominciar a trattar de tutti i grandi et mirabili fatti del Gran Can che al presente regna, detto Cublai Can, che vuol dir in nostra lingua “signor de’ signori”. [2] Et ben è vero il suo nome, perché egli è piú potente di genti, di terre et di thesoro di qualunche signor che sia mai stato al mondo né che vi sia al presente, et sotto il qual tutti i popoli sono stati con tanta obedienza quanto che habbino mai fatto sotto alcun altro re passato; la qual cosa si dimostrerà chiaramente nel processo del parlar nostro, di modo che ciascuno potrà comprendere che questa è la verità. [3] Dovete adunque sapere che Cublai Can è della retta et imperial progenie di Cingis Can primo imperator, et di quella dee esser il vero signor d’i Tartari. [4] Questo Cublai Can è il sesto Gran Can, che cominciò a regnar nel 1256 essendo d’anni 27, et acquistò la signoria per la sua gran prodezza, bontà et prudentia, contra la volontà d’i fratelli et di molti altri suoi baroni et parenti che non volevano: ma a lui la succession del regno apparteneva giustamente. [5] Avanti che ’l fosse signor andava volentier nell’essercito et voleva trovarsi in ogni impresa, perciò che, oltre che egli era valente et ardito con l’armi in mano, veniva riputato di consi|glio |20r|et astutie militari il piú savio et aventurato capitano che mai havessero i Tartari; et dapoi ch’ei fu signore non vi andò se non una sol fiata, ma nelle imprese vi mandava suoi figliuoli et capitani. [6] Et la causa perché vi andasse fu questa. [7] Nel 1286 si trovava uno nominato Naiam, giovene d’anni 30, qual era barba di Cublai et signor di molte terre et provincie, di modo che poteva facilmente metter insieme da 400 mila cavalli, et i suoi precessori erano soggetti al dominio del Gran Can. [8] Costui, commosso da leggierezza giovenil, veggendosi signor di tante genti, si pose in animo di non voler esser sottoposto al Gran Can, anzi di volergli torre il regno, et mandò suoi nontii secreti a Caidu, quale era grande et potente signor nelle parti verso la Gran Turchia, et nipote del Gran Can, ma suo ribello, et portavagli grand’odio, percioché ogn’hora dubitava che ’l Gran Can non lo castigasse. [9] Caidu, oditi i messi di Naiam, fu molto contento et allegro et promissegli di venir in suo aiuto con 100 mila cavalli, et cosí ambedue cominciorono a congregar le lor genti, ma non poterono far sí secretamente che non ne venisse la fama all’orecchie di Cublai; qual, intesa questa preparatione, subito fece metter guardie a tutti i passi che andavan verso i paesi di Naiam et Caidu, acciò che non sapessero quel che lui volesse fare, et poi immediate ordinò che le genti che erano d’intorno alla città di Cambalú per il spatio di dieci giornate si mettessero insieme con grandissima celerità. [10] Et furono da 360 mila cavalli et 100 mila pedoni, che son li deputati alla persona sua, et la maggior parte falconieri et huomini della sua famiglia, et in 20 giorni furono insieme; perché, se egli havesse fatto venir gli esserciti che ’l tien di continuo per la custodia delle provincie del Cataio, sarebbe stato necessario il tempo di 30 o 40 giornate, et lo apparecchio s’havria inteso, et Caidu et Naiam si sarian congionti insieme et ridotti in luoghi forti et a loro proposito; ma lui volse con la celerità (la qual è compagna della vittoria) prevenir alle preparationi di Naiam et trovarlo solo, che meglio lo poteva vincer che accompagnato. [11] Et perché nel presente luogo è a proposito di parlar d’alcuna cosa delli esserciti del Gran Can, è da sapere che in tutte le provincie del Cataio, di Mangi et in tutto il resto del dominio suo vi si trovano assai genti infideli et disleali, che se potessero si ribelleriano al lor signore: et però è necessario, in ogni provincia ove sono città grandi et molti popoli, tenervi esserciti che stanno alla campagna 4 o 5 miglia lontani dalla città, quali non possono havere porte né muri, di sorte che non se gli possa entrar dentro a ogni suo piacere. [12] Et questi esserciti il Gran Can gli fa mutar ogni due anni, et il simil fa delli capitani che governano quelli, et con questo fren li popoli stanno quieti et non si possono mover né far novità alcuna. [13] Questi esserciti, oltra il danaro che li dà di continuo il Gran Can delle intrade delle provincie, vivono d’un infinito numero di bestie che hanno, et del latte qual mandono alla città a vender, et si comprano delle cose che gli bisognano, et sono sparsi per 30, 40 et 60 giornate in diversi luoghi; la mità d’i quali esserciti se havesse voluto congregar Cublai, sarebbe stato un numero maraviglioso et da non creder. [14] Fatto il sopradetto essercito, Cublai Can s’aviò con quello verso il paese di Naiam, cavalcando dí et notte, et in termino di 25 giornate vi aggionse; et fu sí cautamente fatto questo viaggio che Naiam né alcun d’i suoi lo presentite, perché erano state occupate tutte le strade, che nessuno poteva passare che non fosse preso. [15] Giunto appresso un colle oltre il qual si vedea la pianura dove Naiam era accampato, Cublai fece riposare le sue genti per due giorni e, chiamati li astrologi, volse che con le loro arti in presentia di tutto l’essercito vedessero chi dovea haver la vittoria, li quali dissero dover esser di Cublai: questo effetto di divinatione sogliono sempre far li Gran Cani per far inanimar li suoi esserciti. [16] Con questa adunque ferma speranza, una mattina a bon’hora l’essercito di Cublai, asceso il colle, si dimostrò a quello di Naiam, qual stava molto negligentemente, non tenendo in alcuna parte spie né persona alcuna per guardia, et era in un padiglione dormendo con una sua moglie; pur risvegliato si misse ad ordinar meglio che poté il suo essercito, dolendosi di non haversi congionto con Caidu. [17] Cublai era sopra un castel grande di legno pieno di balestrieri et arcieri, et nella sommità v’era alzata la real bandiera con la imagine del sole et della luna; et questo castello era portato da quattro elefanti tutti coperti di cuori cotti fortissimi, et di sopra vi erano panni di seta et d’oro. [18] Cublai ordinò il suo essercito in questo modo: di 30 schiere di cavalli, che ognuna havea 10 mila tutti arcieri, ne fece tre parti, et quelle dalla man sinistra et destra fece prolongare molto a torno l’essercito di Naiam; avanti |20v| ogni schiera di cavalli erano 500 huomini a piede con lanze corte et spade, amaestrati che, ogni fiata che mostravano di voler fuggire, costoro saltavan in groppa et fuggivan con loro, et fermati smontavan et ammazzavan con le lanze i cavalli d’i inimici. [19] Preparati gli esserciti, si cominciò a udir il suon d’infiniti corni et altri varii instromenti, et poi molti canti, che cosí è la consuetudine de’ Tartari avanti che cominciano a combattere, et quando le nacchere et tamburi sonano vengono allhora alle mani. [20] Il Gran Can fece prima cominciar a sonar le nacchere dalle parti destra et sinistra, et sì cominciò una crudel et aspra battaglia, et l’aere fu immediate tutto pieno di saette che piovean da ogni canto, et vedevansi huomini et cavalli in terra cader morti in gran numero; et tanto era horribil il grido degl’huomini et strepito dell’armi et cavalli, che rapresentava un estremo spavento a chi l’udiva. [21] Tirate che hebbero le saette, vennero alle mani con le lanze et spade et con le mazze ferrate, et fu tanta la moltitudine degli huomini, et sopra tutto di cavalli, che restorono morti uno sopra l’altro, che una parte non poteva trapassare ove era l’altra, et la fortuna stette indeterminata per longissimo spatio di tempo dove l’havesse a dar la vittoria di questo conflitto, qual durò dalla mattina sino a mezzogiorno, perché la benivolenza delle genti di Naiam verso il lor signore, che era liberalissimo, ne fu causa, conciosiacosaché ostinatamente per amor suo volevano piú tosto morire che voltar le spalle. [22] Pur alla fine, vedendosi Naiam circondato dal’essercito nemico, si misse in fuga, ma subito fu preso et condotto alla presentia di Cublai, qual ordinò che egli fosse fatto morire cucito fra due tapeti, che fossino tanto alzati su et giú che ’l spirito gli uscisse del corpo: et la causa di tal sorte di morte fu accioché il sol et l’aria non vedesse sparger il sangue imperiale. [23] Le genti di Naiam che restorono vive vennero a dar obedienza et giurar fedeltà a Cublai, che furono di quatro nobil provincie, cioè Ciorza, Carli, Barscol et Sitingui. [24] Naiam, occultamente havendosi fatto battizar, non volle però mai far l’opere di christiano, ma in questa battaglia gli parve di voler portar il segno della croce sopra le sue bandiere, et havea nel suo essercito infiniti christiani, li quali tutti furono morti. [25] Et vedendo dapoi li Giudei et Saraceni che le bandiere della croce erano state vinte, si facevano beffe de’ christiani, dicendoli: «Vedete come le vostre bandiere et quelli che le hanno seguite sono stati trattati». [26] Et per questa derisione furono astretti i christiani di farlo intender al Gran Cane, qual, chiamati a sé li Giudei et li Saraceni, gli riprese aspramente dicendoli: «Se la croce di Christo non ha giovato a Naiam, ragionevolmente et giustamente ha fatto, perché lui era perfido et ribello al suo signor, et la croce non ha voluto aiutar simil huomini tristi et malvagi: et però guardative di mai piú haver ardimento di dire che il Dio de’ christiani sia iniusto, perché quello è somma bontà et somma giustitia».

2

[0] Come, dapoi ottenuta tal vittoria, il Gran Can ritornò in Cambalú; et del’honore che egli fa alle feste de’ christiani, Giudei, Macomettani et idolatri; et la ragion perché dice che non si fa christiano. Cap. 2.

[1] Dapoi ottenuta tal vittoria, il Gran Can ritornò con gran pompa et trionfo nella città principal, detta Cambalú, et fu del mese di novembre, et quivi stette fin al mese di febraro et marzo, quando è la nostra Pasqua; dove, sapendo che questa era una delle nostre feste principali, fece venir a sé tutti i christiani et volse che gli portassero il libro dove sono li quattro Evangelii, al quale fattogli dar l’incenso molte volte con gran cerimonie, divotamente lo basciò, et il medesimo volse che facessero tutti i suoi baroni et signori che erano presenti. [2] Et questo modo sempre serva nelle feste principal de’ christiani, come è la Pasqua et il Nadal; il simil fa nelle principal feste d’i Saraceni, Giudei et idolatri. [3] Et essendo elli dimandato della causa, disse: «Sono quattro propheti che sono adorati et ai quali fa riverenza tutto il mondo: li christiani dicono il loro Dio essere stato Iesú Christo, i Saraceni Macometto, i Giudei Moysè, gl’idolatri Sogomombar Can, qual fu il primo iddio degl’idoli; et io faccio honor et riverentia a tutti quattro, cioè a quello che è il maggior in cielo et piú vero, et quello prego che mi aiuti». [4] Ma, per quello che dimostrava il Gran Can, egli tien per la piú vera et miglior la fede christiana, perché dice che la non comanda cosa che non sia piena d’ogni bontà et santità. [5] Et per nessun modo vuol sopportare che li christiani portino la croce avanti di loro, et questo perché in quella fu flagellato et morto un tanto et sí grand’huomo come fu Christo. [6] Potrebbe dir alcuno: «Poi che egli tiene la fede di Christo per la miglior, perché non s’accosta a lei et fassi christiano?» [7] La causa è questa, secondo che egli disse a messer Nicolò et Maffio, |21r| quando li mandò ambasciatori al papa, i quali alle volte movevano qualche parola circa la fede di Cristo. [8] Diceva egli: «In che modo volete voi che mi faccia christiano? [9] Voi vedete che li christiani che sono in queste parti sono totalmente ignoranti che non sanno cosa alcuna et niente possono, et vedete che questi idolatri fanno ciò che vogliono, et quando io seggo a mensa vengono a me le tazze che sono in mezz’ala sala, piene di vino o bevande et d’altre cose, senza che alcuno le tocchi, et bevo con quelle. [10] Constringono andar il mal tempo verso qual parte vogliono et fanno molte cose maravigliose, et come sapete gl’idoli suoi parlano et gli predicono tutto quello che vogliono. [11] Ma se io mi converto alla fede di Christo et mi faccia christiano, allhora i miei baroni et altre genti, quali non s’accostano alla fede di Christo, mi direbbono: «Che causa v’ha mosso al battesmo et a tener la fede di Christo? [12] Che virtuti o che miracoli havete veduto di lui?» [13] Et dicono questi idolatri che quel che fanno lo fanno per santità et virtú degl’idoli; allhora non saprei che risponderli, tal che saria grandissimo errore tra loro et questi idolatri, che con l’arte et scientie loro operano tali cose, et mi potriano facilmente far morire. [14] Ma voi andrete dal vostro pontefice, et da parte nostra lo pregarete che mi mandi cento huomini savii della vostra legge, che avanti questi idolatri habbino a riprovare quel che fanno, et dichinli che loro sanno et possono far tal cose ma non vogliono, perché si fanno per arte diabolica et di cattivi spiriti, et talmente li constringano che non habbino potestà di far tal cose avanti di loro. [15] Alhora, quando vedremo questo, riprovaremo loro et la loro legge, et cosí mi battezzerò, et quando sarò battezzato tutti li miei baroni et grand’huomini si battezzeranno, et poi li sudditi suoi torranno il battesmo, et cosí saranno piú christiani qui che non sono nelle parti vostre». [16] Et se dal papa, come è stato detto nel principio, fossero stati mandati huomini atti a predicarli la fede nostra, il detto Gran Can si havria fatto christiano, perché si sa di certo che ne havea grandissimo desiderio.

3

[0] Della sorte di premii che egli dà a quelli che si portano bene in battaglia, et delle tavole d’oro ch’egli dona. Cap. 3.

[1] Ma, ritornando al proposito nostro, diremo del merito et honore che ei dà a coloro che si portano valorosamente in battaglia. [2] Dovete adunque sapere che ’l Gran Can ha dodeci baroni savii, che hanno carico di intendere et informarsi delle operationi che fanno li capitani et soldati, particolarmente nelle imprese et battaglie ove si ritrovano, et quelle poi referir al Gran Can, qual, conoscendoli benemeriti, se sono capo di cento huomini gli fa di mille, et dona molti vasi di argento et tavole di comandamento et signoria. [3] Imperoché quello che è capo di cento ha la tavola d’argento, et quello che è capo di mille ha la tavola d’oro o vero d’argento indorato, et quello che è capo di diecimila ha la tavola d’oro con un capo di leone; et il peso di queste tavole è tale: di quelli che hanno il dominio di mille, sono ciascuna di peso di saggi cento et venti; et quella che ha il capo di leone è di peso di saggi dugento et venti. [4] Sopra tal tavola è scritto un commandamento che dice cosí: «Per le forze et virtú del magno Iddio, et per la gratia che ha dato al nostro imperio, il nome del Can sia benedetto, et tutti quelli che non lo obediranno morino et siano destrutti». [5] Tutti quelli che hanno queste tavole hanno anchora privilegii in scrittura di tutte quelle cose che far debbono et possono nel suo dominio. [6] Et quello che ha il dominio di centomila, o vero sia capitano generale di qualche grand’essercito, ha una tavola d’oro di peso di saggi trecento con le parole sopradette, et sotto la tavola è scolpito un lione con le imagini del sole et della luna, et oltre di ciò ha il privilegio del gran comandamento che appare in questa nobil tavola. [7] Ogni volta che cavalcano in publico gli viene portato un pallio sopra la testa, per mostrar la grande auttorità et potere che hanno, et quando segghono deono sempre sedere sopra una cathedra d’argento. [8] Et il Gran Cane dona ad alcuni baroni una tavola dove è scolpita la imagine del girifalco, et questi possono menare seco tutto l’essercito d’ogni gran principe per sua guardia; et può pigliar il cavallo del Gran Can, volendolo, et il medesmo può pigliare i cavalli degli altri che siano di minor dignità.

4

[0] Della forma et statura del Gran Can, et delle quattro mogli principali che egli ha, et delle gioveni che ogni anno fa eleggere nella provincia di Ungut, et del modo che le eleggono. Cap. 4.

[1] Chiamasi Cublai Gran Can signor de’ signori, il qual è di commune statura, cioè non è troppo grande né troppo picciolo, ha le membra ben formate, che proportionatamente si corrispondono. [2] La faccia sua è bianca et alquanto rossa, risplendentemente a modo di rosa |21v| colorita, che ’l fa parer molto gratioso; gli occhi sono neri et belli, il naso ben fatto et profilato. [3] Ha etiandio quattro donne signore, quali tiene di continuo per mogli legitime, et il primo figliuolo che nasce di quelle è successor del’imperio doppo la morte del Gran Can, et si chiamano imperatrici, et tenghono corte regal da per sé. [4] Né alcuna è di loro che non habbia trecento donzelle molte belle et molti donzelli et altri huomini castrati et donne, talmente che ciascuna di queste ha nella sua corte diecimila persone; et quando il Gran Can vuol esser con una di queste tali, la fa venir alla sua corte, o vero egli va alla corte di lei. [5] Et ha oltre di ciò molte concubine; et dirovi come è una provincia nella quale habitano Tartari che si chiaman Ungut, et la città similmente, le genti della qual sono bellissime et bianchissime, et il Gran Can ogni duoi anni, secondo che lui vuole, manda alla detta provincia suoi imbasciadori, che li trovino delle piú belle donzelle, secondo la stima della bellezza che lui li commette, quattrocento, cinquecento, piú et manco secondo che li pare, le quali donzelle si stimano in questo modo. [6] Giunti che sono gli imbasciadori, fanno venir a sé tutte le donzelle della provincia, et vi sono li stimatori a questo deputati, i quali, vedendo et considerando tutte le membra di ciascuna a parte a parte, cioè i capelli, il volto et le ciglia, la bocca, le labbra et l’altre membra, che siano condecenti et conformi alla persona, et stimano alcune in caratti sedeci, altre diecisette, diciotto, venti et piú et manco, secondo che sono piú et manco belle. [7] Et se ’l Gran Can ha commesso che le conduchino della stima di caratti venti o ventiuno, secondo il numero a loro ordinatoli quelle conducono. [8] Et giunte alla sua presenza le fa stimare di novo per altri stimatori, et di tutte ne fa eleggere per la sua camera trenta o quaranta che siano stimate piú caratti, et ne fa dare una a ciascuna delle moglie d’i baroni, che nelle sue camere le debbano la notte diligentemente vedere, che non siano brutte sotto panni o difettive in alcuno membro, et se dormono soavemente et non ronchiggino, et se rendono buon fiato et soave, et che in alcuna parte non habbino cattivo odore. [9] Et quando sono state diligentemente essaminate si dividono a cinque a cinque, secondo che sono, et ciascuna parte dimora tre dí et tre notti nella camera del signore, per far cadauna cosa che li sia necessaria; quali compiuti si cambiano et l’altra parte fa il simile, et cosí fanno fin che compino il numero di quante sono, et dipoi ricominciano una altra volta. [10] Vero è che, mentre una parte dimora nella camera del signore, l’altre stanno in un’altra camera ivi propinqua, di modo che il signore se ha bisogno di qualche cosa estrinseca, come è bere et mangiare et altre cose, le donzelle che sono nella camera del signore comandano a quelle dell’altra camera che debbano apparrechiare, et quelle subito apparecchiano, et cosí non si serve al signor per altre persone che per le donzelle. [11] Et l’altre donzelle che furono stimate manco caratti dimorano con l’altre del signore nel palazzo, et le insegnano a cucire et tagliar guanti et far altri nobil lavori; et quando alcun gentilhuomo ricerca moglie, il Gran Can li dà una di quelle con grandissima dote, et a questo modo le marita tutte nobilmente. [12] Et potrebbesi dire: non si aggravano gli huomini della detta provincia che il Gran Can li toglie le lor figliuole? [13] Certamente no, anzi si reputano a gran gratia et honore et molto si rallegrano coloro che hanno belle figliuole che si degni d’accettarle, perché dicono: «Se la mia figliuola è nata sotto buon pianeto et con buona ventura, il signor potrà meglio sodisfarla, et la mariterà nobilmente, la qual cosa io non sarei sufficiente a sodisfare». [14] Et se la figliuola non si porta bene o vero non gli intraviene bene, allhora dice il padre: «Questo gli è intravenuto perché il suo pianeto non era buono».

5

[0] Del numero de’ figliuoli del Gran Can che ha delle quattro mogli, et di Cingis, che era il primogenito; de’ quali ne fa re di diverse provincie, et li figliuoli delle concubine li fa signori. Cap. 5.

[1] Sappiate che ’l Gran Can havea ventiduoi figliuoli maschi delle sue quattro mogli leggittime, il maggior de’ quali era nominato Cingis, qual dovea essere Gran Can et haver la signoria dell’imperio, et già vivendo il padre era stato confermato signore. [2] Avvenne che egli mancò della presente vita, et di lui rimase un figliuolo nominato Themur, il qual dovea succeder nel dominio et esser Gran Can, perché egli è figliuolo del primo figliuolo del Gran Can, cioè di Cingis: et questo Themur è uomo pieno di bontà, savio et ardito, et ha riportato di molte vittorie in battaglia. [3] Item il Gran Can anchora ha dalle sue concubine venticinque figliuoli, i quali sono valenti nell’arme, perché di continuo li fa essercitar nelle cose per|22r|tinenti alla guerra, et sono gran signori. [4] Et delli figliuoli che egli ha dalle quattro mogli sette sono re di gran provincie et regni, et tutti mantengono bene il suo regno, perché sono savii et prudenti: et non può essere altrimenti, essendo nasciuti di tal padre, che è opinione firmissima che huomo di maggior valore non fosse mai in tutta la generation d’i Tartari.

6

[0] Del grande et maraviglioso palazzo del Gran Can, appresso la città di Cambalú. Cap. 6.

[1] Ordinariamente il Gran Can habita tre mesi dell’anno, cioè dicembre, gennaio et febraio, nella gran città detta Cambalú, qual è in capo della provincia del Cataio verso greco; et quivi è situato il suo gran palazzo, appresso la città nuova nella parte verso mezzodí, in questa forma. [2] Prima è un circuito di muro quadro, et cadauna fazzata è lunga miglia otto, attorno alle quali vi è una fossa profonda, et nel mezzo di ciascuna fazza vi è una porta, per la quale intrano tutte le genti che da ogni parte quivi concorrono. [3] Poi si trova il spatio d’un miglio a torno a torno, dove stanno i soldati, dapoi il qual spatio si trova un altro circuito di muro di miglia sei per quadro, il qual ha tre porte nella fazza di mezzogiorno et altre tre nella parte di tramontana; delle quali quella di mezzo è maggiore, et sta sempre serrata et mai non si apre, se non quando il Gran Can vuol intrare o uscire, et le altre duoi minori, che li sono una da una banda et l’altra dall’altra, stanno sempre aperte, et per quelle entrano tutte le genti. [4] Et in cadaun cantone di questo muro et nel mezzo di cadauna delle fazzate vi è un palazzo bello et spacioso, talmente che a torno a torno il muro sono otto palazzi, ne’ quali si tengono le munitioni del Gran Cane, cioè in ciascheduno una sorte di fornimenti, come freni, selle, staffe et altre cose che si appartengono all’apparecchio d’i cavalli; et in un altro archi, corde, turchassi, frezze et altre cose appartinenti al saettare; in un altro corazze, corsaletti et simili cose di cuoro cotto; et cosí degli altri. [5] Intra questo circuito di muro è un altro circuito di muro, il qual è grossissimo, et la sua altezza è ben dieci passa, et tutti i merli sono bianchi; il muro è quadro et circuisce ben quattro miglia, cioè un miglio per ciaschedun quadro, et in questo terzo circuito sono sei porte, similmente ordinate come nel secondo circuito. [6] Sonvi anchora otto palazzi grandissimi, ordinati come nel secondo circuito predetto, ne’ quali similmente si tengono i paramenti del Gran Can. [7] Fra l’uno et l’altro muro sono arbori molto belli et prati nei quali sono molte sorti di bestie, come cervi et bestie che fanno il muschio, caprioli, daini, vari et molte altre simili, di modo che fra le mura, in qualunque luogo dove si truova vacuo, vi conversano bestie. [8] I prati hanno herba abondantemente, perché tutte le strade sono salezzate et sollevate piú alte della terra ben duoi cubiti, talmente che sopra quelle mai non si raguna fango né vi si ferma acqua di pioggia, ma discorrendo per i prati ingrassa la terra et fa crescer l’herba in abondanza. [9] Et dentro a questo muro, che circuisse quattro miglia, è il palazzo del Gran Can, il qual è il piú gran palazzo che fosse veduto giamai. [10] Esso adunque confina con il predetto muro verso tramontana et verso mezzodí, et è vacuo, dove i baroni et i soldati vanno passeggiando. [11] Il palazzo adunque non ha solaro, ma ha il tetto o vero coperchio altissimo; il pavimento dove è fondato è piú alto della terra dieci palmi, et a torno a torno vi è un muro di marmo egual al pavimento, largo per due passa, et tra il muro è fondato il palazzo, di sorte che tutto il muro fuor del palazzo è quasi come un preambulo, pel quale si va a torno a torno passeggiando, dove possono gli huomini veder per le parti esteriori. [12] Et nelle estremità del muro di fuori è un bellissimo poggiolo con colonne, al qual si possono accostar gli huomini. [13] Nelle mura delle sale et camere vi sono dragoni di scoltura indorati, soldati, uccelli et di diverse maniere di bestie et historie di guerre; la copritura è fatta in tal modo che altro non si vede che oro et pittura. [14] In ciascuno quadro del palazzo è una gran scala di marmo, che ascende di terra sopra il detto muro di marmo che circonda il palazzo, per la qual scala si ascende in palazzo. [15] La sala è tanta grande et larga che vi potria mangiar gran moltitudine d’huomini. [16] Sono in esso palazzo tante camere, che mirabil cosa è a vederle; esso è tanto ben ordinato et disposto, che si pensa che non si potria trovar huomo che lo sapesse meglio ordinare. [17] La copertura di sopra è rossa, verde, azurra et pavonazza et di tutti i colori; vi sono vitreate nelle fenestre cosí ben fatte et cosí sottilmente che risplendono come christallo, et sono quelle coperture cosí forti et salde che durano molti anni. [18] Dalla parte di dietro del palazzo sono case grandi, camere et sale, nelle quali sono le cose private del signore, cioè tutto il suo thesoro, oro, argento, pietre pretiose et perle, et i suoi vasi d’oro et d’argento, dove |22v| stanno le sue donne et concubine, et dove egli fa fare le cose sue commode et opportune, a’ quali luoghi altre genti non v’entrano. [19] Et dall’altra parte del circuito del palazzo, a riscontro del palazzo del Gran Can, vi è fatto un altro simile in tutto a quel del Gran Can, nel qual dimora Cingis, primo figliuolo del Gran Can, et tien corte, osservando i modi et costumi et tutte le maniere del padre: et questo percioché dipoi la morte di quello è per haver il dominio. [20] Item appresso al palazzo del Gran Can, verso tramontana per un trarre di balestra, intra i circuiti delle mura è un monte di terra fatto a mano, la cui altezza è ben cento passa, et a torno a torno cinge ben per un miglio, il qual è tutto pieno et piantato di bellissimi arbori, che per tempo alcuno mai perdono le foglie et sono sempre verdi. [21] Et il signore, quando alcuno li referisse in qualche luogo essere qualche bel’arbore, lo fa cavare con tutte le radici et terra, et fosse quanto si volesse grande et grosso, che con gli elefanti lo fa portar a quel monte: et in questo modo vi sono bellissimi arbori sempre tutti verdi, et per questa causa si chiama Monte Verde, nella sommità del qual è un bellissimo palazzo, et è verde tutto, onde, riguardando il monte, il palazzo et gl’arbori, è una bellissima et stupenda cosa, percioché rende una vista bella, allegra et dilettevole. [22] Item verso tramontana similmente nella città è una gran cava larga et profonda molto, ben ordinata, della cui terra fu fatto il detto monte; et un fiume non molto grande empie detta cava et fa a modo d’una peschiera, et quivi si vanno ad acquare le bestie. [23] Et dipoi si parte il detto fiume, passando per un acquadutto appresso il monte predetto, et empie una altra cava molto grande et profonda, tra il palazzo del Gran Can et quello di Cingis suo figliuolo, della terra della quale fu similmente inalzato il detto monte. [24] In queste cave o vero peschiere sono molte sorti di pesci, de’ quali il Gran Can ha grande abondanza quando vuole. [25] Et il fiume si parte dall’altra parte della cava et scorre fuori, ma è talmente ordinato et fabricato che nel’entrare et uscire vi sono poste alcune reti di rame et di ferro, che d’alcuna parte non può uscire il pesce. [26] Vi sono anchora cigni et altri uccelli d’acqua, et da un palazzo all’altro si passa per un ponte fatto sopra quella acqua. [27] Detto è adunque del palazzo del Gran Can; hora si dirà della dispositione et conditione della città di Taidu.

7

[0] Della nuova città di Taidu, fabricata appresso la città di Cambalú, et degli ordini che si osservano sí nell’alloggiare gli ambasciadori come nel’andar di notte. Cap. 7.

[1] La città di Cambalú è posta sopra un gran fiume nella provincia del Cataio, et fu per il tempo passato molto nobile et regale; et questo nome di Cambalú vuol dire “città del signor”. [2] Et trovando il Gran Can per opinione degli astrologhi che la dovea ribellarsi dal suo dominio, ne fece ivi appresso edificar un’altra, oltre il fiume, ove sono li detti palazzi, di modo che nessuna cosa è che le divida salvo che ’l fiume che indi discorre. [3] La città adunque nuovamente edificata si chiama Taidu, et tutti li Cataini, cioè quelli che haveano origine dalla provincia del Cataio, li fece il Gran Can uscir della vecchia città et venir ad habitar nella nuova, et quelli di che egli non si dubitava c’havessero ad essere ribelli lasciò nella vecchia, perché la nuova non era capace di tanta gente quanta habitava nella vecchia, la qual era molto grande; et nondimeno la nuova era della grandezza come al presente potrete intendere. [4] Questa nuova città ha di circuito ventiquattro miglia et è quadra, di sorte che nessun lato del quadro è maggiore o piú lungo dell’altro et ciascun è di miglia sei, et è murata di mura di terra che sono grosse dalla parte di sotto circa dieci passa, ma dalli fondamenti in su si vanno minuendo, talmente che nella parte di sopra non sono piú di grossezza di tre passa, et a torno a torno sono merli bianchi. [5] Tutta la città adunque è tirata per linea, imperoché le strade generali dall’una parte all’altra sono cosí dritte per linea che, se alcuno montasse sopra il muro d’una porta et guardasse a drittura, può vedere la porta dall’altra banda a riscontro di quella. [6] Et per tutto, dai lati di ciascheduna strada generale, sono stanze et botteghe di qualunque maniera, et tutti i terreni sopra li quali sono fatte le habitationi per la città sono quadri et tirati per linea, et in ciascheduno terreno vi sono spatiosi et gran palazzi, con sufficienti corti et giardini. [7] Et questi tali terreni sono dati a ciascuno capo di casa, cioè il tale di tal progenie hebbe questo terreno, et il tale della tale hebbe quell’altro, et cosí di mano in mano. [8] Et circa ciascuno terreno cosí quadro sono belle vie per le quali si cammina, et in questo modo tutta la città di dentro è disposta per quadro, come è un tavoliero da scacchi, et |25r| è cosí bella et maestrevolmente disposta che non saria possibile in alcun modo raccontarlo. [9] Il muro della città ha dodici porte, cioè tre per ciascun quadro, et sopra ciascuna porta et cantone di quadro è un gran palazzo molto bello, talmente che in ciascuno quadro di muro sono cinque palazzi, i quali hanno grandi et large sale, dove stanno l’armi di quelli che custodiscono la città, perché ciascuna porta è custodita per mille huomini. [10] Né credasi che tal cosa si faccia per paura di gente alcuna, ma solamente per honore et eccellenza del signore; nondimeno, per il detto degli astrologhi, si ha non so che di sospetto della gente del Cataio. [11] Et in mezzo della città è una gran campana, sopra un grande et alto palazzo, la quale si suona di notte, acciò che doppo il terzo suono nessuno ardisca andare per la città, se non in caso di necessità per donna che partorisca o di huomo infermo; et quelli che vanno per giusta causa deono portar lumi con esso loro. [12] Item fuor della città per ciascuna porta sono grandissimi borghi o vero contrade, di modo che ’l borgo di ciascuna porta si toccha con li borghi delle porte dell’uno et l’altro lato, et durano per lunghezza tre et quattro miglia, a tal che sono piú quelli che habitano ne’ borghi che quelli che habitano nella città. [13] Et in ciascun borgho o vero contrada, forse per un miglio lontano dalla città, sono molti fondachi et belli, ne’ quali alloggiano i mercatanti che vengono di qualunque luogo; et a cadauna sorte di gente è diputato un fondacho, come si direbbe a’ Lombardi uno, a’ Todeschi un altro, a’ Francesi un altro. [14] Et vi sono femmine da partito venticinquemila, computate quelle della città nuova et quelle de’ borghi della città vecchia, le quali servono de’ suoi corpi agli huomini per danari. [15] Et hanno un capitano generale, et per ciascheduno centenaio et ciascuno migliaio vi è un capo, et tutti rispondono al generale; et la causa perché queste femmine hanno capitano è perché, ogni volta che vengono ambasciadori al Gran Can per cose et facende di esso signore, et che stanno alle spese di quello, le quali lor vengono fatte honoratissime, questo capitano è obligato di dare ogni notte a’ detti ambasciadori et a ciascuno della famiglia una femmina da partito, et ogni notte si cambiano, et non hanno alcun prezzo, imperoché questo è il tributo che pagano al Gran Can. [16] Oltre di ciò, le guardie cavalcano sempre la notte per la città a trenta et a quaranta, cercando et investigando se alcuna persona ad hora straordinaria, cioè doppo il terzo suono della campana, vada per la città: et trovandosi alcuno si prende et subito ponsi in prigione, et la mattina gli officiali a ciò deputati lo essaminano, et trovandolo colpevole di qualche menfatto li danno, secondo la qualità di quello, piú et mancho battiture con uno bastone, per le quali alcune volte ne periscono. [17] Et a questo modo sono puniti gli huomini de’ loro delitti, et non vogliono tra loro sparger sangue, però che i loro “bachsi”, cioè sapienti astrologhi, dicono esser male a spargere il sangue humano. [18] Detto è adunque delle continentie della città di Taidu; hora diremo come nella città i Cataini si volsero ribellare.

8

[0] Del tradimento ordinato di far ribellar la città di Cambalú, et come gli auttori furono presi et morti. Cap. 8.

[1] Vera cosa è, come di sotto si dirà, che sono deputati dodici huomini, i quali hanno a disporre delle terre et reggimenti et di tutte l’altre cose come meglio lor pare. [2] Tra’ quali v’era un Sarraceno nominato Achmac, huomo sagace et valente, il qual oltre gli altri havea gran potere et auttorità appresso il Gran Can, et il signore tanto l’amava ch’egli havea ogni libertà, imperoché, come fu trovato doppo la sua morte, esso Achmac talmente incantava il signor con suoi veneficii che ’l signore dava grandissima credenza et udienza a tutti i detti suoi, et cosí facea tutto quello che volea fare. [3] Egli dava tutti i reggimenti et officii et puniva tutti i malfattori, et ogni volta che egli volea far morire alcuno che havesse in odio, o giustamente o ingiustamente, egli andava dal signore et dicevagli: «Il tale è degno di morte, perché cosí ha offeso vostra Maestà». [4] Allhora diceva il signore: «Fa’ quel che ti piace», et egli subito lo facea morire. [5] Per il che, vedendo gli huomini la piena libertà ch’egli havea, et che ’l signore al detto di costui dava sí piena fede che non ardivano di contradirli in cosa alcuna, alcuno non era cosí grande et di tanta auttorità che non lo temesse. [6] Et se alcuno fosse per lui accusato a morte al signore et volesse scusarsi, non potea riprovare et usar le sue ragioni, perché non havea con chi, conciosiaché nessuno ardiva di contradire ad esso Achmach: et a questo modo molti ne fece morire ingiustamente. [7] Oltre di questo non era alcuna bella donna che, volendola, egli non l’havesse alle sue voglie, togliendola per moglie s’ella non era ma|25v|ritata, o vero altramente facendola consentire. [8] Et quando sapeva che alcuno haveva qualche bella figliuola, esso haveva i suoi ruffiani che andavano al padre della fanciulla dicendogli: «Che vuoi tu fare? [9] Tu hai questa tua figliuola: dàlla per moglie al bailo, – cioè ad Achmach, perché si diceva bailo come si diria vicario, – et faremo che egli ti darà il tal reggimento o vero tal officio per tre anni». [10] Et cosí quello li dava sua figliuola, et allhora Achmach diceva al signore: «El vacua tal reggimento», o vero «si finisse il tal giorno; tal huomo è sufficiente a reggerlo»; et il signor li rispondeva: «Fa’ quello che ti pare», onde lo investiva subito di tal reggimento. [11] Per il che, parte per ambitione di reggimenti et officii, parte per essere temuto questo Achmach, tutte le belle donne o le toglieva per mogli o le havea a’ suoi piaceri. [12] Havea anchora figliuoli circa venticinque, i quali erano ne’ maggiori officii, et alcuni di loro, sotto nome et coperta del padre, commettevano adulterio come il padre et facevano molte altre cose nefande et scelerate. [13] Questo Achmach havea ragunato molto thesoro, perché ciascuno che volea qualche reggimento o vero officio li mandava qualche gran presente. [14] Regnò adunque costui anni ventidue in questo dominio; finalmente gli huomini della terra, cioè i Cataini, vedendo le infinite ingiurie et nefande sceleratezze che egli fuor di misura commetteva, cosí nelle lor mogli come nelle lor proprie persone, non potendo per modo alcuno piú sostenere, deliberorno di ammazzarlo et ribellare al dominio della città. [15] Et tra gli altri era un Cataino nominato Cenchu, che havea sotto di sé mille huomini, al qual il detto Achmach havea sforzata la madre, la figliuola et la moglie; dove che pien di sdegno parlò sopra la destruttione di costui con un altro Cataino nominato Vanchu, il qual era signore di diecimila, che dovessero far questo quando il Gran Can sarà stato tre mesi in Cambalú, et poi si parte et va alla città di Xandú, dove sta similmente tre mesi, et similmente Cingis suo figliuolo si parte et va alli luoghi soliti, et questo Achmach rimane per custodia et guardia della città; et quando intraviene qualche caso esso manda a Xandú al Gran Can, et egli li manda la risposta della sua volontà. [16] Questi Vanchu et Cenchu, havendo fatto questo consiglio insieme, volsero communicarlo con li Cataini maggiori della terra, et di commun consenso lo fecero intender in molte altre città et alli suoi amici, cioè che havendo deliberato di tal giorno far il tal effetto, che subito che vedranno i segni del fuogo debbino ammazzar tutti quelli che hanno barba, et far segno con il fuogo alle altre città che faccino il simile: et la cagion per la qual si dice che li barbuti siano ammazzati, è perché i Cataini sono senza barba naturalmente, et li Tartari et Sarraceni et christiani la portavano. [17] Et dovete sapere che tutti i Cataini odiavano il dominio del Gran Can, perché metteva sopra di loro rettori tartari et per lo piú sarraceni, et loro non li potevano patire, parendoli di essere come servi. [18] Et poi il Gran Can non havea giuridicamente il dominio della provincia del Cataio, anzi l’havea acquistato per forza, et non confidandosi di loro dava a regger le terre a’ Tartari, Sarraceni et christiani ch’erano della sua famiglia, a lui fideli, et non erano della provincia del Cataio. [19] Hor li sopradetti Vanchu et Cenchu, stabilito il termine, entrorono nel palazzo di notte, et Vanchu sentò sopra una sedia et fece accendere molte luminarie avanti di sé, et mandò un suo nuncio ad Achmach bailo, che habitava nella città vecchia, che da parte di Cingis figliuolo del Gran Can, il quale hora hora era gionto di notte, dovesse di subito venire a lui. [20] Il che inteso, Achmach molto maravigliandosi andò subitamente, perché molto lo temeva, et entrando nella porta della città incontrò uno Tartaro nominato Cogatai, il qual era capitano di dodicimila huomini co’ quali continuovamente custodiva la città, qual li disse: «Dove andate cosí tardi?» [21] «A Cingis, il qual hor hora è venuto». [22] Disse Cogatai: «Come è possibile che lui sia venuto cosí nascosamente ch’io non l’habbia saputo?», et seguitollo con certa quantità delle sue genti. [23] Hora questi Cataini dicevano: «Pur che possiamo ammazzar Achmach, non habbiamo da dubitare d’altro». [24] Et subito che Achmach entrò nel palazzo, vedendo tante luminarie accese, s’inginocchiò avanti Vanchu, credendo che ’l fosse Cingis, et Cenchu che era ivi apparecchiato con una spada li tagliò il capo. [25] Il che vedendo Cogatai, che s’era fermato nell’entrata del palazzo, disse: «Ci è tradimento», et subito saettando Vanchu che sedeva sopra la sedia l’ammazzò, et chiamando la sua gente prese Cenchu et mandò per la città un bando che, se alcuno fosse trovato fuori di casa, fusse di subito morto. [26] I Cataini, vedendo che i Tartari haveano scoperta la cosa, et che non haveano capo alcuno, essendo questi duoi l’un morto l’altro preso, si riposero in casa, né po|26r|terono far alcun segno all’altre città che si ribellassero come era stato ordinato. [27] Et Cogatai subito mandò i suoi nuntii al Gran Can, dichiarandoli per ordine tutte le cose ch’erano intravenute, il quale li rimandò dicendo che lui dovesse diligentemente essaminarli, et secondo che loro meritassero per i suoi misfatti li dovesse punire. [28] Venuta la mattina, Cogatai essaminò tutti i Cataini, et molti di loro distrusse et uccise che trovò esser d’i principali nella congiura; et cosí fu fatto nell’altre città, poi che si seppe ch’erano partecipi di tal delitto. [29] Poi che fu ritornato il Gran Can a Cambalú, volse sapere la causa per la quale ciò era intravenuto, et trovò come questo maladetto Achmach, cosí lui come i suoi figliuoli, haveano commesso tanti mali et così enormi come di sopra si è detto. [30] Et fu trovato che tra lui et sette suoi figliuoli (perché tutti non erano cattivi) haveano prese infinite donne per mogli, eccetto quelle c’haveano havute per forza. [31] Poi il Gran Can fece condurre nella nuova città tutto il thesoro che Achmach havea ragunato nella città vecchia, et quello ripose con il suo thesoro: et fu trovato che era infinito. [32] Et volse che fosse cavato di sepoltura il corpo di Achmach et posto nella strada, acciò che fosse stracciato da’ cani, et i figliuoli di quello che haveano seguitato il padre nelle male opere li fece scorticare vivi. [33] Et venendogli in memoria della maladetta setta d’i Sarraceni, per la quale ogni peccato gli vien fatto lecito et che possono uccidere qualunque non sia della sua legge, et che il maladetto Achmach con i suoi figliuoli non pensando per tal causa di far alcun peccato, la disprezzò molto et hebbe in abhominatione; chiamati a sé li Sarraceni gli vietò molte cose che la lor legge li comandava, imperoché li diede un comandamento che ei dovessero pigliar le mogli secondo la legge d’i Tartari, et che non dovessero scannare le bestie come facevano per mangiar la carne, ma quelle dovessero tagliar pel ventre. [34] Et nel tempo che intravenne questa cosa messer Marco si trovava in quello luogo. [35] Detto si è di questo; diremo come il Gran Can mantiene et regge la sua corte.

9

[0] Della guardia della persona del Gran Can, ch’è di dodicimila persone. Cap. 9.

[1] Il Gran Can, come a cadauno è manifesto, si fa custodire da dodicimila cavallieri, i quali si chiamono “casitan”, cioè “soldati fideli del signore”: et questo non fa per paura ch’egli habbia d’alcuna persona, ma per eccellenza. [2] Questi dodicimila huomini hanno quattro capitani, ciascuno de’ quali è capitano di tremila, et ciascheduno capitano con li suoi tremila dimora continuoamente nel palazzo tre dí et tre notti, et compiuto il suo termine si cambia un altro, et quando ciascuno di loro ha custodito la sua volta ricominciano di nuovo la guardia. [3] Il giorno certamente gli altri novemila non si partono di palazzo, se alcuno non andasse per faccende del Gran Can o vero per cose a loro necessarie, mentre però che fossero lecite, et sempre con parola del loro capitano. [4] Et se fosse qualche caso grave, come se il padre o il fratello o qualche suo parente fusse in articolo di morte, o vero li soprastesse qualche gran danno per il qual non potesse ritornar presto, bisogna dimandare licenza al signore. [5] Ma la notte li novemila ben vanno a casa.

10

[0] Del modo che ’l Gran Can tien corte solenne et generale, et come siede a tavola con tutti i suoi baroni; et della credenza che è in mezzo della sala, con li vasi d’oro da bere et altri pieni di latte di cavalle et camelle, et cerimonie che si fanno quando beve. Cap. 10.

[1] Et quando il Gran Can tiene una corte solenne, gli huomini seggono con tal ordine: la tavola del signor è posta avanti la sua sedia molto alta, et siede dalla banda di tramontana, talmente che volta la faccia verso mezzodí; appo lui senta la sua moglie dalla banda sinistra, et a banda destra, alquanto piú basso, seggono i suoi figliuoli et nepoti et parenti, et altri che sono congiunti di sangue, cioè quelli che discendono dalla progenie imperiale. [2] Nondimeno Cingis, primo figliuolo, senta alquanto piú alto degli altri figliuoli. [3] Et i capi di questi stanno quasi eguali alli piedi del Gran Can, et altri baroni et principi seggono ad altre tavole piú basse, et similmente è delle donne, imperoché tutte le mogli de’ figliuoli del Gran Can et parenti et nepoti seggono dalla banda sinistra piú a basso; et dipoi le mogli d’i baroni et soldati anchora piú basse, di modo che ciascheduna siede secondo il suo grado et dignità nel luogo a lui deputato et conveniente. [4] Et le tavole sono talmente ordinate che ’l Gran Can, sedendo nella sua sedia, può veder tutti. [5] Né crediate che tutti sentano a tavola, anzi la maggior parte d’i soldati et baroni mangia in sala sopra tapeti, perché non hano tavole; et fuor |26v| della sala sta gran moltitudine di huomini che vengono da diverse parti, con varii doni di cose strane et non solite a vedersi, et sonvi alcuni che hanno havuto qualche dominio et desiderano di rihaverlo, et questi sogliono sempre venire in tali giorni che ’l tien corte bandita o vero fa nozze. [6] Et nel mezzo della sala dove il signor senta a tavola è un bellissimo artificio grande et ricco, fatto a modo d’un scrigno quadro, et ciascuno quadro è di tre passa, sottilmente lavorato con bellissime scolture d’animali indorati, et nel mezzo è incavato et vi è un grande et precioso vaso a modo d’un pittaro, di tenuta d’una botte, nel quale vi è il vino; et in ciascheduno cantone di questo scrigno è posto un vaso di tenuta d’un bigoncio, in uno de’ quali è latte di cavalle et nell’altro di camelle, et cosí degl’altri, secondo che sono diverse maniere di bevande. [7] Et in detto scrigno stanno tutti i vasi del signore, co’ quali si porge da bere, et sonvi alcuni d’oro bellissimi, che si chiamano “vernique”, le quali sono di tanta capacità che ciascuna, piena di vino o vero d’altra bevanda, sarebbe a bastanza da bere per otto o dieci huomini; et a ogni due persone che seggono a tavola si pone una verniqua piena di vino con una “obba”, et le obbe sono fatte a modo di tazze d’oro che hanno il manico, con le quali cavano il vino dalla verniqua, et con quelle bevono, la qual cosa si fa cosí alle donne come alli huomini. [8] Et questo signor ha tanti vasi d’oro et d’argento et cosí pretiosi che non si potrebbe credere. [9] Item sono deputati alcuni baroni, i quali hanno a disporre alli luoghi suoi debiti et convenevoli i forastieri che sopravengono, che non sanno i costumi della corte: et questi baroni vanno continuamente per la sala qua et là, ricercando da quelli che seggono a tavola se cosa alcuna vi manca, et se alcuni vi sono che vogliano vino o latte o carni o altro, gliene fanno subito portar dalli servitori. [10] A tutte le porte della sala, o vero di qualunque luogo dove sia il signore, stanno duoi grandi huomini a guisa di giganti, uno da una parte l’altro dall’altra, con un bastone in mano: et questo perché a nessuno è lecito toccare la soglia della porta, ma bisogna che distenda il piede oltre, et se per aventura la tocca i detti guardiani li tolgono le vesti, et per rihaverle bisogna che le riscuotino; et se non li tolgono le vesti, li danno tante botte quante li sono deputate. [11] Ma se sono forestieri che non sappino il bando, vi son deputati alcuni baroni, che gli introducono et ammoniscono del bando: et questo si fa perché se si toccha la soglia si ha per cattivo augurio. [12] Nel’uscire veramente dalla sala, perché alcuni sono aggravati dal bere né potrebbono per modo alcuno guardarsi, non si ricerca tal bando. [13] Et quelli che fanno la credenza al Gran Can et che gli ministrano il mangiare et bere sono molti, et tutti hanno fasciati il naso et la bocca con bellissimi veli o vero fazzoletti di seda et d’oro, a questo effetto, acciò che il loro fiato non respiri sopra i cibi et sopra il vino del Gran Can. [14] Et sempre, quando il signor vuol bere, subito che ’l donzello glielo appresenta si tira adietro per tre passa et inginocchiasi, et tutti i baroni et altre genti s’inginocchiano, et tutte le sorti d’instrumenti che ivi sono in grandissima quantità cominciano a sonare fin che lui beve, et quando ha bevuto cessano gl’instrumenti et le genti si levano; et sempre quando beve se gli fa questo honore et riverenza. [15] Delle vivande non si dice, perché ciascuno deve credere che vi siano in grandissima abondanza; et non è alcun barone che seco non meni la sua moglie, et mangiano con l’altre donne. [16] Et quando hanno mangiato et sono levate le tavole, vengono in sala molte genti, et tra l’altre gran moltitudine di buffoni et sonatori di diversi isturmenti et molte maniere di sperimentatori, et tutti fanno gran solazzi et feste avanti il Gran Can, laonde tutti si rallegrano et consolansi. [17] Et quando tutto questo si è fatto, le genti si partono et ciascuno se ne torna a casa sua.

11

[0] Della festa grande che si fa per tutto il dominio del Gran Can alli ventiotto di settembre, ch’è il giorno della sua natività, et come egli veste ben ventimila huomini. Cap. 11.

[1] Tutti li Tartari et quelli che sono subditi del Gran Can fanno festa il giorno della natività di esso signore, qual nacque alli ventiotto della luna del mese di settembre; et in quel giorno si fa la maggior festa che si faccia in tutto l’anno, eccetto il primo giorno del suo anno, nel qual si fa un’altra festa, come di sotto si dirà. [2] Nel giorno adunque della sua natività, il Gran Can si veste un nobil drappo d’oro, et ben circa ventimila baroni et soldati si vestono d’un colore et d’una maniera simile a quella del Gran Can: non che siano drappi di tanto prezzo, ma sono d’un medesimo color d’oro et di seda, et insieme con la veste a tutti vien data una cintura di camoscia lavorata a fila d’oro et d’argento molto sottilmente, et un paro |27r| di calze, et ne sono alcune delle vesti che hanno pietre preciose et perle per la valuta piú che di mille bisanti d’oro, come sono quelle delli baroni che per fideltà sono prossimi al signor, et si chiamano “quiecitari”; et queste tali veste sono deputate solamente in feste tredeci solenni, le quali fanno i Tartari con gran solennità secondo tredeci lune dell’anno, di maniera che, come sono vestiti et adornati sí riccamente, parono tutti re. [3] Et quando il signore si veste alcuna vesta, questi baroni similmente si vestono d’una del medesimo colore, ma quelle del signore sono di maggior valuta et piú preciosamente ornate; et dette vesti d’i baroni di continuo sono apparecchiate: non che se ne facciano ogni anno, anzi durano dieci anni, et piú et manco. [4] Et di qui si comprende la grande eccellenza del Gran Can, conciosiacosaché in tutto ’l mondo non si troverà principe alcuno che possi far tante cose quanto egli fa. [5] In questo giorno della natività del detto signore tutti i Tartari del mondo et tutte le provincie et regni a lui sottoposti li mandano grandissimi doni, secondo che è l’usanza et l’ordine, et vengono assaissimi huomini con presenti, che pretendono impetrare gratia di qualche dominio: et il gran signore ordina alli dodici baroni sopra di ciò deputati che diano dominio et reggimento a questi tali huomini, secondo che a loro si conviene. [6] Et in questo giorno tutti i christiani, idolatri et Sarraceni et tutte le sorti di genti pregano grandemente i loro iddii et idoli che salvino et custodiscono il loro signore, et a lui concedino lunga vita, sanità et allegrezza. [7] Tale et tanta è l’allegrezza in quel giorno della natività del signore. [8] Hor, lasciando questa, diremo d’una altra festa che si fa in capo dell’anno, chiamata la festa bianca.

12

[0] Cap. 12.

[1] Certa cosa è che li Tartari cominciano l’anno del mese di febraio, et il Gran Can et tutti quelli che a lui sono sottoposti per le loro contrade celebrano tal festa, nella qual è consuetudine che tutti si vestino di vesti bianche, perché li pare che la vesta bianca significhi buon augurio: et però nel principio dell’anno si vestono di tal sorte vesti, acciò che tutto l’anno gli intravenga bene et habbino allegrezza et sollazzo. [2] Et in questo dí tutte le genti, provincie et regni che hanno terre et dominio del Gran Can li mandano grandissimi doni d’oro et d’argento et molte pietre preciose et molti drappi bianchi, il che fanno loro acciò che il signore habbia tutto l’anno allegrezza et gaudio et thesoro a sufficienza da spendere; et similmente i baroni, principi et cavalieri et popoli si presentano l’un l’altro cose bianche per le sue terre, et abbracciansi l’un l’altro et fanno grande allegrezza et festa, dicendosi l’un l’altro (come anchora si dice appresso di noi): «In questo anno vi sia in buon augurio, et vi intravenga bene ogni cosa che farete»: et ciò fanno acciò che tutto l’anno le cose loro succedano prosperamente. [3] Presentasi al Gran Can in questo giorno gran quantità di cavalli bianchi molto belli, et se non sono bianchi per tutto sono almanco bianchi per la maggior parte; et trovansi in quei paesi assaissimi cavalli bianchi. [4] Adunque è consuetudine appresso di loro, nel far d’i presenti al Gran Cane, che tutte le provincie che lo possono far osservino questo modo, che di ciascuno presente nove volte nove presentano nove capi, cioè, se gli è una provincia che manda cavalli, presenta nove volte nove capi di cavalli, cioè ottantauno; se presenta oro, nove volte manda nove pezzi d’oro; se drappi, nove volte nove pezze di drappi; et cosí di tutte l’altre cose, di sorte che alle volte haverà per questo conto centomila cavalli. [5] Item in quel giorno vengono tutti gli elefanti del signore, che sono da cinquemila, coperti di drappi artificiosamente et riccamente lavorati d’oro et di seda, con uccelli et bestie intessuti, et ciascuno ha sopra le spalle duoi scrigni, pieni di vasi et fornimenti per quella corte. [6] Vengono dipoi molti camelli coperti di drappo di seda, carichi delle cose per la corte necessarii, et tutti cosí adornati passano davanti al gran signore, il che è bellissima cosa a vedere. [7] Et la mattina di questa festa, prima che apparecchino le tavole tutti i re, duchi, marchesi, conti, baroni et cavalieri, astrologhi, medici et falconieri, et molti altri che hanno ufficii, et rettori delle genti, delle terre et delli esserciti entrano nella sala principal avanti il gran signore, et quelli che star non vi possono stanno fuor del palazzo, in tal luogo che ’l signor gli vede benissimo. [8] Et tutti sono ordinati in questo modo: primieramente sono i suoi figliuoli et nepoti et tutti della pro|27v|genie imperiale; doppo questi sono i re, doppo i re i duchi, et dipoi tutti gli ordini, un doppo l’altro, come è conveniente. [9] Et quando tutti sono posti alli luoghi debiti, allhora un grande huomo, come sarebbe a dire un gran prelato, levandosi dice ad alta voce: «Inchinatevi et adorate», et subito tutti s’inchinano et abbassano la fronte verso la terra. [10] Allhora dice il prelato: «Dio salvi et custodisca il nostro signore per lungo tempo con allegrezza et letitia», et tutti rispondono: «Iddio lo faccia». [11] Et dice un’altra volta il prelato: «Dio accrescha et moltiplichi l’imperio suo di bene in meglio, et conservi tutta la gente a lui sottoposta in tranquilla pace et buona volontà, et in tutte le sue terre succedino tutte le cose prospere», et tutti respondono: «Iddio lo faccia». [12] Et in questo modo adorano quattro volte. [13] Fatto questo, detto prelato va ad un altare che ivi è, riccamente adornato, sopra il qual è una tavola rossa nella qual è scritto il nome del Gran Can, et vi è il thuribulo con l’incenso, et il prelato in vece di tutti incensa quella tavola et l’altare con gran riverenza, et allhora tutti reveriscono grandemente la detta tavola dell’altare. [14] Il che fatto, tutti ritornano alli luoghi suoi, et allhora si presentano i doni che habbiamo detto; et quando sono fatti i presenti et che il gran signore ha veduto ogni cosa, s’apparecchiano le tavole et le genti sentano a tavola, al modo et ordine detto negl’altri capitoli, cosí le donne come gli huomini. [15] Et quando hanno mangiato vengono li musici et buffoni alla corte, sollazzando, come di sopra si è detto, et si mena alla presenza del signor un leone, ch’è tanto mansueto che subito si pone a giacer alli piedi di quello; et quando tutto ciò è fatto, ognun va a casa sua.

13

[0] Della quantità degli animali del Gran Can, che fa pigliar il mese di dicembre, gennaro et febraro et portar alla corte. Cap. 13.

[1] Mentre il Gran Can dimora nella città del Cataio tre mesi, cioè dicembre, gennaro et febraro, ne’ quali è il gran freddo, ha ordinato per il spatio di quaranta giornate, a torno a torno il luogo dove egli è, che tutte le genti debbano andare a caccia, et gli rettori delle terre debbino mandare alla corte tutte le bestie grosse, cioè cingiali, cervi, daini, caprioli, orsi. [2] Et tengono questo modo in prenderle: ciascuno signore della provincia fa venire con esso lui tutti i cacciatori del paese, et vanno ovunque si siano le bestie serrandole a torno, et quelle con li cani et il piú con le frezze uccidono, et a quelle bestie che vogliono mandare al signore fanno cavar le interiora, et poi le mandano sopra carri. [3] Et ciò fanno quelli che sono lontani trenta giornate in grandissima quantità; quelli veramente che sono distanti quaranta giornate, per essere troppo lontani, non mandano le carni, ma solamente le pelli acconcie et altre che non sono acconcie, acciò che il signor possa far fare le cose necessarie, cioè per conto dell’arme et esserciti.

14

[0] Delli leonpardi, lupi cervieri et leoni assuefatti a pigliar degl’animali, et dell’aquile che pigliano lupi. Cap. 14.

[1] Il Gran Can ha molti leonpardi et lupi cervieri usati alla caccia, che prendono le bestie, et similmente molti leoni che sono maggiori de’ leoni di Babilonia, et hanno bel pelo et di bel colore, perché sono vergati per il lungo di verghe bianche, nere et rosse, et sono habili a prender cingiali, buoi et asini salvatici, orsi et cervi et caprioli et molte altre fiere: et è cosa molta maravigliosa a vedere, quando un leone prende simili animali, con quanta ferocità et prestezza fa questo effetto; quali leoni il signor fa portar nelle gabbie sopra i carri, et con quelli un cagnolino con il qual si domesticano. [2] Et la cagione perché si conduchino nelle gabbie è perché sarebbono troppo furiosi et rabbiosi nel correre alle bestie né si potriano tenere, et bisogna che li siano menati a contrario di vento, perché, se le bestie sentissero l’odor di quelli, subito fuggirebbono et non gli aspettariano. [3] Ha il Gran Can anchora aquile atte a prender lupi, volpi, caprioli et daini: et di quelli ne prendono molti; ma quelle che sono assuefatte a prendere lupi sono grandissime et di gran forza, imperoché non è lupo cosí grande che da quelle possa campar che non sia preso.

15

[0] Di duoi fratelli che sono capitani della caccia del Gran Can, con diecimila huomini per uno et con cinquemila cani. Cap. 15.

[1] Il gran signore ha duoi fratelli, che sono germani fratelli, uno de’ quali si chiama Bayan et l’altro Mingan, et chiamansi “ciuici” in lingua tartaresca, cioè “signori della caccia”, et tengono i cani da caccia et da paisa, da lepori et mastini; et ciascun di questi fratelli ha diecimila huomini sotto di sé, et gli huomini che sono sottoposti ad uno di questi vanno vestiti |28r| di rosso, et li sottoposti all’altro di turchino celeste: et ogni volta che vanno alla caccia portano queste vesti, et menano seco cani segusii, levrieri et mastini sino al numero di cinquemila, perché sono pochi che non habbino cani. [2] Et sempre uno di questi fratelli con li suoi diecimila va alla destra del signore, et l’altro alla sinistra con li suoi diecimila, et vanno l’un presso all’altro con le schiere in ordinanza, sí che occupano ben una giornata di paese: per il che non vi è bestia che da loro non sia presa. [3] Et è una bella cosa et molto dilettevole a vedere il modo d’i cacciatori et delli cani, imperoché, mentre ch’il Gran Can va in mezzo cacciando, si veggono questi cani seguitar cervi, orsi et altre bestie da ogni banda. [4] Et questi duoi fratelli sono obligati per patto dare alla corte del Gran Can ogni giorno, cominciando del mese d’ottobre sino per tutto il mese di marzo, mille capi tra bestie et uccelli, eccetto quaglie, et anchora pesci, secondo che meglio possono, computando tanta quantità di pesce per un capo quanto potrebbono tre persone sufficientemente mangiare ad uno pasto.

16

][0] Del modo che va il Gran Can a veder volare li suoi girifalchi et falconi, et delli falconieri; et della sorte d’i suoi padiglioni, che sono fodrati di armellini et zibellini. Cap. 16.

[1] Quando il gran signore è stato tre mesi nella sopradetta città, cioè dicembre, gennaro et febraro, indi partendosi il mese di marzo va verso greco al mare Oceano, il quale da lí è discosto per due giornate; et con lui cavalcano ben diecimila falconieri, i quali portano con loro gran moltitudine di girifalchi, falconi pellegrini et sacri et gran quantità di astorri, per conto d’uccellare per le riviere. [2] Ma non crediate che il Gran Can li ritenga seco in un medesimo luogho, anzi si dividono in molte parti, cioè in cento et dugento et piú per parte, i quali vanno uccellando: et la maggior parte della loro cacciagione portano al gran signor, il qual, quando va ad uccellare con li suoi girifalchi et altri uccelli, ha ben seco diecimila persone, che si chiamano “toscaol”, cioè “huomini che stanno alla custodia”, perché sono deputati tutti a duoi a duoi, qua et là per qualche spatio, una parte discosta dall’altra, talmente che occupano gran parte del paese, et ciascuno ha un richiamo et un cappelletto per chiamare et tenere gli uccelli. [3] Et quando il gran signor comanda che si gettino gli uccelli, non accade che quelli che li gettano habbino a seguitarli, perché li sopradetti guardiani cosí bene li custodiscono che non volano in parte alcuna che non siano presi, et se bisogna soccorrerli subito li guardiani gli soccorrono. [4] Et tutti gli uccelli del Gran Can et degli altri baroni hanno una picciola tavoletta d’argento legata alli piedi, nella quale è scritto il nome di colui di chi è l’uccello et chi l’ha in governo: et per questo modo, subito che l’uccello è preso, si conosce immediate di chi egli è et ritornasegli, et se non si sa, o vero perché quello che l’ha preso non lo conosce personalmente, anchor che sappia il nome, allhora si porta a un barone nominato “bulangazi”, che vuol dire “custode delle cose delle quali non appare il padrone”. [5] Perché, s’egli si trovasse alcun cavallo o vero spada over uccello o qualche altra cosa, et non fosse denunciata di chi se sia, subito si porta al detto barone, il quale lo toglie et fallo custodire diligentemente: et se alcuno trova qualche cosa che sia persa et non la porti al barone, è reputato ladro. [6] Et tutti quelli che perdono cosa alcuna vanno da questo barone, il qual gli fa restituire le cose perdute; et questo barone sempre dimora in luogo piú alto di tutto l’essercito con la sua bandiera a questo effetto, acciò che quelli che hanno perso le loro cose lo possino veder chiaramente tra gl’altri. [7] Et in questo modo non si perde cosa alcuna che non si possa recuperare. [8] Oltre di ciò, quando il Gran Can va a questa via presso al mare Oceano, allhora si veggono molte cose belle in prendere gli uccelli, di modo che non è sollazzo al mondo che a questo possa aguagliarsi. [9] Et il Gran Can sempre va sopra duoi elefanti, o vero uno, specialmente quando va ad uccellare, per la strettezza d’i passi che si trovano in alcuni luoghi, imperoché meglio passano duoi o vero uno che molti; ma nell’altre sue faccende va sopra quattro, et sopra quelli vi è una camera di legno nobilmente lavorata, et dentro tutta coperta di panni d’oro et di fuori coperta di cuori di leoni, nella qual dimora continuamente il Gran Can quando va ad uccellare, per essere molestato dalle gotte. [10] Et tiene nella detta camera dodici d’i migliori girifalchi che egli habbia, con dodici baroni suoi favoriti per sua compagnia et sollazzo. [11] Et gli altri che cavalcano d’intorno fanno intendere al signor che passano le grue o altri uccelli, et egli fa levar il coperchio di sopra della camera e, vedute le grue, comanda che si lascino volare li girifalchi, li quali prendono le grue combattendo con quelle per gran spatio di tempo, vedendo il signor et stando nel letto, con |28v| grandissimo suo sollazzo et consolatione, et cosí di tutti gli altri baroni et cavalieri che cavalcano d’intorno. [12] Et quando ha uccellato per alquante hore, se ne viene ad un luogo chiamato Caczarmodin, dove sono le trabacche et i padiglioni delli suoi figliuoli et d’altri baroni, cavalieri et falconieri, che passano diecimila, molto belli. [13] Il padiglione veramente del signore, nel quale tiene la sua corte, è tanto grande et amplo che sotto vi stanno diecimila soldati, oltre li baroni et altri signori; ha la porta verso mezzodí; vi è anchora una altra tenda verso levante, a questa congiunta, dove è una gran sala dove stantia il signore con alcuni suoi baroni, et quando vuol parlare ad alcuno lo fa entrare in quella. [14] Doppo la detta sala è una camera grande, molto bella, nella qual dorme. [15] Sonvi molte altre tende et camere, ma non sono insieme congiunte con le grandi. [16] Et tutte le sopradette camere et sale sono ordinate in questo modo, che ciascuna ha tre colonne di legno intagliate con grandissimo artificio et indorate. [17] Et detti padiglioni et tende di fuori sono coperte di pelli di leoni, et vergate di verghe bianche, nere et rosse, et cosí ben ordinate che né vento né pioggia li può nuocere; et dalla parte di dentro sono fodrate et coperte di pelli armelline et zebelline, che sono le pelli di maggior valuta di qualunche altra pelle, perché la pelle zibellina, se la è tanta che sia a bastanza per un paro di veste, vale duoimila bisanti d’oro se la è perfetta, ma se ella è commune ne vale mille; et li Tartari la chiamano regina delle pelli, et gl’animali si chiamano “rondes”, della grandezza d’una fuina. [18] Et di queste due sorti di pelle le sale del signor sono cosí maestrevolmente ordinate, in varie divisioni, che è una cosa mirabile a vedere; et la camera dove dorme, che è congiunta alle due sale, è similmente dalla parte di fuori coperta di pelli di leoni, et di dentro di pelli zebelline et armelline divisate; et le corde che tengono le tende delle sale et camere sono tutte di seda. [19] Et a torno queste sono tutte l’altre tende delle mogli del signore, molto ricche et belle, le quali hanno girifalchi, falconi et altri uccelli et bestie, et vanno anchora loro a piacere. [20] Et sappiate per certo che in questo campo è tanta moltitudine di gente che gli è cosa incredibile, et a ciascuno pare essere nella miglior città che sia in queste parti, perché ivi sono genti di tutto il dominio, et con il signor vi è tutta la sua famiglia, cioè medici, astronomi, falconieri et tutti gli altri che hanno diversi officii. [21] Et sta in questo luogo fino alla prima vigilia della nostra Pasqua, nel qual spatio di tempo non cessa di andare continuamente presso alli laghi et riviere, uccellando et prendendo grue et cigni, argironi et molti altri uccelli; le sue genti anchora, che sono sparse per molti luoghi, li portano molte cacciagioni. [22] In questo tempo adunque sta in tanto sollazzo et allegrezza che nessuno lo potria credere che non lo vedesse, però che la sua eccellenza et grandezza è molto maggiore di quello che a noi saria possibile di esprimere. [23] Una altra cosa è anchora ordinata, che nessuno mercatante o artefice o villano habbia ardire di ritenere astorre, falcone over altro uccello che sia atto ad uccellare, né cane da caccia, per tutto il dominio del Gran Can; et nessuno barone o cavalier od altro nobile qualsivoglia ardisce di cacciare o uccellare circa il luogo dove dimora il Gran Can, d’alcuna parte per cinque giornate et d’alcuna parte per dieci et d’alcuna altra per quindeci, se ’l non è scritto sotto il capitano d’i falconieri, o vero habbia privilegio sopra queste cose, ma ben fuor delli confini determinati. [24] Item per tutte le terre le quali signoreggia il Gran Cane nessuno re o vero barone o altro huomo ardisce di pigliare lepori, caprioli, daini o cervi et simili bestie et uccelli grossi dal mese di marzo fino al mese d’ottobrio, acciò che creschino et moltiplichino: et chi contrafacesse verrebbe punito. [25] Et per questa causa moltiplicano gli animali et uccelli in grandissima quantità. [26] Et poi il Gran Can se ne ritorna alla città di Cambalú, per quella medesima via che ei fu alla campagna, uccellando et cacciando.

17

[0] Della moltitudine delle genti che di continuo vanno et vengono alla città di Cambalú, et mercantie di diverse sorti. Cap. 17.

[1] Giunto il Gran Can nella città, tien la sua corte grande et ricca per tre giorni, et fa festa et grandissima allegrezza con tutta la sua gente che è stata seco; et la solennità che egli fa in questi tre giorni è cosa mirabile a vedere. [2] Et evvi tanta moltitudine di gente et di case nella città et di fuori (perché vi sono tanti borghi come porte, che sono dodici, molto grandi) che niuno potria comprendere il numero, però che sono piú genti nelli borghi che nella città. [3] Et in questi borghi stanno et alloggiano li mercatanti, et altri huomini che vanno là per sue faccende, i quali sono molti, per causa della residentia del signore: et dovunque egli tiene |29r| la sua corte, là vengono le genti da ogni banda, per diverse cagioni. [4] Et nelli borghi sono belle case et palazzi come nella città, eccetto il palazzo del Gran Can. [5] Et nessuno che muore è sepelito nella città, ma s’egli è idolatra è portato al luogo dove si dee brusciare, il qual è fuor di tutti i borghi; et parimente nessuno maleficio si fa nella città, ma solamente fuor delli borghi. [6] Item nessuna meretrice (salvo se non è secreta), come altre volte si è detto, ha ardimento di star nella città, ma tutte habitano ne’ borghi, et passano venticinquemila, che servono gli huomini per danari: nondimeno tutte sono necessarie, per la gran moltitudine delli mercatanti et altri forestieri che là vanno et vengono di continuo per la corte. [7] Item a questa città si portano le piú care cose et di maggior valuta che siano in tutto il mondo, però che primamente dall’India si portano pietre preciose et perle et tutte le speciarie; item tutte le cose di valuta della provincia del Cataio et che sono in tutte le altre provincie, et questo per la moltitudine della gente che ivi dimora di continuo per causa della corte: et quivi si vendono piú mercantie che in alcuna altra città, perché ogni giorno v’entrano piú di mille fra carrette et some di seda, et si lavorano panni d’oro et di seda in grandissima quantità. [8] Et intorno a questa città vi sono infinite castella et altre città, le genti delle quali vivono per la maggior parte, quando ivi è la corte, vendendo le cose necessarie alla città et comprando quelle che a loro fa di bisogno.

18

[0] Della sorte della moneta di carta che fa fare il Gran Can, qual corre per tutto il suo dominio. Cap. 18.

[1] In questa città di Cambalú è la zecca del Gran Can, il quale veramente ha l’alchimia, però che fa fare la moneta in questo modo: egli fa pigliare i scorzi degli arbori mori, le foglie de’ quali mangiano i vermicelli che producono la seda, et tolgono quelle scorze sottili che sono tra la scorza grossa et il fusto dell’arbore, et le tritano et pestono, et poi con colla le riducono in forma di carta bombacina, et tutte sono nere; et quando son fatte le fa tagliare in parti grandi et picciole, et sono forme di moneta quadra, et piú longhe che larghe. [2] Ne fa adunque fare una picciola che vale un dinaro d’un picciolo tornese, et l’altra d’un grosso di argento venetiano; una altra è di valuta di duoi grossi, un’altra di cinque, di dieci, et altra d’un bisante, altra di duoi, altra di tre, et cosí si procede sino al numero di dieci bisanti. [3] Et tutte queste carte o vero monete sono fatte con tanta auttorità et solennità come se elle fossero d’oro o d’argento puro, perché in ciascuna moneta molti officiali che a questo sono deputati vi scrivono il lor nome, ponendovi ciascuno il suo segno; et quando del tutto è fatta come la dee essere, il capo di quelli per il signor deputato imbratta di cinaprio la bolla concessagli et improntala sopra la moneta, sí che la forma della bolla tinta nel cinaprio vi rimane impressa: et allhora quella moneta è auttentica, et se alcuno la falsificasse sarebbe punito dell’ultimo supplicio. [4] Et di queste carte o vero monete ne fa far gran quantità, et falle spendere per tutte le provincie et regni suoi, né alcuno le può rifiutare, sotto pena della vita; et tutti quelli che sono sottoposti al suo imperio le tolgono molto volentieri in pagamento, perché dovunque vanno con quelle fanno i suoi pagamenti di qualunque mercantia di perle, pietre preciose, oro et argento, et tutte queste cose possono trovare con il pagamento di quelle. [5] Et piú volte all’anno vengono insieme molti mercatanti con perle et pietre preciose, con oro et argento et con panni d’oro et di seta, et il tutto presentano al gran signore, qual fa chiamare dodici savii, eletti sopra di queste cose et molto discreti ad essercitar questo officio, et li comanda che tansar debbano molto diligentemente le cose che hanno portato li mercatanti, et per la valuta le debbono far pagare. [6] Essi, stimate che l’hanno secondo la lor conscientia, immediate con vantaggio le fanno pagare con quelle carte, et li mercatanti le tolgono volentieri, perché con quelle (come si è detto) fanno ciascuno pagamento; et se sono di qualche regione ove queste carte non si spendono, le investono in altre mercantie buone per le lor terre. [7] Et ogni volta che alcuno haverà di queste carte che si guastino per la troppo vecchiezza, le portano alla zecca, et sonli date altretante nuove, perdendo solamente tre per cento. [8] Item, se alcuno vuole havere oro o argento per far vasi o cinture o altri lavori, va alla zecca del signore, et in pagamento del’oro et del’argento li porta queste carte; et tutti li suoi esserciti vengono pagati con questa sorte di moneta, della qual loro si vagliono come s’ella fosse d’oro o d’argento: et per questa causa si può certamente affermare che il Gran Can ha piú thesoro che alcun altro signor del mondo.

19

[0] |29v| Di dodici baroni deputati sopra gli esserciti, et di dodici altri deputati sopra la provisione de l’altre universali facende. Cap. 19.

[1] Il Gran Can elegge dodici grandi et potenti baroni (come di sopra si è detto) sopra qualunque deliberation che si fa degli esserciti, cioè di mutarli dal luogo dove sono et mutare i capitani, o vero mandargli dove veggono esser necessario, et di quella quantità di gente che ’l bisogno ricerca, et piú et manco, secondo l’importanza della guerra. [2] Oltre di ciò, hanno a far la scelta di valenti et franchi combattenti da quelli che sono vili et abietti, essaltandoli a maggior grado, et per il contrario deprimendo quelli che sono da poco et paurosi. [3] Et se alcuno è capitano di mille, et habbisi portato vilmente in qualche fattione, i baroni predetti, reputandolo indegno di quella capitaneria, lo disgradano et abbassano al capitaneato di cento; ma se nobilmente et francamente si sarà portato, riputandolo sufficiente et degno di maggior grado, lo fanno capitano di diecimila: ogni cosa però facendo con saputa del gran signore, però che, quando vogliono deprimere et abbassare alcuno, dicono al signore: «Il tale è indegno di tal honore», et egli allhora risponde: «Sia depresso et fatto di grado inferiore», et cosí è fatto. [4] Ma se vogliono essaltare alcuno, cosí ricercando i meriti suoi, dicono: «Il tal capitano di mille è degno et sufficiente di essere capitano di diecimila», et il signor lo conferma, et dàlli la tavola del comandamento a tal signoria convenevole, come di sopra si è detto, et appresso gli fa dare grandissimi presenti, per inanimire gli altri a farsi valenti. [5] La signoria adunque d’i detti dodici baroni si chiama “thai”, che tanto è a dire come “corte maggiore”, perché non hanno signor alcun sopra di sé salvo che ’l Gran Can; et oltra i sopradetti son constituiti dodici altri baroni sopra tutte le cose che sono necessarie a trentaquattro provincie, quali hanno nella città di Cambalú un bel palazzo et grande, con molte camere et sale. [6] Et ciascuna provincia ha un giudice et molti nodari, che stantiano in detto palazzo separatamente, et quivi fanno ogni cosa necessaria alla sua provincia, secondo la volontà et comandamento de’ detti dodici baroni. [7] Questi hanno auttorità di eleggere signori et rettori di tutte le provincie di sopra nominate, et quando hanno eletto quelli che li paiono sufficienti lo fanno sapere al Gran Can, et egli li conferma et dàlli le tavole d’argento o di oro, secondo che li pare a ciascuno esser conveniente. [8] Hanno anchora questi a provedere sopra le exattioni di tributi et intrade, et circa il governo et dispensatione di quelle, et sopra tutte le altre faccende del Gran Can, eccetto che sopra gli esserciti. [9] Et l’officio o vero signoria loro chiamasi “singh”, che vuol dire quanto “seconda maggior corte”, perché similmente non hanno sopra di loro signore, eccetto che ’l Gran Can. [10] L’una et l’altra adunque delle dette corti, cioè di singh et di thai, non hanno alcun signore sopra di loro, eccetto che ’l Gran Can; nondimeno thai, cioè la corte deputata alla dispositione degli esserciti, è riputata piú nobile et piú degna di qualunque altra signoria.

20

[0] Delli luoghi deputati sopra tutte le strade maestre, dove tengono cavalli per correre le poste, et d’i corrieri che vanno a piede, et del modo che ’l tiene a mantenere tutta la spesa delle dette poste. Cap. 20.

[1] Uscendo della città di Cambalú, vi sono molte strade et vie per le quali si va a diverse provincie, et in ciascuna strada, dico di quelle che sono le piú principali et maestre, sempre, in capo di venticinque miglia o trenta, et piú et manco secondo le distantie delle città, si trovano alloggiamenti che nella lor lingua si chiamano “lamb”, che nella nostra vuol dire “poste di cavalli”, dove sono palazzi grandi et belli, che hanno bellissime camere con letti forniti et paramenti di seta et tutte le cose condecenti a’ gran baroni. [2] Et in ciascuna di simil poste potrebbe un gran re honoratamente alloggiare, et gli vien provisto del tutto per le città o castelli vicini, et ad alcuni la corte vi provede. [3] Quivi sono di continuo apparecchiati quattrocento buon cavalli, et accioché tutti li nuntii et ambasciadori che vanno per le faccende del Gran Can possino dismontare quivi e, lasciati i cavalli stracchi, pigliarne di freschi. [4] Nelli luoghi veramente fuor di strada et montuosi, dove non sono villaggi et che le città siano lontane, il Gran Can ha ordinato che vi siano fatte le poste, o vero palazzi similmente forniti di tutti gli apparecchi, cioè di cavalli quattrocento per posta et di tutte l’altre cose necessarie come le sopradette, et vi manda genti che vi habitano et lavorino le terre et servino a esse poste. [5] Et vi si fanno d’i gran villaggi, et cosí gl’imbasciatori et nuncii del Gran Can vanno et vengono per tutte le provincie et regni et altre parti sottoposte al suo dominio |30r| con gran commodità et facilità: et questa è la maggior eccellenza et altezza che già mai havesse alcuno imperatore o re over altro huomo terreno, perché piú di dugentomila cavalli stanno in queste poste per le sue provincie, et piú de diecimila palazzi forniti di cosí ricchi apparecchi. [6] Et questo è sí mirabil cosa et di tanta valuta che a pena si potrebbe dire o scrivere. [7] Et se alcuno dubitasse come siano tante genti a far tante faccende et onde vivono, si risponde che tutti gl’idolatri et similmente Sarraceni tolgono ciascuno sei, otto et dieci mogli, pur che le possino far le spese, et generano infiniti figliuoli: et saranno molti huomini, de’ quali ciascuno haverà piú di trenta figliuoli, et tutti armati lo seguitano, et questo per causa delle molte mogli. [8] Ma appresso di noi non si ha se non una moglie, et se quella sarà sterile l’huomo finirà la sua vita con lei, né genera alcun figliuolo: et però non habbiamo tante genti come loro. [9] Et circa le vettovaglie, ne hanno a bastanza, perché usano per la maggior parte risi, panizzo et miglio, spetialmente Tartari, Cataini et della provincia Manzi, et queste tre semenze, nelle loro terre, per ciascuno staro ne rendono cento. [10] Non usano pane queste genti, ma solamente cuocono queste tre sorti de biade con il latte, o vero carni, et mangiano quelle; et il formento appresso di loro non moltiplica cosí, ma quello che ricogliono mangiano solamente in lasagne et altre vivande di pasta. [11] Appresso di loro non vi resta terra vacua che si possi lavorare, et i loro animali senza fine crescono et moltiplicano, et quando vanno in campo non è alcuno che non meni seco sei, otto et piú cavalli per la persona sua, onde si può chiaramente comprendere per che causa in quelle parti sia cosí gran moltitudine di genti, et che habbino da vivere cosí abondantemente. [12] Item fra il spatio di ciascuna delle sopradette poste è ordinato un casale ogni tre miglia, nel qual possono essere circa quaranta case, et piú et manco secondo che i casali son grandi, dove stanno corrieri a piede, i quali similmente sono nuntii del Gran Can. [13] Costoro portano intorno cinture piene di sonagli, accioché siano oditi dalla lunga, perché corrono solamente tre miglia, cioè dalla sua posta ad una altra; odendosi il strepito d’i sonagli, subitamente s’apparecchia un altro, et giunto piglia le lettere et corre fin all’altra posta, et cosí di luogo in luogo, di sorte che il Gran Can in due giorni et due notti ha nuove di lontano per dieci giornate. [14] Et al tempo d’i frutti spesse volte la mattina si raccolgono frutti nella città di Cambalú, et il giorno sequente verso sera sono portati al Gran Can nella città di Xandú, la qual è discosto per dieci giornate. [15] In ciascuna di queste poste di tre miglia è deputato un notaio, che nota il giorno et l’hora che giugne il corriero, et similmente il giorno et l’hora che si parte l’altro, et cosí si fa in tutte le poste. [16] Et vi sono alcuni che hanno questo carico, di andare ogni mese ad essaminar tutte queste poste, et veder quelli corrieri che non hanno usato diligenza, et li castigano. [17] Et il Gran Can da questi tali corrieri et da quelli che stanno nelle poste non fa pagare alcuno tributo, anzi li dona buona provisione, et nelli cavalli che si tengono in dette poste non fa quasi alcuna spesa, perché le città, castelli et ville che sono circonstanti ad esse poste li pongono et mantengono in quelle, però che, di comandamento del signore, i rettori della città fanno cercare et essaminar per li pratichi delle città quanti cavalli possa tenere la città nella posta a sé propinqua, et quanti ve ne possono tenere i castelli et quanti le ville, et secondo il loro potere ve li pongono. [18] Et sono le città concordevoli l’una con l’altra, perché fra una posta et l’altra v’è alle volte una città, la qual con l’altre vi pone la sua portione; et queste città mantengono i cavalli dell’entrate che doverrebbono pervenire al Gran Can, imperoché tal huomo doverrebbe pagare tanto che potria tenere un cavallo et mezzo, comandandosegli che quello tenga nella posta a sé propinqua. [19] Ma dovete sapere che le città non mantengono di continuo quattrocento cavalli nelle poste, anzi ne tengono dugento al mese che sostenghino le fatiche, et in questo mezzo altri dugento ne ingrassano, et in capo del mese gli ingrassati si pongono nella posta et gl’altri similmente s’ingrassano, et cosí vanno faccendo di continuo. [20] Ma se gli accade che in alcun luogo sia qualche fiume o lago, per il qual bisogni che i corrieri et quelli a cavallo vi passino, le città propinque tengono tre et quattro navilii apparecchiati di continuo a questo effetto, et se ’l bisogna passar alcun diserto di molte giornate, nel qual far non si possa habitatione alcuna, la città che è appresso tal diserto è tenuta a dar li cavalli agli imbasciatori del signore fino oltre il diserto, et le vettovaglie con le scorte, ma il signor dà aiuto a quella città. [21] Et nelle poste che son fuor di strada il signor tiene in parte suoi cavalli, et in parte ve gli tengono le città, castella, ville lí propinque. [22] Ma quando è di |30v| bisogno che i nuntii del signor affrettino il cammino, per causa di fargli intendere di qualche terra che se gli sia ribellata, o per alcun barone o altre cose necessarie, cavalcano in un giorno ben dugento miglia o dugentocinquanta, et fanno cosí, quando vogliono andare con grandissima celerità: portano la tavola del girifalco, in segno che andar vogliono velocissimamente; se son due, et che si partono d’un medesmo luogo, quando sono sopra duoi buoni cavalli corsieri si cingono tutto il ventre et si rivolgono il capo, et si mettono a correr quanto piú possono, et come sono appresso gli alloggiamenti suonano una sorte di corno che si sente di lontano, acciò che preparino i cavalli, quali trovati freschi et riposati, saltano sopra quelli: et cosí fanno di posta in posta sino a sera, et in tal guisa potranno far in un giorno da dugentocinquanta miglia. [23] Et se egli è caso molto grave cavalcano la notte, et se non luce la luna quelli della posta gli vanno correndo avanti con lumiere sino all’altra posta; nondimeno i detti nuntii al tempo di notte non vanno con tanta celerità come di giorno, per rispetto di quelli che corrono a piedi con le lumiere, che non possono essere cosí presti. [24] Et molto s’apprezzano tal nuntii che possono sostenere una simil fatica di correre.

21

[0] Delle provisioni che il Gran Can fa in tutte le provincie in tempo di carestia o mortalità d’animali. Cap. 21.

[1] Il Gran Can manda sempre ogni anno suoi nuntii et proveditori per vedere se le sue genti hanno danno delle loro biade per difetto di tempo, cioè per cagione di tempesta o di molte pioggie et venti, o per cavallette, vermi o altre pestilentie. [2] Et se in alcuno luogo vi troveranno esser tal danno, il signore non fa scoder da quelle genti il solito tributo quell’anno, anzi le fa dare tanta biada d’i suoi granai quanto lor bisogna per mangiare et per seminare, conciosiacosaché, nei tempi della grande abondanza, il Gran Can fa comprare grandissima quantità di biade della sorte che loro adoperano, et le fa salvare nei granari che sono deputati in ciascuna provincia, et con gran diligentia le fa governar, che per tre et quattro anni non si guastano. [3] Et sempre vuole che li detti granari siano pieni, per proveder nei tempi di carestia; et quando in detti tempi egli fa vendere le sue biade a dinari, riceve di quattro misure da quelli che le comprano quanto se ne riceve di una misura dagl’altri che ne vendono. [4] Similmente fa proveder di bestie, che in qualche provincia per mortalità fossero perse, et gli fa dare delle sue, che egli ha per decima dell’altre provincie. [5] Et tutto il suo pensiero et intento principal è di giovar alle genti che sono sotto di lui, che possino viver, lavorare et moltiplicare i loro beni. [6] Ma vogliamo dire un’altra proprietà del Gran Can, che se per caso fortuito la saetta ferisse alcun greggie di pecore o montoni o altri animali di qualunque sorte, che fosse d’uno o piú persone, et sia il greggie quanto si voglia grande, il Gran Can non torrebbe per tre anni la decima. [7] Et parimente, se egli avviene che la saetta ferisca qualche nave piena di mercantie, lui non vuole alcuna rendita o portione da quella, perché reputa cattivo augurio quando la saetta percuote nei beni di alcuno; et dice il Gran Can: «Dio haveva in odio colui, però l’ha percosso di saetta», onde non vuole che tali beni da ira divina percossi entrino nel suo thesoro.

22

[0] Come il Gran Can fa piantare arbori appresso le strade maestre et principali, et come le fa tenere sempre acconcie. Cap. 22.

[1] Un’altra cosa bella et commoda fa fare il Gran Can, che appresso le strade maestre dall’uno et l’altro lato fa piantar arbori, quali siano della sorte che venghino grandi et alti, et discosti l’un dall’altro per due passa, accioché i viandanti possino discernere la dritta strada: il che è di grande aiuto et consolatione a quelli che camminano. [2] Fa piantare adunque sopra tutte le principali, pur che ’l luogo sia habile ad essere piantato; ma nei luoghi arenosi et deserti et nei monti sassosi, dove passano dette strade et non è possibile di piantarvegli, fa mettere altri segnali di pietre et colonne che dimostrano la strada. [3] Et ha alcuni baroni, che hanno il carico di ordinar che di continuo siano tenute acconcie. [4] Et oltre quanto di sopra si è detto degli arbori, il Gran Can piú volentieri gli fa piantar perché i suoi divinatori et astrologhi dicono che chi fa piantar arbori vive lungo tempo.

23

[0] Della sorte di vino che si fa nella provincia del Cataio, et delle pietre che abbruciano a modo di carboni. Cap. 23.

[1] La maggior parte della gente della provincia del Cataio beve questa sorte di vino: fanno una bevanda di riso et di molte speciarie mescolate insieme, et bevono questa bevanda |31r| o vero vino cosí bene et saporitamente che miglior non saperiano desiderare, et è chiaro et splendido et gustevole, et piú presto inebria d’ogni altro, per essere calidissimo. [2] Per tutta la provincia del Cataio si trova una sorte di pietre nere, le quali si cavano dai monti a modo di vena, che ardono et abbruciano come carboni, et tengono il fuoco molto meglio delle legne, et lo conservono tutta la notte, di sorte che ’l si trova la mattina. [3] Queste pietre non fanno fiamma, se non un poco in principio quando si accendono, come fanno i carboni, et stando cosí affocati rendono gran calore. [4] Per tutta la provincia si abbruciano queste pietre. [5] Vero è che hanno molte legne, ma tanta è la moltitudine delle genti, et stuffe et bagni che continuamente si scaldano, che le legne non potrebbono esser a bastanza, perché non è alcuno che almanco per tre volte la settimana non vada alla stuffa et facciasi bagni, et l’inverno ogni giorno, pur che far lo possino; et ciascuno nobile o ricco ha la sua stuffa in casa nella qual si lava, talmente che le legne non basterebbono a tanto abbruciamento. [6] Et di queste pietre si trovano in grandissima quantità, et costano poco.

24

[0] Della grande et mirabile liberalità che ’l Gran Can usa verso i poveri di Cambalú et altre genti che vengono alla sua corte. Cap. 24.

[1] Poi che habbiamo detto come il Gran Can fa far abondanza delle biade alle genti a lui sottoposte, hora diremo della gran charità et provisione ch’egli fa fare alle povere genti che sono nella città di Cambalú. [2] Come intende che qualche famiglia di persone honorate et da bene per qualche infortunio siano diventate povere, o per qualche infirmità non possino lavorare et non habbino modo di ricogliere sorte alcuna di biade, a queste tal famiglie ne fa dar tante che gli possino far le spese per tutto l’anno; et dette famiglie al tempo solito vanno agli ufficiali che sono deputati sopra tutte le spese che si fanno per il Gran Can, i quali dimorano in un palazzo a tal ufficio deputato, et ciascuna mostra un scritto di quanto gli fu dato per il vivere dell’anno passato, et secondo quello gli proveggono quell’anno. [3] Provedesi anchora del vestir loro, conciosiacosaché il Gran Can ha la decima di tutte le lane et sede et canave delle quali si possono far vesti, et queste tal cose le fa tessere et far panni, in una casa a questo deputata dove sono riposte; et perché tutte l’arti sono obligate per debito di lavorargli un giorno la settimana, il Gran Can fa far delle vesti di questi panni, quali fa dar alle sopradette famiglie di poveri, secondo si richiede al tempo dell’inverno et al tempo della estate. [4] Provede anchora di vestimenta a’ suoi esserciti, et in ciascuna città fa tessere panni di lana, quali si pagano della decima di quella. [5] Et è da sapere come i Tartari, secondo i loro primi costumi, avanti che conoscessino della legge idolatra, non facevano alcuna elemosina, anzi, quando alcun po vero andava da loro, lo scacciavano con villanie, dicendogli: «Va’ col malanno che Dio ti dia, perché s’ei ti amasse come ama me t’haveria fatto del bene». [6] Ma perché li savii degl’idolatri, et specialmente i sopradetti bachsi, proposero al Gran Can che egl’era buona opera la provisione de’ poveri, et che gli suoi idoli se ne rallegrarebbono grandemente, egli per tanto cosí providde alli poveri come di sopra è detto, et nella sua corte mai è negato il pan a chi lo viene a dimandare, et non è giorno che non siano dispensati et dati via vintimila scodelle fra risi, miglio et panizo per li deputati ufficiali. [7] Per questa mirabil et stupenda liberalità che ’l Gran Can usa verso i poveri, tutte le genti l’adorano come un dio.

25

[0] Degli astrologhi che sono nella città di Cambalú. Cap. 25.

[1] Sono adunque nella città di Cambalú, tra christiani, Sarraceni et Cataini, circa cinquemila astrologhi et divinatori, alli quali il Gran Can ogni anno fa provedere del vivere et del vestire come alli poveri sopradetti, i quali continuamente essercitano la lor arte nella città. [2] Hanno costoro un astrolabio, nel quale son scritti i segni de’ pianeti, l’hore et i punti di tutto l’anno. [3] Ogni anno adunque i sopradetti christiani, sarraceni et cataini astrologhi, cioè ciascuna setta da per sé, in questo astrolabio veggono il corso et la dispositione di tutto l’anno, secondo il corso di ciascuna luna, perché veggono et trovano che temperanza debbe esser dell’aere, secondo il natural corso et dispositione de’ pianeti et segni, et le proprietà che produrrà cadauna luna di quell’anno: cioè in tal luna saranno tuoni et tempesta, et nella tal terremuoti, et nella tal saette et baleni et molte pioggie, nella tal saranno infirmità, mortalità, guerre, discordie et insidie, et cosí di ciascuna luna, secondo che troveranno, diranno dover seguitare, aggiungendovi che Dio può far piú et manco, secondo la sua volontà. [4] Scriveranno adunque sopra alcuni quaderni piccioli quelle cose che hanno da |31v| venire in quello anno, et questi quaderni si chiamano tacuini, quali vendono un grosso l’uno a chi gli vuole comprare per sapere le cose future; et quelli che sono trovati haver detto piú il vero sono tenuti maestri piú perfetti nell’arte, et conseguiscono maggior honore. [5] Item, s’alcuno preporrà nell’animo di voler far qualche grande opera, o d’andar in qualche parte lontana per mercantie o qualche altra sua faccenda, et vorrà sapere il fine del negocio, anderà a trovare uno di questi astrologhi et li dirà: «Guardate sopra li vostri libri in che modo hor hora si ritrova il cielo, perch’io vorrei andare a far il tal negocio o mercantia». [6] L’astrologo li dirà che oltre questa domanda li debba dire l’anno, il mese et l’hora che nacque, il che dettoli vorrà veder come si confanno le constellationi della sua natività con quelle che nell’hora della dimanda si ritrova il cielo, et cosí li predice o bene o male che gli ha da venire, secondo la dispositione in che si troverà il cielo. [7] Et è da sapere che li Tartari numerano il millesimo dei loro anni di dodici in dodici, et il primo anno è significato per il Leone, il secondo per il Bue, il terzo per il Dragone, il quarto per il Cane, et cosí discorrendo degl’altri, procedendo sino al numero di dodici, di modo che, quando alcuno è dimandato quando nacque, egli risponde: correndo l’anno del Leone, in tal giorno o vero notte, et l’hora et il punto; et questo osservano li padri di far con diligenza sopra un libro. [8] Et compiti che si hanno i dodici segni, che vuole dire i dodici anni, allhora, ritornando al primo segno, ricominciano sempre per questo ordine procedendo.

26

[0] Della religione de’ Tartari, et delle opinioni che hanno dell’anima, et usanze loro. Cap. 26.

[1] Et come habbiamo detto di sopra, questi popoli sono idolatri, et per suoi dei tutti hanno una tavola posta alta nel pariete della sua camera, sopra la qual è scritto un nome che rappresenta Dio alto, celeste et sublime: et quivi ogni giorno con il thuribulo dell’incenso lo adorano in questo modo, che, levate le mani in alto, sbattono tre volte i denti, pregandolo che li dia buon intelletto et sanità, et altro non li dimandano. [2] Dapoi, giuso in terra, hanno una statua che si chiama Natigai, qual è dio delle cose terrene che nascono sopra tutta la terra, et li fanno una moglie et figliuoli, et l’adorano nell’istesso modo, con il thuribulo et sbattendo i denti et alzando le mani, et a questo li dimandano temperie dell’aere et frutti della terra, figliuoli et simil cose. [3] Dell’anima la tengono immortale, in questo modo, che, subito morto l’huomo, la entri in un altro corpo, et secondo che in vita si ha portato bene o male, di bene in meglio et di male in peggio procedano: cioè, se sarà pover huomo et si habbi portato bene et modestamente in vita, rinascerà dopo morto del ventre d’una gentildonna et sarà gentilhuomo, et poi del ventre d’una signora et sarà signor, et cosí sempre ascendendo, fin che ’l sarà assunto in Dio; ma se ’l si haverà portato male, essendo figliuol d’un gentilhuomo rinascerà figliuol d’un rustico, et d’un rustico in un cane, descendendo sempre a vita piú vile. [4] Hanno costoro un parlar ornato, salutano honestamente col volto allegro et giocondo, portansi nobilmente et con gran munditia mangiano. [5] Al padre et alla madre portano gran reverenza, et se si trova che alcun figliuolo faccia qualche dispiacere a quelli, o vero non li sovegna nelle loro necessità, vi è un ufficio publico che non ha altro carico se non di punir severamente li figliuoli ingrati, quali si sappino haver commesso alcun atto d’ingratitudine verso di quelli. [6] Li malfattori di diversi delitti che venghino presi et posti in prigione, se non sono spacciati, come vien il tempo determinato del Gran Can, ch’è ogni tre anni, di relassar i presonieri, allhora escono, ma gli viene fatto un segno sopra una massella, accioché siano conosciuti. [7] Devedò questo presente Gran Can tutti i giuochi et barattarie, che appresso di costoro si usavano piú che in alcun luogo del mondo, et per levarli da quelli li diceva: «Io vi ho acquistati con l’armi in mano, et tutto quello che possedete è mio, et se giuocate voi giuocate del mio». [8] Non però per questo li tolleva cosa alcuna. [9] Non voglio restar di dir l’ordine et modo come se portano le genti et baroni del Gran Can quando vanno a lui. [10] Primamente, appresso il luogo dove sarà il Gran Can, per mezzo miglio per riverenza di sua eccellenza stanno le genti humili, pacifiche et quiete, che alcun suono o rumore né voce di alcuno che cridi o parli altamente non si ode; et ciascun baron o nobil porta continuamente un vasetto picciolo et bello, nel qual sputa mentre ch’egli è in sala, perché niuno havrebbe ardire di sputar sopra la sala, et come ha sputato lo copre et salva. [11] Hanno similmente alcuni belli bolzachini di cuoro bianco quali portan seco, et giunti alla corte, se vorrano intrar in sala, che ’l signor li domandi, si calciano questi bolzachini bianchi et danno gli altri alli servitori, et questo per non imbrattar li belli et artificiosi tapedi di seda et d’oro et di altri colori.

27

[0] |32v| Del fiume Pulisangan et ponte sopra quello. Cap. 27.

[1] Poi che s’è compiuto di dir li governi et administrationi della provincia del Cataio et della città di Cambalú, et della magnificenza del Gran Can, si dirà delle altre regioni nelle qual messer Marco andò per le occorrentie dell’imperio del Gran Can. [2] Come si parte dalla città di Cambalú et che si ha camminato dieci miglia, si trova un fiume nominato Pulisangan, il quale entra nel mare Oceano, per il qual passano molte navi con grandissime mercantie. [3] Sopra detto fiume è un ponte di pietra molto bello, et forse in tutto il mondo non ve n’è un altro simile. [4] La sua lunghezza è trecento passa et la larghezza otto, di modo che per quello potriano commodamente cavalcare dieci huomini l’uno a lato all’altro. [5] Ha ventiquattro archi et venticinque pile in acqua che li sostengono, et è tutto di pietra serpentina, fatto con grande artificio. [6] Dall’una all’altra banda del ponte è un bel poggio di tavole di marmo et di colonne maestrevolmente ordinate, et nell’ascendere è alquanto piú largo che nella fine dell’ascesa, ma, poi che s’è asceso, trovasi uguale per lungo come se fosse tirato per linea. [7] Et in capo dell’ascesa del ponte è una grandissima colonna et alta, posta sopra una testuggine di marmo; appresso il piè della colonna è un gran leone, et sopra la colonna ve n’è un altro. [8] Verso l’ascesa del ponte è un’altra colonna molto bella, con un leone, discosta dalla prima per un passo et mezzo; et dall’una colonna all’altra è serrato di tavole di marmo, tutte lavorate a diverse scolture et incastrate nelle colonne da lí per lungo del ponte infino al fine. [9] Ciascadune colonne sono distanti l’una dall’altra per un passo et mezzo, et a ciascuna è sopraposto un leone, con tavole di marmo incastratevi dall’una all’altra, accioché non possino cadere coloro che passano: il che è bellissima cosa da vedere. [10] Et nella discesa del ponte è come nell’ascesa.

28

[0] Delle conditioni della città di Gouza. Cap. 28.

[1] Partendosi da questo ponte et andando per trenta miglia alla banda di ponente, trovando di continuo palazzi, vigne et campi fertilissimi, si trova una città nominata Gouza, molto bella et molto grande, nella qual sono molte abbacie di idoli, le cui genti vivono di mercantie et arti. [2] Ivi si lavorano panni d’oro et di seda et belli veli sottilissimi, et sonvi molti alloggiamenti per i viandanti. [3] Partendosi da questa città et andando per un miglio si trovano due vie, una delle quali va verso ponente, l’altra verso sirocco: per la via di ponente si va per la provincia del Cataio, per la via di sirocco alla provincia di Mangi. [4] Et sappiate che dalla città di Gouza fino al regno di Tainfu si cavalca per la provincia del Cataio dieci giornate, sempre trovando molte belle città et castella, fornite di grandi arti et mercantie, et trovando vigne et campi lavorati: et de qui si porta il vino nella provincia del Cataio, perché in quella non vi nasce vino; vi sono ancho molti alberi mori, che con la foglia sua gli habitanti fanno di gran seda. [5] Tutte quelle genti sono domestiche, per la moltitudine delle città poco discoste l’una dall’altra et frequentatione che fanno gli habitanti di quelle, perché sempre vi si trovano genti che passano, per le molte mercantie che si portano continuamente d’una città all’altra; et in cadauna di quelle si fanno le ferie. [6] Et in capo di cinque giornate delle predette dieci, dicono esservi una città piú bella et maggior dell’altre chiamata Achbaluch, fino alla quale verso quella parte confina il termine della cacciagione del signore, dove niuno ardisce di andar alla caccia, eccetto il signore con la sua famiglia et chi è scritto sotto il capitano de’ falconieri; ma da quel termine innanzi può andarvi, pur che sia nobile. [7] Nondimeno quasi mai il Gran Can non andava alla caccia per quella banda, per la qual cosa gli animali salvatichi erano tanto accresciuti et moltiplicati, et specialmente le lepori, che guastavano le biade di tutta la detta provincia; la qual cosa fatta intendere al Gran Can, v’andò con tutta la corte, et furon presi animali senza numero.

29

[0] Del regno di Tainfu. Cap. 29.

[1] Poi che s’è cavalcato dieci giornate partendosi da Gouza, trovasi un regno nominato Tainfu, et è capo di questa provincia, con una città che ha il medemo nome, la qual è grandissima et molto bella. [2] Et ivi si fanno gran mercantie et molte arti, et gran quantità di munitioni d’armi, che sono molto a proposito per gli esserciti del Gran Can. [3] Vi sono anchora molte vigne, dalle quali si raccoglie vino in grande abondanza; et benché in tutta Tainfu non si trovi altro vino da quello che nasce nel distretto di questa città, nondimeno si ha vino a |33r| bastanza per tutta la provincia. [4] Quivi hanno anchora frutti in abondanza, perché hanno molti morari et vermicelli che producono la seda.

30

[0] Della città di Pianfu. Cap. 30.

[1] Partendosi da Tainfu si cavalca sette giornate per ponente, trovando belle contrade, nelle quali si trovano molte città et castella, dove si fanno gran mercantie et arti. [2] Sonvi molti mercatanti che vanno per diverse parti, faccendo i loro guadagni et profitti. [3] Fatto il camino di sette giornate trovasi una città chiamata Pianfu, la qual è molto grande et molto pregiata; sono in quella molti mercatanti, et vivono di mercantie et d’arti. [4] Quivi nasce la seda in grandissima quantità. [5] Hor lasciaremo di questa, et diremo di un’altra grandissima città, nominata Cacianfu; ma prima diremo d’un nobile castello chiamato Thaigin.

31

[0] Di Thaigin castello. Cap. 31.

[1] Partendosi da Pianfu, andando verso ponente, si trova un grande et bel castello nominato Thaigin, qual dicesi haver edificato anticamente un re chiamato Dor. [2] In questo castello è un bellissimo et spatioso palazzo, nel quale è una sala grande dove sono dipinti tutti i re famosi che furono anticamente in quelle parti, il che è bellissima cosa da vedere. [3] Et di questo re nominato Dor diremo una cosa nuova che gl’intravenne. [4] Era costui potente et gran signore, et mentre stava nella terra non erano al servitio della persona sua altri che bellissime giovanette, delle quali teneva in corte gran moltitudine. [5] Quando egli andava a spasso per il castello sopra una carretta, le donzelle la menavano (e conducevasi leggiermente, per esser picciola), et facevano tutte le cose ch’erano a commodo et in piacere del detto re. [6] Et dimostrava egli la potentia sua nel suo governo, et si portava molto nobilmente et giustamente. [7] Era quel castello fortissimo oltra modo, et come referiscono le genti di quelle contrade, questo re Dor era sottoposto ad Umcan, ch’è quel che di sopra habbiam detto chiamarsi Prete Gianni, et per la sua arroganza et alterezza se ribellò a quello. [8] La qual cosa intesa da Umcan, non potendo andarli contra né offenderlo, per esser in luogo fortissimo, si doleva grandemente. [9] Dapoi certo tempo sette cavallieri suoi vassalli l’andorono a trovar, dicendoli che li bastava l’animo di condurli vivo il re Dor; ‹a’› qualli promise grandissime ricchezze. [10] Costoro partiti andarono a trovar il re Dor, fingendo di venir di lontani paesi, et alli servizii suoi si acconciorono, dove cosí bene et diligentemente lo servivano che ’l re Dor gli amava et havea carissimi, et voleva sempre che quando gl’andava alla caccia li fossero appresso. [11] Questi cavallieri un giorno, essendo fuori il re et havendo passato un fiume, et lassata il resto della compagnia dall’altra banda, vedendosi soli in luogo opportuno a fare il suo disegno, cavate fuori le spade furono intorno al re Dor et per forza lo condussero alla volta di Umcan, che alcun d’i suoi non lo poté mai aiutar. [12] Dove giunto, per ordine di quello, vestito di panni vili, fu posto al governo dell’armento del signor, per volerlo dispregiar et abbassar; et quivi stette in gran miseria per duoi anni, con grandissima guardia, che ’l non poteva fuggire. [13] Alla fine Umcan il fece condurre alla sua presenza, tutto pieno di paura et timore, pensando che lo volesse far morire; ma Umcan, fattali un’aspra et terribil ammonitione che mai piú per superbia et arroganza non volesse levarsi dalla obedienza sua, et li perdonò et fece vestirlo di vestimenti regali, et con honorevole compagnia lo mandò al suo regno; qual da indi innanzi fu sempre obediente et amico ad Umcan. [14] Et questo è quanto mi fu referito di questo re Dor.

32

[0] D’un grandissimo et nobil fiume detto Caramoran. Cap. 32.

[1] Partendosi da questo castello di Thaigin et andando circa venti miglia, si trova un fiume detto Caramoran, qual è cosí grande, largo et profondo che sopra di quello non si può fermar alcun ponte; et scorre questo fiume fino al mare Oceano, come di sotto si dirà. [2] Appresso a questo fiume sono molte città et castella, ne’ quali sono molti mercatanti et fanvisi molte mercantie; et intorno a questo fiume per la contrada nasce zenzero et seda in gran quantità, et evvi tanta moltitudine d’uccelli ch’egli è cosa incredibile, et massime di fagiani, che se ne ha tre per un grosso venetiano. [3] Per i luoghi circostanti di questo fiume nasce infinita quantità di canne grosse, alcune delle quali sono di un piè, altri di un piè et mezzo, et gli habitatori se ne vagliono in molte cose necessarie.

33

[0] Della città di Cacianfu. Cap. 33.

[1] Poi che s’è passato questo fiume et fatto il cammino di due giornate, trovasi la città di |33v| Cacianfu, le cui genti adorano gl’idoli. [2] In questa città si fanno gran mercantie et molte arti, et quivi nascono in grande abondanza, tra l’altre cose, seda, zenzero, galanga et spigo et molte altre sorti di speciarie, delle quali niuna quantità si conduce in queste nostre parti. [3] Ivi si fanno panni d’oro et di seda et d’ogni altra maniera. [4] Hor, partendosi di qui, diremo della nobile et celebre città di Quenzanfu, il regno della quale similmente è chiamato con detto nome.

34

[0] Della città di Quenzanfu. Cap. 34.

[1] Partendosi da Cacianfu, si cavalca sette giornate per ponente, trovando continuamente molte città et castella dove si essercitano gran mercantie; et trovansi molti giardini et campi, et tutta la contrada è piena di morari, cioè di arbori con i quali si fa la seda. [2] Et quelle genti adorano gl’idoli, et ivi sono christiani, Turchi, nestorini, et sonvi alcuni Sarraceni. [3] Quivi etiandio sono molte cacciagioni di bestie salvatiche, et si pigliano molte sorti d’uccelli. [4] Et cavalcando sette altre giornate si trova una grande et nobil città chiamata Quenzanfu, che anticamente fu un gran regno nobile et potente; et in quello furono molti re generosi et valenti, et regnavi al presente un figliuolo del Gran Can nominato Mangalú, quale esso Gran Can coronò di questo reame. [5] Et è questa patria certamente di gran mercantie et molte arti: ivi nasce la seda in gran quantità, et vi si lavorano panni d’oro et di seda et d’ogni sorte, et di tutte le cose che s’appartengono a fornir uno essercito; item hanno grande abondanza di tutte le cose necessarie al corpo humano, et compranle per buon mercato. [6] Quelle genti adorano gl’idoli; ivi sono alcuni christiani et Turchi et Sarraceni. [7] Fuori della città forse per cinque miglia è un palazzo del re Mangalú, il qual è bellissimo et è posto in una pianura dove sono molte fontane et fiumicelli, che li discorrono dentro et d’intorno, et vi sono bellissime cacciagioni et luoghi da uccellare. [8] Primamente vi è un muro grosso et alto, con merli a torno a torno, che circonda circa cinque miglia, dove sono tutti gli animali selvaggi et uccelli, et in mezzo di questa muraglia vi è un palazzo grande et spatioso, cosí bello che niuno lo potrebbe meglio ordinare, il qual ha molte sale et camere grandi et belle, et tutte depinte d’oro, con azzurri finissimi et con infiniti marmori. [9] Questo Mangalú, seguendo le vestigie del padre, mantien il suo regno in grande equità et giustitia, et è molto amato dalle sue genti, et delettasi di cacciagioni et di uccellare.

35

[0] De’ confini che sono nel Cataio et Mangi. Cap. 35.

[1] Partendosi di questo palazzo di Mangalú, si cammina tre giornate per ponente, trovandosi di continuo molte città et castella, nelle quali gli habitanti vivono di mercantie et d’arti, et hanno seda abondantemente. [2] Et in capo di tre giornate si trova una regione piena di gran monti et valli, che sono nella provincia di Cunchin, et sono quelli monti et valli piene di genti, che adorano gl’idoli et lavorano la terra. [3] Vivono di cacciagioni, perché ivi sono molti boschi et molte bestie salvatiche, cioè leoni, orsi, lupi cervieri, daini, caprioli, cervi et molti altri animali, delli quali conseguiscono grande utilità. [4] Et questa region si estende per venti giornate, camminando sempre per monti, valli et boschi, et trovando di continuo città, nelle quali commodamente alloggiano i viandanti. [5] Et poi che s’è cavalcato le dette giornate verso ponente, trovasi una provincia nominata Achbaluch Mangi, che vuol dire “città bianca de’ confini di Mangi”, la qual è piana et tutta populatissima, et le genti vivono di mercantie et arti. [6] Et quivi nasce zenzero in gran quantità, il qual si porta per tutta la provincia del Cataio, con grande utilità de’ mercatanti; vi è formento, riso et altre biade in abondanza et per buon mercato. [7] Et questa pianura dura due giornate, con infinite habitationi; et in capo di due giornate si trovano gran monti et valli et molti boschi, et camminasi ben venti giornate per ponente trovando il tutto habitato. [8] Adorano gl’idoli, et vivono di frutti delle lor terre et di cacciagioni di bestie salvatiche. [9] Ivi son molti leoni, orsi, lupi cervieri, daini, caprioli, et evvi gran quantità di bestie che producono il muschio.

36

[0] Della provincia di Sindinfu, et del grandissimo fiume detto Quian. Cap. 36.

[1] Poi che s’è camminato venti giornate per quei monti, si trova una pianura et provincia, che è ne’ confini di Mangi, nominata Sindinfu, et la maestra città si chiama similmente, la quale è molto nobile et grande. [2] Et già furono in quella molti re ricchi et potenti. [3] La città gira per circuito venti miglia, ma hora è divisa, perciò che quando muorse il re vecchio lasciò tre figliuoli, et avanti la sua morte volse divider la città in tre parti, cadauna delle quali è separata per muri: et nondimeno cadauna è dentro il muro generale che la cinge intorno. |34r| [4] Et questi tre fratelli furono re, et ciascheduno havea nella sua parte molte terre et grandi et molto thesoro, perché il loro padre era molto potente et riccho; ma il Gran Can, preso che hebbe questo regno, destrusse questi tre re, tenendolo per sé. [5] Per questa città discorrono molti gran fiumi, che discendono da’ monti di lontano et corrono per la città intorno intorno et per mezzo in molte parti. [6] Questi fiumi sono larghi per mezzo miglio, altri per dugento passa, et sono molto profondi, et sopra quelli sono fabricati molti ponti di pietra belli et grandi, la larghezza de’ quali è otto passa, et la lunghezza è secondo che i fiumi sono piú et manco larghi. [7] Et per la lunghezza delli fiumi sono dall’una et l’altra banda colonne di marmo, le quali sostengono il coperchio de’ ponti, perché tutti hanno bellissimi coperchi di legname dipinti con pitture di color rosso, et sono ancho coperti di coppi. [8] Et per lunghezza di ciaschedun ponte sono bellissime stanze et botteghe, dove si essercitano arti et mercantie. [9] Et qui è una casa maggior dell’altre, dove stanno di continuo quelli che scodono li datii delle robbe et mercantie, et pedagio di quelli che vi passano, et ne fu detto che ’l Gran Can ne cavava ogni giorno piú di cento bisanti d’oro. [10] Et quando i detti fiumi si partono dalla città, si ragunano insieme et fanno un grandissimo fiume, che vien detto Quian, qual scorre per cento giornate fin al mare Oceano, della cui qualità si dirà di sotto nel libro. [11] Appresso a questi fiumi et luoghi circonstanti sono molte città et castella, et vi sono molti navilii, per li quali si portano alla città et traggonsi molte mercantie. [12] Le genti di questa provincia sono idolatri. [13] Et partendosi dalla città si cavalca cinque giornate per pianure et valli, trovando molti casamenti, castelli et borghi; et gli huomini vivono della agricultura et anche di arti, perché in questa città si fanno tele sottilissime et drappi di velo. [14] Vi si trovano similmente molti leoni, orsi et altre bestie salvatiche. [15] Et poi che s’è cavalcato cinque giornate, si trova una provincia desolata nominata Thebeth.

37

[0] Della gran provincia detta Thebeth. Cap. 37.

[1] Questa provincia chiamata Thebeth è molto destrutta, perché Mangi Can la destrusse al tempo suo, per la guerra ch’egli hebbe con quella: et vi si veggono per questa provincia molte città et castella tutte rovinate et desolate, per lunghezza di venti giornate. [2] Et perché vi mancano gli habitatori, però le fiere salvatiche, et massime i leoni sono moltiplicati in tanto numero che è grandissimo pericolo a passarvi la notte: et li mercatanti et viandanti, oltra il portar seco le vettovaglie, bisogna che alloggino la sera con grande ordine et rispetto, per causa che non li siano devorati i cavalli. [3] Et fanno in questo modo, che, trovandosi in quella regione, et massime appresso i fiumi, canne di lunghezza di passa dieci et grosse tre palmi, et da un nodo all’altro vi sono tre palmi, i viandanti fanno la sera fassi grandi di quelle che sono verdi, mettendole alquanto lontane dall’alloggiamento, et vi appizzano il fuogo; le quali sentendo il caldo si scorzano et sfendono schioppando terribilmente, et è tanto horribil il schioppo che ’l rumor si sente per duoi miglia, et le fiere udendolo fuggono et allontanansi. [4] Et li mercatanti portano seco pasture di ferro, con le quali inchiavano tutti quattro i piedi alli cavalli, perché altramente, spaventati dal rumore, romperiano le corde et fuggiriano via: et è accaduto che molti per negligenza gli hanno perduti. [5] Cavalcasi adunque per questa contrada venti giornate, continuamente trovando simili salvatichezze, et non trovando alloggiamenti né vettovaglie, se non forse ogni terza o quarta giornata, nelle quali si forniscono delle cose al viver necessarie. [6] In capo delle qual giornate si comincia pur a veder qualche castello et borghi, che sono fabricati sopra dirupi et sommità de’ monti, et se intra in paese habitato et coltivato, dove non vi è piú pericolo di animali salvatichi. [7] Gli habitanti di quei luoghi hanno una vergognosa consuetudine, messagli nel capo dalla cecità della idolatria, che niuno vuol pigliar moglie che sia vergine, ma vogliono che prima sia stata cognosciuta da qualche huomo, dicendo che questo piace alli loro idoli. [8] Et però, come passa qualche carovana di mercadanti, et che mettono le tende per alloggiare, le madri c’hanno le figliuole da maritare le conducono subito fino alle tende, pregando i mercadanti, a regatta una dell’altra, che voglino pigliar la sua figliuola et tenirsela a suo buon piacere fino che stanno ivi: et cosí le giovani che piú gli aggrada vengono elette dalli mercadanti, et le altre tornano a casa dolenti. [9] Queste dimorano con li detti fino al suo partire et poi le consegnano alle lor madri, né mai per cosa al mondo le menarebbono via, ma sono obligati a farli qualche presente di gioie, annelletto o vero qualche altro signale, qual portano |34v| a casa: et quando si maritano portano al collo o vero adosso tutti li detti presenti, et quella che ne ha piú viene riputata esser stata piú apprezzata dalle persone. [10] Et per questo sono richieste piú volentieri dalli giovani per moglie, né piú degna dote ponno dare alli mariti che li molti presenti ricevuti, riputandosi quelli per gran gloria a laude: et nelle solennità delle sue nozze li mostrano a tutti, et li mariti le tengono piú care, dicendo che li loro idoli le hanno fatte piú gratiose appresso gli huomini. [11] Et da indi innanzi non è alcuno che havesse ardire di toccare la moglie d’un altro, et di tal cosa si guardano grandemente. [12] Queste genti adorano gl’idoli, et sono perfidi et crudeli, et non tengono a peccato il rubbare né il far male, et sono i maggiori ladri che siano al mondo. [13] Vivono di cacciagioni et di uccellare et di frutti della terra. [14] Qui si trovano di quelle bestie che fanno il muschio, et in tanta quantità che per tutta quella contrada si sente l’odore, perché ogni luna una volta spandono il muschio. [15] Nasce a questa bestia, come altre volte s’è detto, presso all’umbilico una apostema in modo d’un bognone pieno di sangue, et quella apostema ogni luna per troppa repletione sparge di quel sangue, qual è muschio. [16] Et perché vi sono molti di simili animali in quelle parti, però in molti luoghi si sente l’odore di quello. [17] Et queste tal bestie si chiamano in loro lingua “gudderi”, et se ne prendono molte con cani. [18] Essi non hanno monete, né anche di quelle di carta del Gran Can, ma spendono corallo, et vestono poveramente di cuoio et di pelle di bestie et di canevaccia. [19] Hanno linguaggio da per sé et appartengono alla provincia di Thebeth, la qual confina con Mangi, et fu altre volte cosí grande et nobile che in quella erano otto regni et molte città et castella, con molti fiumi, laghi et monti; nelli quali fiumi si trova oro in grandissima quantità di paiola. [20] In li regni di detta provincia si spende, come ho detto, il corallo per moneta, et ancho le donne lo portano al collo; et adorano li suoi idoli. [21] Et si fanno molti zambellotti et panni d’oro et di seda, et vi nascono molte sorti di spetie, che non si portano mai nelli nostri paesi. [22] Et quivi gli huomini sono grandissimi negromanti, imperoché fanno per arte diabolica i maggior veneficii et ribalderie che mai fussero viste o vero udite: fanno venir tempesta et fulguri, con saette, et molte altre cose mirabili. [23] Sono huomini de mali costumi. [24] Hanno cani molto grandi, come asini, che sono valenti a pigliar ogni sorte di animali, et massime buoi salvatichi, che si chiamano “beyamini”, quali sono grandissimi et feroci. [25] Ivi nascono ottimi falconi laneri et sacri, molto veloci al volare, et ottimamente uccellano. [26] Questa detta provincia di Thebeth è suddita al dominio del Gran Can, et similmente tutte le regioni et provincie soprascritte; doppo la quale si trova la provincia di Caindú.

38

[0] Della provincia di Caindú. Cap. 38.

[1] Caindú è una provincia verso ponente, qual già si reggeva per il suo re; ma, poi che fu soggiogata dal Gran Can, egli le manda i suoi rettori. [2] Et non intendiate per questo dir ponente che le dette contrade siano nelle parti di ponente, ma perché si partiamo dalle parti che sono tra levante et greco venendo verso ponente, et però descreviamo quelle verso ponente. [3] Le genti di questa provincia adorano gl’idoli, et sono in quella molte città et castella: et la maestra città similmente si chiama Caindú, la qual è edificata nel cominciamento della provincia. [4] Et ivi è un gran lago salso nel quale si trova gran moltitudine di perle, le qual sono bianche, ma non rotonde; et ne sono in tanta abondanza che, se ’l Gran Can lasciasse che cadaun ne pigliasse, veneriano in vil pretio: ma senza sua licenza non si ponno pescare. [5] Vi è similmente un monte, nel quale si trova la minera delle pietre dette turchese, che non si lasciano cavar senza il voler del detto Gran Can. [6] Qui gli habitanti di questa provincia hanno un costume vergognoso et vituperoso, che non si reputano a villania se quelli che passano per quella contrada giacciono con le loro mogli, figliuole o sorelle: et per questo, come giungono forestieri, cadauno cerca di menarsegli a casa, dove giunti consegnano tutte le loro donne in sua balia et si dipartono, lasciando quelli come patroni; et le donne appiccano subito sopra la porta un segnale, né quello muovono se non quando si partono, accioché i loro mariti possino ritornarsene. [7] Et questo fanno gli habitanti per honorificenza de’ loro idoli, credendo con questa umanità et benignità usata verso detti forestieri di meritare la gratia dei loro idoli, et che li concedino abondanza di tutti i frutti della terra. |35r| [8] La loro moneta è di tal maniera, che fanno verghe d’oro et le pesano, et secondo ch’è il peso della verghetta cosí vagliono: et questa è la loro moneta maggiore, sopra la qual non vi è alcuno segno. [9] La picciola veramente è di questo modo: hanno alcune acque salse, con le quali fanno il sale facendole bollire in padelle, et poi c’hanno bollito per una hora si congelano a modo di pasta, et fannosi forme di quantità di un pane di duoi danari, le quali sono piane dalla parte di sotto et di sopra sono rotonde; et quando sono fatte si pongono sopra pietre cotte ben calde presso al fuogo, et ivi si seccano et fansi dure, et sopra queste tal monete si pone la bolla del signore. [10] Né le monete di questa sorte si ponno far per altri che per quelli del signore, et ottanta di dette monete si danno per un sazzo d’oro. [11] Ma i mercatanti vanno con queste monete a quelle genti che habitano in fra i monti ne’ luoghi salvatichi et inusitati, et trovano un sazzo d’oro per sessanta, cinquanta et quaranta di quelle monete di sale, secondo che le genti sono in luogo piú salvatico et discosto dalle città et gente domestica, perché ogni volta che voglino non possono vendere il suo oro et altre cose, sí come il muschio et altre cose, perché non hanno a cui venderle: et però fanno buon mercato, perché trovano l’oro ne’ fiumi et laghi, come s’è detto. [12] Et vanno questi mercatanti per monti et luoghi della provincia di Thebeth sopradetta, dove similmente si spazza la moneta di sale, et fanno grandissimo guadagno et profitto, perché quelle genti usano di quel sale ne’ cibi, et compransi ancho delle cose necessarie. [13] Ma nelle città usano quasi solamente i fragmenti di dette monete ne’ cibi, et spendono le monete integre. [14] Hanno molte bestie in quel paese le quali producono il muschio, et di quelle molte ne prendono et traggono muschio in abondanza. [15] Prendono anchora molti buoni pesci nel lago sopradetto, et vi sono molti leoni, orsi, daini, cervi et caprioli, et uccelli di qualunche maniera in abondanza. [16] Non hanno vino da vigne, ma fanno vino di formento et riso, con molte specie mescolate insieme: et è una ottima bevanda. [17] In questa provincia nascono anchora molti garofali: l’arbore che li produce è picciolo, et ha li rami et foglie a modo di lauro, ma alquanto piú lunghe et strette; produce li fiori bianchi et piccioli come sono i garofali, et quando sono maturi sono negri et foschi. [18] Vi nasce il zenzero et la cannella in abondanza et molte altre specie, delle quali non è portato quantità alcuna in queste parti. [19] Et partendosi dalla città di Caindú, si va fino alli confini della provincia circa quindeci giornate, trovando casamenti et molti castelli et molti luoghi da caccia et uccellare, et genti che osservano i sopradetti costumi et consuetudini. [20] In capo di dette giornate trovasi un gran fiume nominato Brius, che disparte la detta provincia, nel quale si trova molta quantità d’oro di paiola, et evvi molta quantità di cannella; et scorre questo fiume fino al mare Oceano. [21] Hor lascieremo questo fiume, perché altro non v’è da dire in quello, et diremo d’una provincia nominata Caraian.

39

[0] Delle conditioni della gran provincia di Caraian, et de Iaci, città principale. Cap. 39.

[1] Dapoi che s’è passato il fiume predetto, si entra nella provincia detta Caraian, cosí grande et larga che quella è partita in sette regni, et è verso ponente. [2] Le genti adorano gl’idoli et sono sotto il dominio del Gran Can: ma suo figliuolo, nominato Centemur, è constituto re di detta provincia, il qual è gran riccho et potente, et mantiene la sua terra con molta giustitia, perché egli è ornato di molta sapientia et integrità. [3] Et partendosi dal sopradetto fiume si cammina verso ponente per cinque giornate, et trovasi tutto habitato et castelli assai. [4] Vivono di bestie et de frutti della terra; qui si trovano i migliori cavalli che naschino in quelle parti. [5] Hanno linguaggio per sé, il quale non si può facilmente comprendere. [6] A capo delle cinque giornate si trova la città maestra, capo del regno, nominata Iaci, che è grandissima et nobile. [7] Sono in quella molti mercatanti et artefici et molte sorti di genti: sonvi idolatri et christiani, nestorini et Sarraceni et macomettani, ma i principali sono quelli che adorano gl’idoli. [8] Et è la terra fertile in produr riso et formento; ma quelle genti non mangiano pane di formento, perché è malsano, ma il riso, del quale ne fanno vino con specie, che è chiaro et bianco et molto delettevole a bere. [9] Spendono per moneta porcellane bianche, le quali si trovano al mare, et ne pongono anche al collo per ornamento: et ottanta porcellane vagliono un sazzo d’argento, il quale è di valuta di duoi grossi venetiani, et otto sazzi di buon argento vagliono un sazzo d’oro perfetto. [10] Hanno anchora pozzi salsi de’ quali fanno sale, il qual usano tutti gli habitanti: et di questo sale il re ne conseguisce grande en|35v|trata et profitto. [11] Le genti di questa provincia non reputano esserli fatta ingiuria se uno tocca la sua moglie carnalmente, pur che sia con volontà di quella. [12] Vi è anchora un lago, che circuisce circa cento miglia, nel quale si piglia gran quantità di buoni pesci di ogni maniera, et sono pesci molto grandi. [13] In questo paese mangiano carni crude di galline, montoni, buoi et buffali, in questo modo, che le tagliano molto minutamente, et le mettono prima in sale, in un sapore fatto di diverse sorti di lor specie: et questi sono gentilhuomini; ma li poveri le mettono cosí minute in salsa di aglio, et le mangiano come facciam noi le cotte.

40

[0] Della provincia detta Carazan. Cap. 40.

[1] Quando si parte dalla detta città di Iaci, et che s’è camminato dieci giornate per ponente, trovasi la provincia di Carazan, sí come è nominata la maestra città del regno. [2] Adorano gli idoli, et sono sotto il dominio del Gran Can, et suo figliuolo nominato Cogatin tiene la dignità regale. [3] Trovasi in essa oro di paiola ne’ fiumi, et ancho oro piú grosso che di paiola, et ne’ monti oro di vena; et per la gran quantità che hanno, danno per sei sazzi d’argento un sazzo d’oro. [4] Quivi anchora si spendono le porcellane delle quali s’è detto di sopra, le quali non si trovano in questa provincia, ma sono portate dalle parti d’India. [5] Nascono in questi paesi grandissimi serpenti, quali sono di lunghezza passa dieci et di grossezza spanne dieci. [6] Hanno nella parte dinanzi, appresso il capo, due gambe picciole con tre unghie a modo di leone, et gli occhi maggiori d’un pane di quattro danari, tutti lucenti. [7] La bocca è cosí grande che inghiottirebbe un huomo; i denti grandi et acuti: et per essere tanto spaventevoli, non è huomo né animal alcuno che approssimandosi non tremi tutto. [8] Se ne trovano di minori, cioè di passa otto, sei et cinque lunghi, quali si prendono in questo modo, conciosiaché per il gran caldo stiano di giorno nelle caverne et di notte escono fuori a pascere, et quante bestie, o leoni o lupi o altre che si siano, che possono toccare, tutte le mangiano, et poi si vanno strascinando verso a’ laghi, fonti o fiumi per bere; et mentre che vanno a questo modo per l’arena, per la troppa gravezza del peso loro appaiono i vestigii cosí grandi come se una gran trave fosse stà tirata per quell’arena; et i cacciatori, dove veggono il sentiero per il qual sono usati d’andare, ficcano molti pali sotto terra che non appareno, et in quelli mettono alcuni ferri acutissimi ponendoli spessi, et copronli con l’arena che non si veggono: et ne mettono in diversi luoghi, secondo i sentieri dove piú veggono andar i serpenti, i quali, andando alli luoghi soliti, subito si feriscono et morono facilmente. [9] Et le cornacchie, come li veggono morti, cominciano a stridare, et li cacciatori a’ cridi di quelle cognoscono che sono morti et gli vanno a trovar et gli scorticano, cavandoli immediate il fiele, che è molto apprezzato ad infinite medicine et fra le altre al morso de’ cani arrabbiati, dandolo a bere al peso di un danaro in vino; et è cosa presentanea a far partorire una donna quando l’ha i dolori; et alli carboni et pustule che nascono sopra la persona, postone un poco, subito li risolve, et a molte altre cose. [10] Vendono anchor le carni di questo serpente molto care, per esser piú saporite dell’altre carni, et ognuno la mangia volentieri. [11] Oltre di ciò in detta provincia nascono grandi cavalli, i quali si conducono in India a vendere mentre sono giovani, et a tutti li cavano un osso della coda, accioché non possino menarla in qua et là ma rimanghi pendente, perché li par cosa brutta che ’l cavallo correndo meni la coda in giro. [12] Quelle genti cavalcano tenendo le staffe lunghe, come appresso di noi i Franceschi, et dicesi lunghe perché i Tartari et quasi tutte l’altre genti per il saettare le portano curte, percioché quando saettano se rizzano sopra i cavalli. [13] Hanno arme perfette di cuoi de buffali, et hanno lancie, scudi, balestre, et intossicano tutte le sue frezze. [14] Et mi fu detto per cosa certa che molte persone, et massime quelli che vogliono far qualche male, portano di continuo il tossico con loro, acciò, se per qualche caso fortuito per qualche mancamento fussero presi, et li volessero poner al tormento, piú tosto che patirlo si pongono subito del tossico in bocca et inghiottonlo, acciò prestamente muoiano. [15] Ma li signori, che sanno questa usanza, hanno sempre apparecchiato sterco di cane: li fanno di subito inghiottire per farli vomitar il tossico, et cosí hanno trovato il rimedio contra la malitia di quelli tristi. [16] Le dette genti, avanti che fussero soggiogate al dominio del Gran Can, osservavano una brutta et scelerata consuetudine, che se alcuno huomo nobile et bello, che paresse di grande et bella apparenza et valoroso, veniva ad alloggiare in casa loro, era ammazzato la notte, non per |36r| tuorli i danari, ma acciò che l’anima sua, con la gratia del valor suo et la prosperità del senso, rimanesse in quella casa, et per il stantiar di quella anima tutte le cose li succedessero con felicità: et ognun si riputava beato di haver l’anima di qualche nobile, et a questo modo si facevano morire molti huomini. [17] Ma, dapoi che il Gran Can cominciò a signoreggiare, li levò via quella maladetta consuetudine, di modo che, per la gran punitioni che sono stà fatte, piú non si osserva.

41

[0] Della provincia di Cardandan et città di Vociam. Cap. 41.

[1] Partendosi dalla città di Carazan, poi che s’è camminato cinque giornate verso ponente, si trova la provincia di Cardandan, la qual è sottoposta al Gran Can, et la principal città è detta Vociam. [2] La moneta che qui spendono è oro a peso, et ancho porcellane, et danno un’onza d’oro per cinque onze d’argento, et un sazzo d’oro per cinque sazzi d’argento, perché in quella regione non si trova minera alcuna d’argento, ma oro assai, et i mercanti vi portano d’altrove l’argento et ne fanno gran guadagni. [3] Gli huomini et le donne di questa provincia usano di portare li denti coperti d’una sottil lametta d’oro, fatta molto maestrevolmente a similitudine di denti, che li coprono, et vi sta di continuo. [4] Gli huomini si fanno anchor a torno le braccia et le gambe a modo di una lista o vero cinta, con punti neri, designata in questo modo: hanno cinque agucchie tutte legate insieme, et con quelle si pungono talmente la carne che vi esce il sangue, et poi vi mettono sopra una tintura nera, che mai piú si puol cancellare; et reputano per cosa nobile et bella haver questa tal lista di punti neri. [5] Et non attendono ad altro se non a cavalcare et andare alla caccia et uccellare, et a cose che appartengono all’armi et essercitii di guerra, et di tutti gli altri officii appartenenti al governo di casa lasciano la cura alle loro donne. [6] Hanno servi comprati, et ancho che hanno preso in guerra, che aiutano le donne in simil bisogna. [7] Hanno una usanza, che subito che una donna ha partorito levasi del letto, et lavato il figliuolo et ravolto ne’ panni, il marito si mette a giacere in letto in sua vece et tiene il figliuolo appresso di sé, havendone la cura di quello per quaranta giorni, che non si parte mai. [8] Et gli amici et parenti vanno a visitarlo per rallegrarlo et consolarlo, et le donne che sono da parto fanno quel che bisogna per casa, portando da mangiare et bere al marito ch’è in letto, et dando il latte al fanciullo che gli è appresso. [9] Dette genti mangiano carni crude et cotte, com’è detto di sopra, et il loro cibo è risi con carne; il loro vino è fatto di risi con molte specie mescolatevi, et è buono. [10] In questa provincia non vi sono idoli né tempii, ma adorano il piú vecchio di casa, perché dicono: «Siamo usciti di costui, et tutto il bene che havemo procede et viene da lui». [11] Non hanno lettere né scrittura alcuna, et non è maraviglia alcuna, però che quel paese è molto salvatico, et fra montagne et selve foltissime, et l’aere nella state v’è molto tristo et cattivo; et li forestieri et mercatanti non vi possono star, perché moririano. [12] Et se hanno da far qualche faccenda un con l’altro, et vogliono far le sue obligationi o vero carte di quello che deono dare et havere, il principal piglia un legno quadro et lo sfende per mezzo, et segnano sopra quello quanto hanno da fare insieme, et cadaun tiene una delle parti del bastone, come facciamo noi a modo nostro in tessera; et quando è venuto il termine, et il debitor haverà pagato, il creditor li restituisce la sua parte del legno: et cosí restano contenti et satisfatti. [13] Né in questa provincia né in Caindú, Vociam et Iaci si trovano medici, ma, come si ammala qualche grande huomo, le sue genti di casa fanno venir li maghi, che adorano gli idoli, alli quali l’infermo narra la sua malattia. [14] Allhora detti maghi fanno venir sonatori con diversi instrumenti, et ballano et cantano canzone in honore et laude d’i loro idoli, et continuano questo tanto ballar, cantar et sonar che ’l demonio entra in alcuno di loro, et allhora non si balla piú. [15] Li maghi dimandano a questo indemoniato per che cagione colui sia ammalato, et ciò che si dee fare per liberarlo. [16] Il demonio risponde, per bocca di colui nel corpo del quale egli è entrato, quello essere ammalato per haver fatta offensione a tal dio. [17] Allhora li maghi pregano quel dio che li perdoni, che guarito li farà sacrificio del proprio sangue: ma se ’l demonio vede che quell’ammalato non puol scampare, dice che l’ha offeso cosí gravemente che per niun sacrificio si potria placare; ma se giudica che ’l debbia guarire, dice che ’l facci sacrificio di tanti montoni che habbino i capi neri, et che faccino ragunare tanti maghi con le loro donne, et che per le mani loro sia fatto il sacrificio, et che a questo modo |36v| il dio si placherà verso l’infermo. [18] Allhora i parenti fanno tutto ciò che gli è stato imposto, ammazzando li montoni et gettando verso il cielo il sangue di quelli, et i maghi con le loro donne maghe fanno gran luminarie et incensano tutta la casa dell’infermo, faccendo fumo di legni di aloe et gettando in aere l’acqua nella qual sono stà cotte le carni sacrificate, insieme con parte delle bevande fatte con specie, et ridono, cantano et saltano, in reverentia di quell’idolo o vero dio. [19] Doppo questo dimandano a quell’indemoniato se per tal sacrificio è satisfatto all’idolo, et s’egli comanda che si faccia altro; et quando risponde essere satisfatto, allhora detti maghi et maghe, che di continuo hanno cantato, sentano a tavola et mangiano la carne sacrificata con grande allegrezza, et bevono di quelle bevande che sono state offerte. [20] Compiuto il disinare et havuto il suo pagamento, ritornano a casa, et se per providentia di Dio guarisce l’infermo, dicono che l’ha guarito quell’idolo al quale è stato fatto il sacrificio; ma se ’l muore, dicono che ’l sacrificio è stato defraudato, cioè che quelli che hanno preparate le vivande le hanno gustate prima che sia stà data la sua parte all’idolo. [21] Et queste cerimonie non si fanno per qualunque infermo, ma una o due volte al mese per qualche grande huomo riccho, la qual cosa anchora si osserva in tutta la provincia del Cataio et di Mangi et quasi da tutti gl’idolatri, perché non hanno copia di medici: et in questo modo li demonii scherniscono la cecità di quelle misere genti.

42

[0] Cap. 42.

[1] Prima che procediamo piú oltra, narreremo una memorabile battaglia che fu nel sopradetto regno di Vociam. [2] Avenne che nel 1272 il Gran Can mandò uno essercito nel regno di Vociam et Carazan, per custodirlo et defenderlo da genti strane che lo volessero offendere, imperoché fino a quel tempo il Gran Can anchora non havea mandato alcuno de’ suoi figliuoli al governo de’ suoi reami, come dapoi vi mandò, perché sopra questo regno ordinò in re Centemur suo figliuolo. [3] Il re veramente di Mien et Bangala dell’India, ch’era potente di genti, terre et thesoro, udendo che l’essercito d’i Tartari era venuto a Vociam, deliberò di volerlo combattere et scacciare, accioché piú il Gran Can non ardisse di mandar genti alli suoi confini. [4] Però preparò un essercito grandissimo et gran moltitudine di elefanti (perché di continuo ne teneva infiniti nelli suoi regni), sopra li quali fece far alcune baltresche et castelli di legno, dove stavano huomini a saettare et combattere: et in alcuni vi erano da dodici et sedici che commodamente potevano combattere. [5] Et oltra di questi messe insieme gran numero di cavalli armati et fanti a piedi, et prese il cammino verso Vociam, dove l’essercito del Gran Can si era fermato, et quivi s’accampò con tutto l’hoste per riposarlo alquanti giorni. [6] Quando Nestardin, ch’era capitano dell’essercito del Gran Can, huomo prudente et valoroso, intese la venuta dell’hoste del re di Mien et Bangala con tanto numero di genti, temette molto, perché non havea seco piú di dodicimila huomini, ma essercitati et franchi combattitori, et il detto re ne havea sessantamila, et da circa mille elefanti tutti armati, con castelli sopra. [7] Costui, come savio et esperto, non mostrò paura alcuna, ma discese nel piano di Vociam et si pose alle spalle un bosco folto et forte di altissimi arbori, con opinione che se gli elefanti venissero con tanta furia che non se li potesse resistere, di ritirarsi nel bosco et saettarli al sicuro. [8] Però, chiamati a sé li principali dell’essercito, li confortò che non volessero esser di minor virtute di quello ch’erano stati per avanti, et che la vittoria non consisteva nella moltitudine ma nella virtú di valorosi et esperti cavallieri, et che le genti del re di Mien et Bangala erano inesperte et non pratiche della guerra, nella qual non si haveano trovato, come haveano fatto loro, tante volte: et però non volessero dubitar della moltitudine de’ nimici, ma sperar nella peritia sua esperimentata in tante imprese, che già il nome loro era non solamente alli nimici, ma a tutto il mondo pauroso et tremendo, promettendoli ferma et indubitata vittoria. [9] Saputo il re di Mien che l’hoste de’ Tartari era disceso al piano, subito si mosse et venne ad accamparsi vicino a quel de’ Tartari un miglio, et messe le sue schiere ad ordine, ponendo nella prima fronte gli elefanti et dapoi di drieto i cavalli et i fanti, ma lontani come in due ali, lassandovi un gran spatio in mezzo. [10] Et quivi cominciò ad inanimare i suoi, dicendoli che volessero valorosamente combattere, perché erano certi della vittoria, essendo loro quattro per uno, et havendo tanti elefanti con tanti castelli che li nemici non haveriano ardire d’aspettarli, non havendo mai con tal sorte di animali combattuto. [11] Et fatti sonare infiniti stormenti, si mosse con gran vigore con tutto |39r| l’hoste suo verso quello d’i Tartari, quali stettero fermi et non si mossero, ma li lassorono venir vicini al suo alloggiamento; poi immediate uscirono con grande animo all’incontro. [12] Et, non mancando altro che l’azzuffarsi insieme, avenne che i cavalli de’ Tartari, vedendo gli elefanti cosí grandi et con quelli castelli, si spaurirono di maniera che cominciavano di volere fuggire et voltarsi adietro, né vi era modo che li potessero retenire, et il re con tutto l’essercito si avvicinava ogn’hora piú innanti. [13] Onde il prudente capitano, veduto questo disordine sopravenutoli all’improviso, senza perdersi punto prese partito di far immediate smontar tutti dei cavalli, et quelli mettere nel bosco, ligandogli agl’arbori. [14] Smontati adunque andorono a piedi alla schiera di elefanti et cominciorono fortemente a saettarli; et quelli ch’erano sopra li castelli, con tutte le genti del re, anchor loro con grande animo saettavano li Tartari, ma le loro freccie non impiagavano cosí gravemente come facevano quelle de’ Tartari, ch’erano da maggior forza tirate. [15] Et fu tanta la moltitudine delle saette in questo principio, et tutte a segno d’i elefanti (che cosí fu ordinato dal capitano), che restorono da ogni canto del corpo feriti, et subito cominciorono a fuggire et a voltarsi adrieto verso le genti sue proprie, mettendole in disordine. [16] Né vi valeva forza o modo alcuno di quelli che li governavano, che, per il dolore et rabbia delle ferite et per il tuono grande delle voci, erano talmente impauriti che senza ritegno o governo andavano hor qua et hor là vagabondi, et alla fine con gran furia et spavento si cacciorono in una parte del bosco dove non erano li Tartari; et quivi entrando per forza, per la foltezza et grossezza di arbori, fracassavano con grandissimo strepito et rumore li castelli et baltresche che haveano sopra, con ruina et morte di quelli che vi erano dentro. [17] Alli Tartari, veduta la fuga di questi animali, crebbe l’animo, et senza dimorar punto a parte a parte con grande ordine et magisterio andavano montando a cavallo et ritornavano alle loro schiere, dove cominciorono una crudele et horrenda battaglia. [18] Né le genti del re manco valorosamente combattevano, perché egli in persona le andava confortando, dicendoli che stessero saldi et non si sbigottissero per il caso intravenuto agl’elefanti. [19] Ma li Tartari, per la peritia del saettare, li cargavano grandemente adosso et offendevano fuor di misura, perché non erano armati come li Tartari. [20] Et poi che l’un et l’altro essercito hebbero consumate le saette, posero mano alle spade et mazze di ferro, faccendo empito un contra l’altro: dove vedevasi in uno instante tagliare et troncar piedi, mani, teste, et dare et recever grandissimi colpi et crudeli, cadendo in terra molti feriti et morti, con tanta uccisione et spargimento di sangue che era cosa spaventevole et horribile a vedere; et era tanto il strepito et grido grande che le voci andavano fino al cielo. [21] Il re veramente di Mien, come valoroso capitano, arditamente in ogni parte dove vedeva il pericolo maggiore si metteva, inanimando et pregando che stessero fermi et constanti, et faceva che le schiere di drieto, che erano fresche, venissero inanti a soccorrere quelle che erano stracche. [22] Ma, vedendo che non era possibile da fermarsi né sostener l’empito d’i Tartari, essendo la maggior parte del suo essercito o ferita o morta, et tutto il campo pieno di sangue et coperto di cavalli et huomini uccisi, et che cominciavano a voltar le spalle, si misse ancho lui a fuggire con il resto delle sue genti, le quali, seguitate da’ Tartari, furono per la maggior parte uccise. [23] Questa battaglia fu molto crudele da una banda et dall’altra, et durò dalla mattina fino a mezzogiorno: et li Tartari hebbero la vittoria, et la causa fu perché il re di Bangala et Mien non havea il suo essercito armato come quello de’ Tartari, et similmente non erano armati gli elefanti che venivano in la prima fila, che haveriano potuto sostenere il primo saettamento delli nimici, et andarli adosso et disordinarli. [24] Ma, quello che piú importa, detto re non doveva andare ad assaltar li Tartari in quell’alloggiamento c’havea il bosco alle spalle, ma aspettarli in campagna larga, dove non haveriano potuto sostener l’empito de’ primi elefanti armati, et poi con le due ali de cavalli et fanti gli haveria circondati et messi di mezzo. [25] Raccoltisi i Tartari doppo l’uccisione delli nimici, andorono verso il bosco nel quale erano gli elefanti per pigliarli, et trovorono che quelle genti ch’erano campate tagliavano arbori et sbarravano le strade per difendersi. [26] Ma i Tartari immediate, rotti i loro ripari, ne uccisero molti et fecero prigioni, con il mezzo delli quali che sapevano il maneggiar di detti elefanti, ne hebbero dugento et piú. [27] Et dal tempo della presente battaglia in qua, il Gran Can ha voluto haver di continuo elefanti nelli suoi esserciti, che prima non ne haveva. |39v| [28] Questa giornata fu causa che ’l Gran Can acquistò tutte le terre del re di Bangala et Mien, et sottomessele al suo imperio.

43

[0]Di una regione salvatica et della provincia di Mien. Cap. 43.

[1] Partendosi dalla detta provincia di Cardandan, si trova una grandissima desmontata, per la quale si discende continuamente due giornate et mezza et non si trova habitatione né altro, se non una pianura ampla et spatiosa, in la quale tre dì di ciascuna settimana si raguna molta gente al mercado, perché molti descendono dalli monti di quelle regioni et portano oro per cambiarlo con argento, qual li mercatanti da longi paesi arrecano per questo effetto, et danno un sazzo d’oro per cinque d’argento. [2] Et non è permesso che gli habitanti portino l’oro fuora del paese, ma vogliono che vi venghino li mercatanti con l’argento a pigliarlo, portando le mercantie che faccino per li loro bisogni, perché niuno potrebbe andare alle loro habitationi se non quelli della contrada, per essere in luoghi ardui, forti et inaccessibili: et però fanno questi mercati nella detta pianura, la qual passata si trova la città di Mien, andando verso mezzodí, nelli confini dell’India; et camminasi quindeci giornate per luoghi molto dishabitati et per boschi, nei quali si trovano molti elefanti, alicorni et altri animali salvatichi, né vi sono huomini né habitatione alcuna.

44

[0] Della città di Mien et d’un bellissimo sepolchro del re di quella. Cap. 44.

[1] Dapoi le dette quindeci giornate, si trova la città di Mien, la qual è grande et nobile et capo del regno, et sottoposta al Gran Can; gli habitatori sono idolatri, et hanno lingua propria. [2] Fu in questa città (come si dice) un re molto potente et riccho, qual venendo a morte ordinò che appresso la sua sepoltura vi fossero fabricate due torri a modo di piramidi, una da un capo et l’altra dall’altro, tutte di marmo, alte passa dieci et grosse secondo la convenientia dell’altezza et di sopra vi era una balla ritonda. [3] Queste torri, una era coperta tutta di una lama d’oro grossa un dito, che altro non si vedeva che oro, et l’altra di una lama d’argento della medema grossezza, et haveano congegnate campanelle d’oro et d’argento a torno la balla, che ogni fiata che soffiava il vento sonavano, che era cosa molto stupenda a vedere; et similmente la sepoltura era coperta parte di lame d’oro et parte d’argento: et questo fece far detto re per honore dell’anima sua, acciò che la memoria sua non perisse. [4] Hor, havendo il Gran Can deliberato di haver quella città, vi mandò un valoroso capitano, et la maggior parte dell’essercito volse che andassero giocolari o vero buffoni della corte sua, che ne sono di continuo in gran numero. [5] Hor, entrati nella città et trovate le due torri tanto ricche et adorne, non le volsero toccare senza saputa del Gran Can, qual, inteso che hebbe ch’erano stà fatte per quella memoria dell’anima sua, non permesse che le toccassero né guastassero, per esser questo costume d’i Tartari, che reputano gran peccato il movere alcuna cosa pertinente a’ morti. [6] Qui si trovano molti elefanti, buoi salvatichi grandi et belli, cervi et daini, et ogni sorte di animali in grande abondanza.

45

[0] Della provincia di Bangala. Cap. 45.

[1] La provincia di Bangala è posta nei confini dell’India verso mezzodí, la qual, al tempo che messer Marco Polo stava alla corte, il Gran Can la sottomesse al suo imperio: et stette l’hoste suo gran tempo all’assedio di quella, per esser potente il paese et il re, come di sopra si ha inteso. [2] Ha lingua da per sé; quelle genti adorano gl’idoli, et hanno maestri che tengono schuole et insegnano le idolatrie et incanti, et questa dottrina è molto universale a tutti i signori et baroni di quella regione. [3] Hanno buoi di grandezza quasi come elefanti, ma non sono cosí grossi. [4] Vivono di carne, latte et risi, delli quali ne hanno abondanza; il paese produce assai bambaso, et fanno molte mercantie. [5] Qui nasce molto spigo, galanga, zenzero, zucchero et di molte altre speciarie, et molti Indiani vengono a comprar di quelle, et ancho di eunuchi schiavi, che ne hanno in gran quantità, perché quanti in guerra si prendono per quelle genti subito sono castrati, et tutti i signori et baroni ne vogliono di continuo haver alla custodia delle lor donne: et perciò i mercatanti gli vengono a comprar, per portarli a vendere in diverse regioni con grandissimo guadagno. [6] Dura questa provincia trenta giornate, in capo delle quali, andando verso levante, si trova una provincia detta Cangigú.

46

[0] Della provincia di Cangigú. Cap. 46.

[1] Cangigú è una provincia verso levante, la qual ha un re, et quelle genti adorano gl’idoli et hanno lingua da sé, et si diedero al Gran Can et ogn’anno li danno tributo. [2] Il re di |40r| questa provincia è molto lussurioso, et ha forse trecento mogli, et ove sa che vi sia qualche bella donna, subito la fa venire et la piglia per moglie. [3] Si trova oro in grandissima quantità et ancho molte sorti di specie, ma per esser fra terra et molto discosto dal mare vi è poca vendita di quelle; sonvi molti elefanti et altre sorti di bestie. [4] Vivono di carne, risi et latte; non hanno vino di uve, ma lo fanno di riso con molte specie mescolate. [5] Quelle genti, cosí huomini come donne, hanno tutto il corpo dipinto di diverse sorti d’animali et uccelli, perché vi sono maestri che non fanno altro mistiero se non con una agucchia di designarle, o sopra il volto, mani, gambe et ventre, et vi mettono color negro, che mai per acqua o vero altro puol levarsi via: et quella femmina o vero huomo che ne ha piú di dette figure è riputato piú bello.

47

[0] Della provincia di Amú. Cap. 47.

[1] Amú è una provincia verso levante, la quale è sotto il Gran Can, le cui genti adorano gli idoli, et vivono di bestie et frutti della terra. [2] Hanno lingua da per sé, et vi sono molti cavalli et buoni, che vendono a’ mercanti et li conducono in India; hanno buffoli et buoi in gran quantità, per esservi grandissimi et buoni pascoli. [3] Gli huomini et le donne portano alle mani et alle braccia manigli d’oro et d’argento, et similmente intorno alle gambe, ma quelli che portano le donne sono di maggior valuta. [4] Et sappiate che da questa provincia di Amú fino a quella di Cangigú vi sono venticinque giornate. [5] Hor diremo d’un’altra provincia detta Tholoman, la qual è discosta da queste ben otto giornate.

48

[0] Di Tholoman. Cap. 48.

[1] Tholoman è una provincia verso levante, le cui genti adorano gl’idoli. [2] Hanno linguaggio da per sé; sono sottoposti al Gran Can. [3] Questi habitanti sono belli et grandi, et piú presto bruni che bianchi. [4] Sono huomini giusti et valenti nell’armi, et molte città et castella sono in questa provincia sopra grandi et alti monti. [5] Brucciano i corpi d’i loro morti, et l’ossa che non si brucciano mettono in cassette di legname et portanle alle montagne, et le mettono in alcune caverne et dirupi, acciò che animal alcuno non li possi andar a toccare. [6] Qui si trova oro in grande abondanza, et si spendono porcellane che vengono d’India per moneta picciola, et cosí spendono le due provincie sopradette di Cangigú et Amú. [7] Vivono di carne et risi et bevono vino di risi, come è detto di sopra.

49

[0] Delle città di Cintigui, Sidinfu, Gingui, Pazanfu. Cap. 49.

[1] Partendosi della provincia di Tholoman et andando verso levante, si cammina dodici giornate sopra un fiume, a torno il quale vi sono molte città et castella, le qual finite si trova la bella et gran città di Cintigui, le cui genti adorano gli idoli et sono sotto il dominio del Gran Can. [2] Vivono di mercantie et arti; fanno drappi di scorzi di alcune sorti d’arbori, che sono molto belli, et gli vestono nel tempo della state, cosí huomini come donne. [3] Gli huomini sono valenti nell’armi; non hanno altra sorte di moneta se non quella di carta della stampa del Gran Can. [4] In questa provincia vi è tanta quantità di leoni che niun ardisce dormir la notte fuor della città per timor d’i detti leoni, et quelli che navigano per il fiume non si metteriano a dormir con loro navilii appresso le ripe, perché si sono trovati i leoni buttarsi all’acqua et notar alli navilii et tirar per forza fuori gli huomini; ma sorgeno nel mezzo del fiume, ch’è molto largo, et cosí sono sicuri. [5] Si ritrovano anchora in detta provincia i maggiori et piú feroci cani che si possano dire, et sono di tanto animo et possanza che un huomo con duoi cani ammazza un leone, et andando per cammino con duoi d’i detti cani, con l’arco et le saette, va sicuramente, perché, se si trova il leone, li cani arditi gli vanno adosso, essendo incitati dall’huomo. [6] Et la natura del leone è di cercare qualche arbore per appoggio, acciò che i cani non li possan andar da drieto, ma che tutti duoi li stiano in fazza; et però, veduti i cani et conoscendoli, se ne va passo passo né per alcun modo correria, per non voler parere che ’l habbi paura, tanta è la sua superbia et altezza di animo. [7] Et in questo andar di passo i cani il vanno mordendo et l’huomo saettandolo, et anchor che ’l leone, sentendosi mordere dai cani, si volti verso loro, sono però tanto presti che sanno ritrarsi, et il leone torna alla via sua passeggiando, per modo che, avanti ch’egl’habbi trovato appoggio, con le saette è tanto ferito et morsicato et sparto il sangue che indebolito cade: et a questo modo con i cani prendono il leone. [8] Fanno molta seda, della quale, portandosene fuor del paese, si fa di gran mercan|40v|tie, per via di questo fiume, qual navigasi per dodici giornate, sempre trovando città et castella. [9] Adorano gl’idoli et sono sotto il dominio del Gran Can; la sua moneta è di carta, et il suo vivere et mantenersi consiste in mercantie; sono valenti nell’arme. [10] Et in capo delle dodici giornate si trova la città di Sidinfu, della quale habbiamo trattato di sopra, et da Sidinfu per venti giornate si trova Gingui, et da Gingui per altre quattro giornate si trova la città di Pazanfu, la quale è verso mezzodí, et è della provincia del Cataio, ritornando per l’altra parte della provincia, le cui genti adorano gl’idoli et fanno abbrucciare i corpi quando morono. [11] Vi sono anchor certi christiani, che hanno una chiesa, et sono sotto il dominio del Gran Can, et spendono le monete di carta. [12] Vivono di mercantie et arti, hanno seda in abondanza, et fanno panni d’oro et di seda et veli sottilissimi. [13] Ha questa città molte città et castella sotto di sé; per quella passa un gran fiume, per il quale si porta gran mercantie alla città di Cambalú, perché con molti alvei et fosse lo fanno scorrere fino alla detta città. [14] Ma al presente partiremo de qui, et per tre giornate procedendo trattaremo d’una città detta Cianglú.

50

[0] Della città di Cianglú. Cap. 50.

[1] Cianglú è una gran città verso mezzodí, della provincia del Cataio, suddita al Gran Can, le cui genti adorano gl’idoli et fanno abbrucciare i corpi morti; spendono le monete di carte del Gran Can. [2] In questa città et destretto fanno grandissima quantità di sale, in questo modo: hanno una sorte di terra salmastra, della quale ne fanno gran monti et gettanli sopra dell’acqua, la quale, recevuta la salsedine per virtú della terra, discorre di sotto, et raccolgonla per condotti, et dapoi la mettono in padelle spatiose et larghe, non alte piú di quattro dita, faccendola bollire molto bene; et poi che l’ha bollito quanto li pare, la si congela in sale, et è bello et bianco, et si porta fuori in molti paesi, et quelle genti ne fanno gran guadagno, et il Gran Can ne riceve grande intrata et utilità. [3] Nascono in questa contrada persiche molto buone et saporite, et di tanta grandezza che pesano due libre l’una alla sottile. [4] Hor, lasciando questa città, diremo d’un’altra detta Ciangli.

51

[0] Della città di Ciangli. Cap. 51.

[1] Ciangli è una città nel Cataio verso mezzodí, suddita al Gran Can: sono idolatri et hanno la moneta di carta; et è discosta da Cianglú per cinque giornate, nel cammino delle quali si trovano molte città et castella soggette al Gran Can, et sono molto mercadantesche, delle quali il Gran Can ne conseguisce grande intrata. [2] Passa per mezzo della città di Ciangli un largo et profondo fiume, per il quale portano molte mercantie di seda, specie et molte altre cose di grande valuta.

[3] Hor lascieremo Ciangli, et narraremo di un’altra città detta Tudinfu.

52

[0] Della città di Tudinfu. Cap. 52.

[1] Quando si parte da Ciangli, camminando verso mezzodí sei giornate, di continuo trovando città et castella di gran valore et nobiltà; et le genti adorano gl’idoli, abbrucciano i loro corpi, sono soggetti al Gran Can, et le loro monete sono di carta; vivono di mercantie et arti et hanno abondanza di vettovaglie. [2] Et in capo di dette sei giornate si trova una città, qual fu già un regno nobile et grande, detto Tudinfu: ma il Gran Can la soggiogò al suo dominio per forza d’armi. [3] Et è molto dilettevole per li giardini che vi sono intorno, che producono belli et buoni frutti. [4] Fanno seda in grande abondanza. [5] Ha sotto la sua iurisditione undeci città imperiali, cioè nobili et grandi, per esser città di gran traffichi di mercantie et di gran copia di seda, et soleva havere re, avanti che la fusse sottoposta al Gran Can, qual nel 1272 mandò al governo della città et a guardia del paese un suo baron nominato Lucansor, capitano di ottantamila cavalli. [6] Costui, vedendosi con tanta gente et in cosí riccho et abondante paese, insuperbito, deliberò di ribellarsi al suo signore, et parlato c’hebbe con li primi della detta città, li persuase ad assentire a questo suo mal volere, et con il mezzo di detti fece ribellare tutti i popoli delle città et castella sottoposte a quella provincia. [7] Il Gran Can, inteso che hebbe questo tradimento, mandò subito duoi suoi baroni, de’ quali un era chiamato Angul, l’altro Mongatai, con centomila persone. [8] Lucansor, inteso c’hebbe questo essercito che gli veniva contra, si sforzò di ragunare non minor numero delle genti di sudditi, et quanto piú presto li fu possibile venne alle mani con li detti. [9] Et con grande uccisione dell’una parte et l’altra, fu finalmente morto Lucansor, la qual cosa vista dall’hoste |41r| suo, si missero a fuggire. [10] Et seguitandoli i Tartari, molti ne furono morti et molti presi, quali menati alla presentia del Gran Can, tutti i principali fece morire; agli altri perdonò et tolsegli alli servitii suoi, et sempre li furono fideli.

53

[0] Della città di Singuimatu. Cap. 53.

[1] Da Tudinfu camminando sette giornate verso mezzodí, si trovan sempre città et castelli nobili et grandi, di molte mercantie et arti; sono idolatri et sottoposti al Gran Can, et hanno diverse cacciagioni di bestie et uccelli et abondanza di tutte le cose. [2] Et in capo di sette giornate si trova la città di Singuimatu, dentro della quale, dalla banda di mezzodí, passa un fiume grande et profondo, qual dagli habitanti è stà diviso in due parti, una delle quali, che scorre alla volta di levante, tende verso il Cataio, et l’altra, che va verso ponente, alla provincia di Mangi. [3] In questo fiume vi navigano tanto numero di navilii che è quasi incredibile, et si portano da queste due provincie, cioè dall’una all’altra, tutte le cose necessarie, onde è cosa maravigliosa a vedere la moltitudine di navilii et la grandezza di quelli, che continuamente navigano carichi di tutte le mercantie di grandissima valuta. [4] Hor partendosi da Singuimatu et andando verso mezzodí sedici giornate, continuamente si trovano città et castella, nelle qual vi sono gran mercatanti: et tutte le genti di queste contrade sono idolatri, sottoposti al Gran Can.

54

[0] Del gran fiume detto Caramoran, et delle città di Coiganzu et Quanzu. Cap. 54.

[1] Compiute le dette sedici giornate, si trova di nuovo il gran fiume Caramoran, che discorre dalle terre del re Umcan, nominato di sopra il Prete Gianni di tramontana, qual è molto profondo che vi puole andare liberamente navi grandi, et con tutti i suoi carichi. [2] Si pigliano in quello molti pesci grandi et in gran copia. [3] In questo fiume, appresso il mare Oceano una giornata, si trovano da quindecimila navilii, che portano cadauno di loro quindeci cavalli et venti huomini, oltra la vettovaglia et li marinari che li governano: et questi tiene il Gran Can, accioché li siano apparecchiati per portare uno essercito ad alcuna dell’isole che sono nel mare Oceano quando si ribellassero, o vero in qualche region remota et lontana. [4] Et dove detti navilii si servano, appresso la ripa del fiume, vi è una città detta Coiganzu, et dall’altra banda a riscontro di questa ve n’è un’altra detta Quanzu: ma una è grande et l’altra picciola. [5] Passato detto fiume s’entra nella nobilissima provincia di Mangi. [6] Et non crediate che habbiamo trattato per ordine di tutta la provincia del Cataio, anzi non ho detto la vigesima parte, però che messer Marco, passando per la detta provincia, non ha descritto se non quelle città che ha trovato sopra il cammino, lasciando quelle che sono per i lati et per il mezzo, perché saria stà cosa troppo lunga et rencrescevole. [7] Però, lasciando il dire di questo, comincieremo a trattare prima dell’acquisto fatto della provincia di Mangi et sue città, la cui magnificentia et ricchezza mostrerassi nel sequente parlare.

55

[0] Della nobilissima provincia di Mangi, et come il Gran Can la soggiogò. Cap. 55.

[1] La provincia di Mangi è la piú nobile et piú ricca che si trovi in tutto il Levante. [2] Et nel 1269 vi era un signor detto Farfur, il piú riccho et piú potente principe che si sapesse essere stato già centenara d’anni, ma era signor pacifico et huomo che faceva grandi elemosine, né credeva che signor del mondo li potesse nocere, per l’amor che li portavano i popoli et per la fortezza del paese, circondato da grandissimi fiumi: dal che processe che ’l detto non si essercitò nell’armi, né manco volse che li suoi popoli vi si essercitassero. [3] Le città del suo regno erano fortissime, perché cadauna havea intorno una fossa profonda et larga quanto poteva tirare un arco, piena di acqua, né teniva cavalli a suo soldo, non havendo paura di alcuno. [4] Né ad altro era rivolto l’animo del re et tutti i suoi pensieri, se non a darsi buon tempo et star di continuo in piaceri: havea nella sua corte et a’ suoi servitii circa mille bellissime giovani, con le quali si vivea in grandissime delitie. [5] Amava la pace et manteneva la giustitia severamente, et non voleva che ad alcuno fosse fatto un minimo torto, né che alcuno offendesse il prossimo, perché il re li faceva punire senza alcun riguardo. [6] Et era tanta la fama della sua giustitia, che alcune fiate le persone si dimenticavano le loro botteghe aperte piene di mercantie, et nondimeno non vi era alcuno che ardisse d’intrarli dentro o levarli alcuna cosa. [7] Tutti i viandanti di giorno et di notte potevano andare liberi et sicuramente per tutto il regno, senza paura di alcuno. [8] Era pietoso et misericordioso verso poveri et bisognosi: ogni anno faceva raccogliere ventimila picciolini che dalle madri povere erano |41v| esposti, per non poterli far le spese, et questi fanciulli faceva allevare, et come erano grandi li faceva mettere a far qualche mestiero, o vero li maritava con le fanciulle che similmente havea fatto allevare. [9] Hor Cublai Can signor d’i Tartari di contraria natura era del re Fanfur, perché di niuna cosa si dilettava che di guerre et conquistar paesi et farsi gran signor. [10] Costui, doppo grandissimi conquisti di molte provincie et regni, deliberò di conquistar la provincia di Mangi e, messo insieme gran sforzo di genti da cavallo et da piedi, sí che era un potente essercito, vi fece capitano uno nominato Chinsanbaian, che vuol dire in lingua nostra “Cento Occhi” et quello con le genti mandò con molte navi nella provincia di Mangi. [11] Dove giunto, fece richiedere gli habitatori della città di Coiganzu che volessero dare obedienza al suo re, la qual cosa recusorono di fare; poi, senza far assalto alcuno, processe alla seconda città, la qual similmente denegò di arrendersi, et partitosi andò alla terza, quarta, et da tutte hebbe la medema risposta. [12] Et non volendo lasciarsi adrieto tante città, anchor ch’egl’havesse un fortissimo essercito, et che il Gran Can li mandasse un altro per terra di non minor numero et fortezza, deliberò di espugnarne una, et quivi con tutto il suo potere et sapere la prese, faccendo uccidere quanti in quella si trovorono: la qual cosa udita da tutte l’altre fu di tanto spavento et terrore che spontaneamente tutte vennero all’obedienza sua. [13] Et dapoi se n’andò con tutti duoi gli esserciti che havea sotto la real città di Quinsai, nella qual trovandosi il re Fanfur tutto spauroso et tremante, come quello che mai non havea veduto combattere né stato in guerra alcuna, dubitando della sua persona, montò sopra le navi ch’erano stà preparate per questo effetto, con tutto il suo thesoro et robe sue, lasciando la guardia della città alla moglie, con ordine che si defendesse al meglio che potesse, perché, essendo femmina, non havea a dubitare che, capitando in le mani d’i nimici, la facessero morire; et partito andossene per il mare Oceano ad alcune sue isole dove erano luoghi fortissimi, et quivi finí la sua vita. [14] Hor, lasciata la moglie in questo modo, se dice che ’l re Fanfur era stato admonito da’ suoi astrologhi che non li poteva esser tolta la signoria, salvo da un capitano che havesse cento occhi: la qual cosa sapendo la regina, essendo ogni giorno piú stretta la città, stava pur con speranza di non poterla perdere, parendoli impossibile che un huomo havesse cento occhi. [15] Et un giorno, volendo sapere come havea nome il capitano nimico, le fu detto Chinsanbaian, cioè Cento Occhi: il qual nome la impauritte et mese gran terrore, pensando costui dover esser quello che gli astrologhi haveano detto al re che ’l cacciaria di signoria; però, come femmina piena di paura, senza pensarvi piú sopra si rese. [16] Havuta la città di Quinsai da’ Tartari, subito tutto il resto della provincia venne in suo potere, et fu mandata la regina alla presenza di Cublai Can, et da quello fu ricevuta honorevolmente, qual li fece dar di continuo tanti danari che si mantenne di continuo come regina. [17] Hor che habbiamo detto del conquistar della provincia di Mangi, diremo delle città che sono in quella, et prima di Coiganzu.

56

[0] Della città di Coiganzu. Cap. 56.

[1] Coiganzu è una città molto bella et ricca, posta verso sirocco et levante nell’entrar nella provincia di Mangi, dove si trovano di continuo grandissime quantità di navilii, per essere (come di sopra habbiamo detto) sopra il fiume Caramoran. [2] Portansi a questa città molte mercantie, le quali mandano per detto fiume a diverse altre città. [3] Fassi quivi tanta quantità di sale che, oltra l’uso suo, ne mandano a molte altre città: del qual sale il Gran Can ne conseguisce grande utilità.

57

[0] Della città di Paughin. Cap. 57.

[1] Hor, partendosi da Coiganzu, si cammina verso sirocco una giornata per un terraglio ch’è nel’entrar di Mangi, fatto di belle pietre, et appresso questo terraglio da un lato et dall’altro vi sono paludi grandissime con acqua profonda, per la quale si puol navigar: né per altra strada si puol entrare in detta provincia se non per questo terraglio, salvo se non vi s’entrasse con navi, come fece il capitano del Gran Can, che vi smontò con tutto l’essercito. [2] In capo di detta giornata si trova una città detta Paughin, grande et bella. [3] Le genti adorano gli idoli; abbrucciano i corpi morti; hanno moneta di carte et sono sotto il Gran Can. [4] Vivono di mercantie et mestieri: hanno seda assai et fanno panno d’oro et di seda in quantità, et è abondante di tutte le cose da vivere.

58

[0] |42r| Della città di Caim. Cap. 58.

[1] Quando si parte dalla città di Paughin si va una giornata per sirocco, et trovasi una città detta Caim, grande et nobile. [2] Le genti adorano gl’idoli, spendono moneta di carte et sono sotto il Gran Can. [3] Vivono di mercantie et d’arti, et hanno abondanza di pesci et cacciagioni di animali salvatichi et di uccelli, et li fagiani vi sono in tanta copia che, per tanto argento quanto è un grosso venetiano, si ha tre buoni fagiani, i quali sono grossi come pavoni.

59

[0] Della città di Tingui et Cingui. Cap. 59.

[1] Partendosi dalla detta città et cavalcando per una giornata, sempre si trova casali et terre lavorate, et dapoi una città detta Tingui, la quale non è molto grande, ma abondante di tutti i beni necessarii al vivere humano. [2] Sono idolatri et sottoposti al Gran Can, et spendono moneta di carta; sono mercatanti, et hanno gran copia di navilii, animali assai et uccelli. [3] La qual città tende verso sirocco, et dalla sinistra parte verso levante, per tre giornate alla lunga, si trova il mare Oceano: et in tutto quel spatio vi sono molte saline, et fassi gran copia di sale. [4] Poi si trova una gran città detta Cingui, la quale è nobile et grande, et di questa città si cava grandissima quantità di sale, et fornisce tutte le provincie vicine, et il Gran Can ne cava grandissima utilità et tributo, che a pena si potria credere. [5] Adorano gl’idoli, hanno moneta di carta, et sono sotto il dominio del Gran Can.

60

[0] Della città di Iangui, che governò messer Marco Polo. Cap. 60.

[1] Camminando per sirocco da Cingui si trova la nobil città di Iangui, la quale è nobile et ha sotto di sé ventisette città, et per questo è potentissima, et è sottoposta al Gran Can. [2] Et in questa città fa residentia uno d’i dodici baroni avanti nominati, che sono governatori delle provincie, eletti per il Gran Can. [3] Sono idolatri, et vivono di mercantie et mestieri: fannosi qui molte armi et arnesi da battaglia, però che per quelle contrade vi habitano gente d’armi assai. [4] Et messer Marco Polo, di commissione del Gran Can, ne hebbe il governo tre anni continui, in luogo d’un d’i detti baroni.

61

[0] Cap. 61.

[1] Nanghin è una provincia verso ponente, et è di quelle di Mangi, molto nobile et grande. [2] Sono idolatri et spendono moneta di carta, et è luogo di gran mercantie. [3] Hanno seda, et lavorano panni d’oro et di seda in gran quantità et di molte maniere; abondantissima di tutte le biade et di animali sí domestichi come salvatichi et di uccelli; sono ricchi mercatanti, et per questo è utilissima provincia al signore, massime per le gabelle delle mercantie. [4] Hor tratteremo della nobil città di Saianfu.

62

[0] Della città di Saianfu, che fu espugnata per messer Nicolò et messer Maffio Polo. Cap. 62.

[1] Saianfu è una nobile et gran città nella provincia di Mangi, alla cui iurisditione rispondono dodici città ricche et grandi. [2] Ivi si fanno molte mercantie et arti; abbrucciano i loro corpi; spendono moneta di carta; sono idolatri et sotto l’imperio del Gran Can. [3] Hanno gran quantità di seda, et fassene di bellissimi panni, et similmente d’oro; hanno belle caccie, et da uccellare in gran copia. [4] Et è dotata di tutte le cose che si appartengano ad una nobil città, la qual per la sua potenza si tenne anni tre che non si volse rendere al Gran Can, dapoi che l’hebbe acquistata la provincia di Mangi. [5] Et la causa era questa, che non si poteva approssimar l’essercito alla città se non dalla banda di tramontana, perché dall’altre parte vi erano laghi grandissimi, d’onde si portavano alla città vettovaglie di continuo, né si poteva vietar: la qual cosa essendo referita al Gran Can, ne pigliava un estremo dispiacere, che tutta la provincia di Mangi fosse venuta alla sua obedienza et che questa sola stesse in questa ostinatione. [6] Il che venuto ad orecchie di messer Nicolò et di messer Maffio fratelli, che si trovavano in corte del Gran Can, andorono subito a quello et si profersero di far fare mangani al modo di Ponente, con li quali gettariano pietre di trecento libre che ammazzeriano gli huomini et ruinariano le case. [7] Questo aricordo piacque al Gran Can et hebbelo molto charo, et subito ordinò che li fussero dati fabri eccellenti et maestri di legnami, de’ quali ne erano alcuni christiani nestorini, che sapevano benissimo lavorare. [8] Costoro in pochi giorni fabricorono tre mangani, secondo che li detti fratelli gli ordinavano, quali furono provati in presenza del Gran Can et di tutta la corte, che li videro tirare pietre di trecento libre di peso l’una. [9] Et subito, posti in nave, furono mandati all’essercito, dove, drizzati dinanzi la città di Saianfu, la prima pietra che tirò il mangano cadde con tanto fracasso sopra una casa che gran parte di quella |42v| si ruppe et cadette a terra: la qual cosa impaurí talmente tutti gli habitatori, che pareva che le saette venissero dal cielo, che deliberorono di rendersi, et cosí, mandati ambasciadori, si dettono con li medemi patti et conditioni con le quali s’era resa tutta la provincia di Mangi. [10] Questa espeditione fatta cosí presta crebbe la riputatione et credito a questi duoi fratelli venetiani appresso il Gran Can et tutta la corte.

63

[0] Della città di Singui, et del grandissimo fiume detto Quian. Cap. 63.

[1] Come si parte dalla città di Saianfu et si va da oltre quindeci miglia verso sirocco, si trova la città di Singui, la quale non è molto grande, ma molto buona per le mercantie. [2] Ha grandissima quantità di navi, per esser fabricata appresso il maggior fiume che sia in tutto il mondo, nominato Quian, qual è di larghezza in alcuni luoghi dieci miglia, in altri otto et sei, et per longhezza, fino dove mette capo nel mare Oceano, sono da cento et piú giornate. [3] In detto fiume entrano infiniti altri fiumi che discorrono d’altre regioni, tutti navigabili, che ’l fa esser cosí grosso, et sopra quello infinite città et castella: et sono oltra dugento città et provincie sedeci che participano sopra di quello, per il quale corrono tante mercantie di ogni sorte che è quasi incredibile a chi non l’havesse vedute. [4] Ma, havendo sí lungo corso, dove riceve (come habbiamo detto) tanto numero di fiumi navigabili, non è maraviglia se la mercantia che per quello corre da ogni banda di tante città è innumerabile et di gran ricchezza, et la maggior che sia è il sale, qual navigandosi per quello et per gli altri fiumi, forniscono et le città che vi sono sopra, et quelle che sono fra terra. [5] Messer Marco vidde una volta che fu a questa città di Singui da cinquemila navi, et nondimeno le altre città che sono appresso detto fiume ne hanno in maggior numero. [6] Tutte dette navi sono coperte, et hanno un arbore con una vela, et il cargo che porta la nave per la maggior parte è di quattromila cantari, et fino a dodici che alcune ne portano, intendendo il cantaro al modo di Venetia. [7] Non usano corde di canevo se non per l’arbore della nave, per la vela, ma hanno canne lunghe da quindeci passa, come habbiamo detto di sopra, le quali sfendono da un capo all’altro in molti pezzi sottili, et poi le piegano insieme et fanno di quelle tortizze lunghe trecento passa, non meno forti che le tortizze di canevo, tanto sono con gran diligenza fatte. [8] Con queste in luogo di alzana si tirano su per il fiume le navi, et ciascuna ha dieci o dodici cavalli per far questo effetto di tirarle all’incontro dell’acqua, et ancho a seconda. [9] Sono sopra questo fiume, in molti luoghi, colline et monticelli sassosi, sopra i quali sono edificati monasterii di idoli et altre stantie, et di continuo si trovano villaggi et luoghi habitati.

64

[0] Della città di Cayngui. Cap. 64.

[1] Cayngui è una città picciola appresso il sopradetto fiume verso la parte di sirocco, dove ogni anno si raccoglie grandissima quantità di biade et risi, et portasi la maggior parte alla città di Cambalú per fornir la corte del Gran Can, percioché passano da questa città alla provincia del Cataio per fiumi et per lagune, et per una fossa profonda et larga, che il Gran Can ha fatto fare accioché le navi habbino il transito da un fiume all’altro, et che dalla provincia di Mangi si possi andar per acqua fino in Cambalú senza andar per mare: la qual opera è stata mirabile et bella per il sito et lunghezza di quella, ma molto piú per la grande utilità che ricevono dette città. [2] Vi ha fatto similmente far appresso dette acque terragli grandi et larghi, accioché vi si possa andar ancho per terra commodamente. [3] Nel mezzo del detto fiume, per mezzo la città di Cayngui, vi è una isola tutta di roca, sopra la quale è edificato un gran tempio et monasterio, dove sono dugento a modo di monachi che servono agl’idoli: et questo è il capo et principale di molti altri tempi et monasterii. [4] Hor parleremo della città di Cinghianfu.

65

[0] Della città di Cinghianfu. Cap. 65.

[1] Cinghianfu è una città nella provincia di Mangi, et li popoli sono tutti idolatri et sottoposti alla signoria del Gran Can. [2] Spendono moneta di carta, vivono di mercantie et mestieri, et sono molto ricchi. [3] Lavorano panni d’oro et di seda; et è paese dilettevole da cacciare ogni sorte di salvaticine et uccelli, et è abondante di vettovaglie. [4] Sono in questa città due chiese di christiani nestorini, le quali furono fabricate nel 1274, quando il Gran Can mandò per governator di questa città per tre anni Marsachis, che era christiano nestorino: et costui fu quello che le fece edificare, et da quel tempo in qua vi sono, che per avanti non vi erano. [5] Hor, lasciando questa città, diremo della città di Tinguigui.

66

[0] |45r| Della città di Tinguigui. Cap. 66.

[1] Partendosi da Cinghianfu et cavalcando per sirocco tre giornate, si trovano città assai et castella, et tutti sono idolatri, et vivono di mestieri et ancho mercantie; sono sotto il Gran Can, et spendono moneta di carta. [2] In capo di dette tre giornate si trova la città di Tinguigui, che è bella et grande, et produce quantità di seda, et fanno panni d’oro et di seda di piú maniere et molto belli, et è molto abondante di vettovaglie; è paese molto dilettevole di caccie et uccellare. [3] Gli habitanti sono pessima gente et di mala natura. [4] Nel tempo che Chinsambaiam, cioè Cento Occhi, soggiogò il paese del Mangi, mandò all’acquisto di questa città di Tinguigui alcuni christiani alani con parte della sua gente, quali, appresentatisi, senza contrasto entrorono dentro. [5] Havea la città duoi circuiti di mura, et gli Alani, entrati nel primo, vi trovorono grandissima quantità di vini; et havendo patito grande incommodità et disagio, disiderosi di cavarsi la sede, senza alcun rispetto si missero a bevere, di tal maniera che inebriati si addormentorono. [6] I cittadini, ch’erano nel secondo circuito, visti tutti i nimici adormentati et distesi in terra, si missero ad ucciderli, di modo che niuno vi campò. [7] Inteso Chinsambaian la morte delle sue genti, acceso di grandissima ira et sdegno, di nuovo mandò essercito alla espugnatione della città, la qual presa, fece egualmente andar per fil di spada tutti gli habitanti, grandi et piccioli, sí huomini come femmine.

67

[0] Della città di Singui et Vagiu. Cap. 67.

[1] Singui è una grande et nobile città, la qual gira d’intorno da venti miglia. [2] Sono tutti idolatri et sottoposti al Gran Can; spendono moneta di carta; hanno gran quantità di seda et ne fanno panni, perché tutti vanno vestiti di seda, et ancho ne vendono. [3] Vi sono mercatanti ricchissimi, et tanta moltitudine di gente che è cosa mirabile. [4] Sono huomini pusillanimi, et non sanno far altro che mercantie et mestieri, ma in quelle dimostrano grande ingegno, conciosiacosaché, se fossero audaci et virili et atti alle battaglie, con la gran moltitudine che sono conquistarebbono tutta quella provincia et molto piú oltra. [5] Hanno molti medici, et quelli eccellenti, che sanno cognoscere le infirmità et darli i debiti remedii, et alcuni che chiamano savii, come appresso di noi philosophi, et altri detti maghi et indovini. [6] Sopra li monti vicini a questa città vi nasce il riobarbaro in somma perfettione, che va per tutta la provincia; vi nasce ancho in quantità il gengevo, et vi è tanto buon mercato che quaranta libre di fresco si puol haver per tanta moneta che vagli un grosso d’argento venetiano. [7] Sono sotto la giurisditione di Singui da sedeci buone città, et ricche di gran mercantie et arti. [8] Et Singui vuol dire “città di terra”, come all’incontro Quinsai “città del cielo”. [9] Hor, partendosi da Singui, si trova un’altra città di Vagiu, lontana una giornata, dove è similmente abondanza di seda, et vi sono molti mercanti et artefici: et qui lavorano tele sottilissime et di diverse sorti, et vengono condotte per tutta la provincia. [10] Né altro essendovi degno di memoria, trattaremo della maestra et principale città della provincia di Mangi, nominata Quinsai.

68

[0] Della nobile et magnifica città di Quinsai. Cap. 68.

[1] Partendosi da Vagiu, si cavalca tre giornate, di continuo trovando città, castelli et villaggi, tutti habitati et ricchi. [2] Le genti sono idolatre et sotto la signoria del Gran Can. [3] Doppo tre giornate si trova la nobile et magnifica città di Quinsai, che per la eccellenza, nobiltà et bellezza è stà chiamata con questo nome, che vuol dire “città del cielo”, perché al mondo non vi è una simile, né dove si trovino tanti piaceri, et che l’huomo si reputi essere in paradiso. [4] In questa città messer Marco Polo vi fu assai volte et volse con gran diligentia considerare et intender tutte le condition di quella, descrivendola sopra i suoi memoriali, come qui di sotto si dirà con brevità. [5] Questa città, per commune opinione, ha di circuito cento miglia, perché le strade et canali di quella sono molto larghi et ampli; poi vi sono piazze dove fanno mercato, che per la grandissima moltitudine che vi concorre è necessario che siano grandissime et amplissime. [6] Et è situata in questo modo, che ha da una banda un lago di acqua dolce, qual è chiarissimo, et dall’altra vi è un fiume grossissimo, qual, entrando per molti canali grandi et piccioli che discorrono in cadauna parte della città, et leva via tutte le immonditie et poi entra in detto lago et da quello scorre fino all’Oceano, il che causa bonissimo aere: et per tutta la città si puol andar per terra et per questi rivi. [7] Et le strade et canali sono larghi et grandi, che commodamente vi possono passar barche et carri a portar le cose |45v| necessarie agli habitanti. [8] Et è fama che vi siano dodicimila ponti, fra grandi et piccioli: ma quelli che sono fatti sopra i canali maestri et la strada principale sono stà voltati tanto alti et con tanto magisterio che una nave vi puol passare di sotto senza albero; et nondimeno vi passano sopra carrette et cavalli, talmente sono accommodate piane le strade con l’altezza. [9] Et se non vi fussero in tanto numero non si potria andar da un luogo all’altro. [10] Dall’altro canto della città vi è una fossa, lunga forse quaranta miglia, che la serra da quella banda, et è molto larga et piena d’acqua, che viene dal detto fiume; la qual fu fatta far per quelli re antichi di quella provincia, per potere derivar il fiume in quella ogni fiata che ’l cresce sopra le rive, et serve ancho per fortezza della città; et la terra cavata fu posta dentro, che fa la similitudine di picciol colle che la circonda. [11] Ivi sono dieci piazze principali, oltra infinite altre per le contrade, che sono quadre, cioè mezzo miglio per lato. [12] Et dalla parte davanti di quelle vi è una strada principale, larga 40 passa, che corre dritta da un capo all’altro della città, con molti ponti che la traversano, piani et commodi; et ogni 4 miglia si trova una di queste tal piazze, che hanno di circuito (come è detto) due miglia. [13] Vi è similmente un canale larghissimo, che corre all’incontro di detta strada dalla parte di drieto delle dette piazze, sopra la riva vicina del quale vi sono fabricate case grandi di pietra, dove ripongono tutti i mercatanti che vengono d’India et d’altre parti le sue robe et mercantie, acciò che le siano vicine et commode alle piazze. [14] Et in cadauna di dette piazze, tre giorni alla settimana, vi è concorso di quaranta in cinquantamila persone, che vengono al mercato et portano tutto ciò che si possi desiderare al vivere, perché sempre vi è copia grande di ogni sorte di vittuarie, di salvaticine, cioè caprioli, cervi, daini, lepori, conigli, et d’uccelli, pernici, fagiani, francollini, coturnici, galline, capponi, et tante anitre et oche che non si potriano dir piú, perché se ne allevano tante in quel lago che per un grosso di argento venetiano se ha un paro di oche et duoi para di anitre. [15] Vi sono poi le beccarie, dove ammazzano gli animali grossi, come vitelli, buoi, capretti et agnelli, le qual carni mangiano gli huomini ricchi et gran maestri; ma gli altri che sono di bassa conditione non si astengono da tutte l’altre sorti di carni immonde, senza havervi alcun rispetto. [16] Vi sono di continuo sopra le dette piazze tutte le sorti di herbe et frutti, et sopra tutti gli altri peri grandissimi, che pesano dieci libre l’uno, quali sono di dentro bianchi come una pasta et odoratissimi; persiche alli suoi tempi gialle et bianche, molto delicate. [17] Uva né vino non vi nasce, ma ne viene condotta d’altrove di secca, molto buona, et similmente del vino, del quale gli habitanti non si fanno troppo conto, essendo avezzi a quel di riso et di specie. [18] Vien condotto poi dal mare Oceano ogni giorno gran quantità di pesce all’incontro del fiume per il spatio di venticinque miglia, et vi è copia ancho di quel del lago, che tutt’hora vi sono pescatori che non fanno altro, qual è di diverse sorti, secondo le stagioni dell’anno, et per le immondicie che vengono dalla città è grasso et saporito, che chi vede la quantità del detto pesce non penseria mai che ’l si dovesse vendere; et nondimeno in poche hore vien tutto levato via, tanta è la moltitudine degli habitanti avezzi a vivere delicatamente, perché mangiano et pesce et carne in un medemo convito. [19] Tutte le dette dieci piazze sono circondate di case alte, et di sotto vi sono botteghe dove si lavorano ogni sorte di arti et si vende ogni sorte di mercantie et speciarie, gioie, perle; et in alcune botteghe non si vende altro che vino fatto di risi con speciarie, perché di continuo lo vanno faccendo di fresco in fresco, et è buon mercato. [20] Vi sono molte strade che rispondono sopra dette piazze, in alcune delle quali vi sono molti bagni di acqua fredda, accommodati con molti servitori et servitrici, che attendono a lavare et huomini et donne che vi vanno, percioché da piccioli sono usati a lavarsi in acqua fredda d’ogni tempo, la qual cosa dicono essere molto a proposito della sanità. [21] Tengono anchora in detti bagni alcune camere con l’acqua calda per forestieri, che non potriano patire la fredda, non essendovi avezzi. [22] Ogni giorno hanno usanza di lavarsi, et non mangieriano se non fossero lavati. [23] In altre strade stantiano le donne da partido, che sono in tanto numero che non ardisco a dirlo, et non solamente appresso le piazze, dove sono ordinariamente i luoghi loro deputati, ma per tutta la città; le qual stanno molto pomposamente, con grandi odori et con molte serve et le case tutte adornate. [24] Queste donne sono molto valenti et prattiche in sapere far lusinghe et carezze, con parole pronte et accommodate a cadauna sorte di persone, di maniera che i forestieri che le gustano una volta rimangono come fuor di sé, et tanto sono |46r| presi dalla dolcezza et piacevolezza sua che mai se le possono domenticare: et da qui adviene che, come ritornano a casa, dicono esser stati in Quinsai, cioè in la città del cielo, et non veggono mai l’hora che di nuovo possino ritornarvi. [25] In altre strade stantiano tutti li medici, astrologhi, quali ancho insegnano a leggere et scrivere et infiniti altri mestieri. [26] Hanno li suoi luoghi a torno a torno dette piazze, sopra cadauna delle quali vi sono duoi palazzi grandi, un da un capo et l’altro dall’altro, dove stantiano i signori deputati per il re, che fanno rason immediate se accade alcuna differentia fra li mercatanti, et similmente fra alcuni degli habitanti in quelli contorni. [27] Detti signori hanno carico d’intendere ogni giorno se le guardie che si fanno nelli ponti vicini (come di sotto si dirà) vi siano state o vero habbino mancato, et le puniscono come a loro pare. [28] Al lungo la strada principale, che habbiamo detto che corre da un capo all’altro della città, vi sono da una banda et dall’altra case et palazzi grandissimi con li suoi giardini, et appresso case de artefici che lavorano in le sue botteghe. [29] Et a tutt’hore se incontrano genti che vanno su et giú per le sue faccende, che li accade che a vedere tanta moltitudine ognun crederia che non fusse possibile che si trovasse vittuarie a bastanza di poterla pascere: et nondimeno in ogni giorno di mercato tutte le dette piazze sono coperte et ripiene di genti et mercatanti, che le portano et sopra carri et sopra navi, et tutta si spaccia. [30] Et per dire una similitudine del pevere che si consuma in questa città, accioché da questa si possi considerare la quantità delle vittuarie, carni, vini, speciarie, che alle spese universale che si fanno si ricerchino, messer Marco sentite far il conto, da un di quelli che attendono alle dovane del Gran Can, che in la città di Quinsai, per uso di quella, si consumava ogni giorno quarantatré some di pevere: et cadauna soma è libre dugento et ventitre. [31] Gli habitatori di questa città sono idolatri, et spendono moneta di carta; et cosí gli huomini come le donne sono bianchi et belli, et vestono di continuo la maggior parte di seda, per la grande abondanza che hanno di quella, che nasce in tutto il territorio di Quinsai, oltra la gran quantità che di continuo per mercatanti vien portata di altre provincie. [32] Vi sono dodici arti che sono riputate le principali che habbino maggior corso dell’altre, cadauna delle quali ha mille botteghe, et in cadauna bottega o vero stantia vi dimorano dieci, quindici et venti lavoranti, et in alcune fino a quaranta, sotto il suo patrone o vero maestro. [33] Li ricchi et principal capi di dette botteghe non fanno opera alcuna con le loro mani, ma stanno civilmente et con gran pompa. [34] Il medemo fanno le loro donne et mogli, che sono bellissime, com’è detto, et allevate morbidamente et con gran delicatezze, et vestono con tanti adornamenti di seda et di gioie che non si potria stimare la valuta di quelli. [35] Et anchor che per li re antichi fosse ordinato per legge che cadauno habitante fosse obligato ad essercitare l’arte del padre, nondimeno, come diventano ricchi, li era permesso di non lavorar piú con le proprie mani, ma ben erano obligati di tenire la bottega, et huomini che vi essercitassino l’arte paterna. [36] Hanno le loro case molto ben composte et riccamente lavorate, et tanto si dilettano negli ornamenti, pitture et fabriche, che è cosa stupenda la gran spesa che vi fanno. [37] Gli habitanti naturali della città di Quinsai sono huomini pacifici, per esser stà cosí allevati et avezzi dalli loro re, ch’erano della medema natura. [38] Non sanno maneggiar armi, né quelle tengono in casa; mai fra loro si ode o sente lite o vero differentia alcuna. [39] Fanno le loro mercantie et arti con gran realtà et verità; si amano l’un l’altro, di sorte che una contrada, per l’amorevolezza che è fra gli huomini et le donne per causa della vicinanza, si puol riputare una casa sola, tanta è la domestichezza ch’è fra loro, senza alcuna gelosia o sospetto delle lor donne, alle quali hanno grandissimo rispetto: et saria reputato molto infame uno che osasse dir parole inhoneste ad alcuna maritata. [40] Amano similmente i forestieri che vengono a loro per causa di mercantie et gli accettano volentieri in casa, faccendoli carezze, et li danno ogni aiuto et consiglio nelle faccende che fanno. [41] All’incontro non vogliono veder soldati né quelli delle guardie del Gran Can, parendoli che per causa sua siano stà privati delli loro naturali re et signori. [42] D’intorno di questo lago vi sono fabricati bellissimi edificii et gran palazzi, dentro et di fuori mirabilmente adorni, che sono di gentilhuomini et gran maestri; vi sono ancho molti tempii degl’idoli con li suoi monasterii, dove stanno gran numero di monachi che li servono. [43] Sono anchora in mezzo di questo lago due isole, sopra cadauna delle quali vi è fa|46v|bricato un palazzo, con tante camere et loggie che non si potria credere: et quando alcuno vuol celebrar nozze, o vero far qualche solenne convito, va ad uno di questi palazzi, dove gli vien dato tutto quello che per questo effetto gli è necessario, cioè vasellami, tovaglie, mantili et cadauna altra cosa, le qual sono tenute tutte in detti palazzi per il commune di detta città a questo effetto, perché furono fabricati da quello. [44] Et alle volte vi saranno cento, et alcuni vorranno far conviti et altri nozze: et nondimeno tutti saranno accommodati in diverse camere et loggie, con tanto ordine che uno non dà impedimento agli altri. [45] Oltra di questo si ritrovano in detto lago legni o vero barche in gran numero grandi et picciole per andar a sollazzo et darsi piacere, et in queste vi ponno stare dieci, quindeci et venti et piú persone, perché sono lunghe quindeci fino a venti passa, con fondo largo et piano, che navigano senza declinare ad alcuna banda; et cadauno che si diletta di sollazzarsi con donne o vero con suoi compagni piglia una di queste tal barche, le qual di continuo sono tenute adorne con belle sedie et tavole et con tutti gli altri paramenti necessarii a far un convito; di sopra sono coperte et piane, dove stanno huomini con stanghe qual ficchano in terra (perché detto lago non è alto piú di due passa), et conducono dette barche dove gli vien comandato. [46] La coperta della parte di dentro è dipinta di varii colori et figure, et similmente tutta la barca, et vi sono a torno a torno finestre che si possono serrare et aprire, accioché quelli che stanno a mangiar sentati dalle bande possino riguardare di qua et di là, et dare delettatione agli occhi per la varietà et bellezza d’i luoghi dove vengono condotti. [47] Et veramente l’andare per questo lago dà maggior consolatione et sollazzo che alcuna altra cosa che haver si possa in terra, perché ’l giace da un lato a lungo della città, di modo che di lontano, stando in dette barche, si vede tutta la grandezza et bellezza di quella, tanti sono i palazzi, tempii, monasterii, giardini con alberi altissimi posti sopra l’acqua. [48] Et si trovano di continuo in detto lago simil barche con genti che vanno a sollazzo, perché gli habitatori di questa città non pensano mai ad altro se non che, fatti che hanno i suoi mestieri o vero mercantie, con le sue donne o vero con quelle da partito dispensano una parte del giorno in darsi piacere, o in dette barche o vero in carrette per la città, delle qual è necessario che ne parliamo alquanto, per esser un d’i piaceri che gli habitanti pigliano per la città, al medemo modo che fanno con le barche per il lago. [49] Et prima è da sapere che tutte le strade di Quinsai sono saleggiate di pietre et di mattoni, et similmente sono saleggiate tutte le vie et strade che corrono per ogni canto della provincia di Mangi, sí che si puol andare per tutti i paesi di quella senza imbrattarsi i piedi. [50] Ma perché i corrieri del Gran Can con prestezza non potriano con cavalli correre sopra le strade saleggiate, però è lasciata una parte di strada dalla banda senza saleggiare, per causa di detti corrieri. [51] La strada veramente principale, che habbiamo detto di sopra che corre da un capo all’altro della città, è saleggiata similmente di pietre et di mattoni dieci passa per cadauna banda, ma nel mezzo è tutta ripiena di una giara picciola et minuta, con li suoi condutti in volto che conducono le acque che piovono nelli canali vicini, di sorte che di continuo sta asciutta. [52] Hor sopra questa strada di continuo si veggono andar su et giú alcune carrette lunghe, coperte et acconcie con panni et cussini di seda, sopra le quali vi possono stare sei persone, et vengono tolte ogni giorno da huomini et donne che vogliono andare a solazzo: et si veggono tutt’hora infinite di queste carrette andar a lungo di detta strada per il mezzo di quella, et se ne vanno a’ giardini, dove vengono accettati dagli hortolani sotto alcune ombre fatte per questo effetto, et qui stanno a darsi buon tempo tutto il giorno con le lor donne, et poi la sera se ne ritornano a casa sopra dette carrette. [53] Hanno un costume gli habitatori di Quinsai, che come nasce un fanciullo il padre o la madre fa subito scriver il giorno et l’hora et il punto del suo nascere, et si fanno dire agli astrologhi sotto qual segno l’è nato, et il tutto scrivono: et come egli è venuto grande volendo far mercantia, viaggio o nozze, se ne va all’astrologo con la nota sopradetta, qual, veduto et considerato il tutto, dice alcune volte cose che, trovate esser vere, le genti li danno grandissima fede. [54] Et di questi tal astrologhi o vero maghi ve n’è grandissimo numero sopra cadauna piazza; non si celebraria sponsalitio se l’astrologo non li dicesse il parer suo. [55] Hanno similmente per usanza che, quando alcun gran maestro riccho muore, tutti i suoi parenti si vestono di canevazzo, sí huomini come donne, andandolo accompagnare fino al |47r| luogo dove lo vogliono abbrucciare, et portano seco diverse sorti d’instrumenti, con li quali vanno sonando et cantando in alta voce orationi agl’idoli; et giunti al detto luogo buttano sopra il fuogo molte carte bombasine, dove hanno depinti schiavi, schiave, cavalli, camelli, drappi d’oro et di seda et monete d’oro et d’argento, perché dicono che ’l morto possederà nell’altro mondo tutte queste cose vive di carne et d’ossa, et haverà denari, drappi d’oro et di seda. [56] Et compiuto di abbrucciare suonano ad un tratto con grande allegrezza tutti li stormenti di continuo cantando, perché dicono che con tal honore li suoi idoli ricevono l’anima di quello che si è abbrucciato, et che l’è rinasciuto nell’altro mondo, comincia una vita di nuovo. [57] In questa città in cadauna contrada vi sono fabricate torri di pietra, nelle qual, in caso che si apizzi fuogo in qualche casa (il che spesso suol accadere, per esservene molte di legno), le genti scampano le loro robe in quelle. [58] Et anchor è ordinato per il Gran Can che sopra la maggior parte d’i ponti vi stiano notte et giorno sott’un coperto dieci guardiani, cioè cinque la notte et cinque il giorno, et in cadauna guardia vi è un tabernacolo grande di legno con un bacino grande et un horiuolo, con il quale cognoscono l’hore della notte et cosí quelle del giorno. [59] Et sempre al principio della notte, com’è passata un’hora, un d’i detti guardiani percuote una volta nel tabernacolo et nel bacino, et la contrada sente che l’è un’hora; alla seconda danno due botte, et il simil fanno in cadauna hora multiplicando i colpi, et non dormono mai, ma stanno sempre vigilanti. [60] La mattina poi al spontare del sole cominciano a battere un’hora come hanno fatto la sera, et cosí di hora in hora. [61] Vanno parte di loro per la contrada vedendo se alcuno tiene lume acceso o fuogo oltra le hore deputate, et vedendolo segnano la porta, et fanno che la mattina il patrone compare avanti i signori, qual, non trovando scusa legitima, viene condannato. [62] Se trovano alcuno che vadi di notte oltra l’hore limitate, lo ritengono et la mattina lo appresentano alli signori; item, se ’l giorno veggono alcun povero, qual per esser storpiato non possa lavorare, lo fanno andare a star negli hospitali, che infiniti ve ne sono per tutta la città fatti per li re antichi, che hanno grande entrate; et essendo sano lo constringono a fare alcun mestiero. [63] Immediate che veggono il fuogo acceso in alcuna casa, con il battere nel tabernacolo lo fanno asapere, et vi concorrono li guardiani di altri ponti a estinguerlo et salvare le robe d’i mercatanti o d’altri in dette torri, et anche le mettono in barche et portano all’isole che sono nel lago, perché niuno habitante della città in tempo di notte haveria ardimento di uscir di casa né andare al fuogo, ma solamente vi vanno quelli di chi sono le robe et queste guardie che vanno ad aiutare, le qual non sono mai manco di mille o duoimila. [64] Fanno ancho guardia in caso di alcuna ribellione o sollevatione che facessero gli habitanti della città, et sempre il Gran Can tien infiniti soldati da piè et da cavallo nella città et ne’ contorni di quella, et massime di maggior suoi baroni et suoi fideli ch’egl’habbi, per esserli questa provincia la piú cara, et sopra tutto questa nobilissima città, ch’è il capo et piú ricca di alcun’altra che sia al mondo. [65] Vi sono similmente fatti in molti luoghi monti di terra, lontani un miglio l’un dall’altro, sopra i quali vi è una baltresca di legname dove è appiccata una tavola grande di legno, la qual, tenendola un huomo con la mano, la percuote con l’altra con un martello, sí che si ode molto di lontano: et vi stanno delle dette guardie di continuo per far segno in caso di fuogo, perché, non li faccendo presta provisione, anderia pericolo di ardere mezza la città; o vero, come è detto, in caso di rebellione, che udito il segno tutti i guardiani d’i ponti vicini pigliano l’armi et corrono dove è il bisogno. [66] Il Gran Can, dapoi c’hebbe redutta a sua obedientia tutta la provincia di Mangi, qual era un regno solo, lo volse dividere in nove parti, constituendo sopra cadauna un re, li quali vi vanno a star per governare et administrare giustitia alli popoli. [67] Ogn’anno rendono conto alli fattori di esso Gran Can di tutte l’entrate et di cadauna altra cosa pertinente al suo regno, et si cambiano ogni tre anni, come fanno tutti gli altri officiali. [68] In questa città di Quinsai tiene la sua corte et fa residentia un d’i questi nove re, qual domina piú di cento et quaranta città, tutte ricche et grandi. [69] Né alcuno si maravigli, perché nella provincia di Mangi vi sono 1200 città, tutte habitate da gran moltitudine di genti ricche et industriose; in cadauna delle quali, secondo la grandezza et bisogno, tiene la custodia il Gran Can, perché in alcune vi saranno mille huomini, in altre diecimila o vero ventimila, secondo che ’l giudicherà |47v| che quella città sia piú et manco potente. [70] Né pensiate che tutti siano Tartari, ma della provincia del Cataio, perché li Tartari sono huomini a cavallo, et non stanno se non appresso le città che non siano in luoghi humidi, ma in le situate in luoghi sodi et secchi, dove possino essercitarsi a cavallo. [71] In queste città di luoghi humidi vi manda Cataini et di quelli di Mangi che siano huomini armigeri, perché di tutti li suoi sudditi ogn’anno ne fa eleggere quelli che parono atti alle armi et scriver nel suo essercito, sì che tutti si chiamano esserciti; et gli huomini che si cavano della provincia di Mangi non si mettono alla custodia delle lor proprie città, ma si mandano ad altre che siano discoste venti giornate di cammino, dove dimorano da quattro in cinque anni et poi ritornano a casa, et se li manda degli altri in suo luogo. [72] Et questo ordine osservano i Cataini et quelli della provincia di Mangi, et la maggior parte dell’entrate delle città che si riscuotono nella camera del Gran Can è deputata al mantenere di queste custodie de’ soldati. [73] Et se l’avviene che qualche città ribelli (perché spesse fiate gli huomini, soprapresi da qualche furore o ebrietà, ammazzano i suoi rettori), subito come s’intende il caso, le città propinque mandano tanta gente di questi esserciti che distruggono quelle città che hanno commesso l’errore, perché saria cosa lunga il voler far venire un essercito d’altra provincia del Cataio, che importaria il tempo di duoi mesi. [74] Et di certo la città di Quinsai ha di continua guardia trentamila soldati, et quella che ne ha meno ha mille fra da piedi et da cavallo. [75] Hor parleremo d’un bellissimo palazzo dove habitava il re Fanfur, li precessori del qual fecero serrare un spatio di paese che circondava da dieci miglia con muri altissimi, et lo divisero in tre parti. [76] In quella di mezzo s’entrava per una grandissima porta, dove trovavansi da un canto et dall’altro loggie a piè piano grandissime et larghissime, col coperchio sostentato da colonne, le quali erano depinte et lavorate con oro et azzurri finissimi; in testa poi si vedeva la principale et maggior di tutte l’altre, similmente dipinta con le colonne dorate, et il solaro con bellissimi ornamenti d’oro, et d’intorno alle parieti erano dipinte l’historie di re passati, con grande artificio. [77] Quivi ogni anno, in alcuni giorni dedicati alli suoi idoli, il re Fanfur soleva tenir corte et dar da mangiare alli principali signori, gran maestri et ricchi artefici della città di Quinsai: et ad un tratto vi sentavano a tavola commodamente sotto tutte dette loggie diecimila persone. [78] Et questa corte durava dieci o dodici giorni, et era cosa stupenda et fuor d’ogni credenza il vedere la magnificenza delli convitati, vistiti di seda et d’oro, con tante pietre pretiose adosso, perché ognun si sforzava di andare con maggior pompa et ricchezza che li fosse possibile. [79] Drieto di questa loggia c’habbiamo detto, ch’era per mezzo la porta grande, vi era un muro con un uscio che divideva l’altra parte del palazzo, dove entrati si trovava un altro gran luogo, fatto a modo di claustro, con le sue colonne che sostentavano il portico ch’andava a torno detto claustro: et quivi erano diverse camere per il re et la reina, le quali erano similmente lavorate con diversi lavori, et cosí tutti i parieti. [80] Da questo claustro s’entrava poi in un andito largo passa sei, tutto coperto, ma era tanto lungo che arrivava fino sopra il lago. [81] Rispondevano in questo andito dieci corti da una banda et dieci dall’altra, fabricate a modo di claustri lunghi, con li suoi portichi intorno, et cadauno claustro o vero corte havea cinquanta camere con li suoi giardini, et in tutte queste camere vi stantiavano mille donzelle che ’l re teniva alli suoi servitii; qual andava alcune fiate, con la regina et con alcune delle dette, a sollazzo per il lago, sopra barche tutte coperte di seda, et ancho a visitar li tempii degl’idoli. [82] Le altre due parti del detto serraglio erano partite in boschi, laghi et giardini bellissimi, piantati di arbori fruttiferi, dove erano serrati ogni sorte di animali, cioè caprioli, daini, cervi, lepori, conigli: et quivi il re andava a piacere con le sue damigelle, parte in carretta et parte a cavallo, et non vi entrava huomo alcuno, et faceva che le dette correvano con cani et davano la caccia a questi tal animali; et dapoi che l’erano stracche andavano in quei boschi che rispondevano sopra detti laghi, et qui lasciate le vesti, se ne uscivano nude fuori et entravano nell’acqua et mettevansi a notare, chi da una banda et chi dall’altra, et il re con grandissimo piacere le stava a vedere, et poi se ne ritornava a casa. [83] Alcune fiate si faceva portare da mangiare in quei boschi, ch’erano folti et spessi di alberi altissimi, servito dalle dette damigelle. [84] Et con questo continuo trastullo di donne si allevò senza saper ciò che si fussero armi, la qual cosa alla fine li partorí che, per la viltà et dappocagine sua, il Gran Can li tolse tutto il stado, con grandissi|48r|ma sua vergogna et vituperio, come di sopra si ha inteso. [85] Tutta questa narratione mi fu detta da un ricchissimo mercatante di Quinsai, trovandomi in quella città, qual era molto vecchio et stato intrinseco familiar del re Fanfur, et sapeva tutta la vita sua et havea veduto detto palazzo in essere, nel qual volse lui condurmi. [86] Et perché vi stantia il re deputato per il Gran Can, le loggie prime sono pure come solevano essere, ma le camere delle donzelle sono andate tutte in ruina, et non si vede altro che vestigii; similmente il muro che circondava li boschi et giardini è andato a terra, et non vi sono piú né animali né arbori. [87] Discosto da questa città circa venticinque miglia vi è il mare Oceano, fra greco et levante, appresso il quale vi è una città detta Gampu, dove è un bellissimo porto, al quale arrivano tutte le navi che vengono d’India con mercantie. [88] Et il fiume che viene dalla città di Quinsai entrando in mare fa questo porto, et tutt’il giorno le navi di Quinsai vanno su et giú con mercantie, et ivi caricano sopra altre navi, che vanno per diverse parti dell’India et del Cataio. [89] Havendosi trovato messer Marco in questa città di Quinsai quando si rendé conto alli fattori del Gran Can dell’entrade et numero degli habitanti, ha veduto che sono stà descritti 160 “toman” di fuochi, computando per un fuogo la famiglia che habita in una casa (e cadauno toman contiene diecimila), sí che in tutta la detta città sariano famiglie un millione et seicentomila: et in tanto numero di genti non vi è altra che una chiesa di christiani nestorini. [90] Sono obligati tutti i padri di famiglia di tener scritto sopra la porta della sua casa il nome di tutta la famiglia, cosí de maschi come di femmine; item il numero de’ cavalli: et quando alcuno manca si cancella il nome, et se nasce o si toglie di nuovo si aggiugne il nome, et a questo modo i signori et rettori delle città sanno di continuo il numero delle genti. [91] Et questo si osserva in le provincie del Mangi et del Cataio; et similmente tutti quelli che tengono hostarie scrivono sopra un libro il nome di quelli che vengono ad alloggiare, con il giorno et l’hora che partono, et mandano di giorno in giorno detti nomi alli signori che stanno sopra le piazze. [92] Item nella provincia di Mangi la maggior parte d’i poveri bisognosi, che non possono allevare i suoi figliuoli, li vendono alli ricchi, acciò che meglio siano allevati et piú abondantemente possino vivere.

69

[0] Dell’entrata del Gran Can. Cap. 69.

[1] Hor parliamo alquanto della entrada che ha il Gran Can della città di Quinsai et dell’altre a quella adherenti: il Gran Can riceve da detta città et dall’altre che a quella rispondono, che è la nona parte o vero il nono regno di Mangi; et prima del sale, che val piú quanto alla rendita. [2] Di questo ne cava ogni anno ottanta toman d’oro, et cadauno toman è ottantamila sazzi d’oro, et cadauno sazzo vale piú d’un fiorin d’oro, che ascenderia alla somma di sei millioni et quattrocentomila ducati: et la causa è che essendo detta provincia appresso l’Oceano, vi sono molte lagune, o vero paludi, dove l’acqua del mare l’estate si congela, et vi cavano tanta quantità di sale che ne forniscono cinque altri regni della detta provincia. [3] Qui nasce gran copia di zucchero, qual paga come fanno tutte l’altre specie tre et un terzo per cento; similmente, del vino che si fa di risi; delle dodici arti che habbiamo detto di sopra, che hanno dodicimila botteghe per una. [4] Item tanti mercatanti che portano le sue robe a questa città, et da quella ad altre parti per terra riportano, o vero traggono fuori per mare, pagano similmente tre et un terzo per cento; ma, venendo per mare et di lontani paesi et regioni, come dell’Indie, pagano dieci per cento. [5] Et similmente, di tutte le cose che nascono nel paese, cosí animali come di quel che produce la terra, et seda, si paga la decima al re. [6] Et fatto il conto in presentia del detto messer Marco, fu trovato che l’entrada di questo signor, non computando l’entrada del sale detta di sopra, ascende ogni anno alla somma di 210 tomani, et ogni toman, com’è detto di sopra, vale ottantamila sazzi d’oro, che saria da sedeci millioni d’oro et ottocentomila.

70

[0] Della città di Tapinzu. Cap. 70.

[1] Partendosi dalla città di Quinsai, si cammina una giornata verso sirocco, di continuo trovando case, ville et giardini molti belli et dilettevoli, dove nasce ogni sorte di vittuarie in abondanza; et poi si arriva alla città di Tapinzu, molto bella et grande, che risponde alla città di Quinsai. [2] Adorano idoli, et hanno la moneta di carte; abbrucciano i corpi, et sono sotto il Gran Can; vivono di mercantie et arti. [3] Et altro non vi essendo, si dirà della città di Uguiu.

71

[0] |48v| Della città di Uguiu. Cap. 71.

[1] Da Tapinzu andando verso sirocco tre giornate, si trova la città di Uguiu, et per due altre giornate pur per sirocco si cammina, di continuo trovando città, castella et luoghi habitati; et è tanta la continuatione et vicinità che hanno insieme, che par alli viandanti passare per una sola città; le qual città rispondono a Quinsai. [2] Tutte le genti adorano gl’idoli, et hanno abondanza grande di vittuarie. [3] Qui si trovano canne piú grosse et piú lunghe di quelle dette di sopra, perché ne sono alcune grosse quattro palme et quindeci passa lunghe.

72

[0] Della città di Gengui et di Zengian. Cap. 72.

[1] Andando piú oltra due giornate, si trova la città di Gengui, la qual è molto bella et grande; et dapoi, camminando per sirocco, trovando sempre luoghi habitati et tutti pieni di genti che fanno arti et lavorano la terra, et in questa parte della provincia di Mangi non si trovano montoni, ma sí ben buoi, vacche, buffali, capre et porci in grandissimo numero. [2] In capo di quattro giornate, si trova la città di Zengian, edificata sopra un monte, che è come una isola in mezzo un fiume, perché la diparte in duoi rami, che la circonda, et poi corrono all’opposito l’un dell’altro, cioè uno verso sirocco et l’altro verso maestro. [3] Questa città è sottoposta al Gran Can et risponde a Quinsai; adorano gl’idoli et vivono di mercantie, et hanno gran copia di salvaticine et uccelli. [4] Et passando avanti tre giornate per una bellissima contrada, tutta habitata, con infinite ville et castelli, si trova la città di Gieza, nobile et grande: et è l’ultima della provincia del regno di Quinsai, perché quello è il capo al qual tutte correspondono. [5] Passata questa città di Gieza s’entra in un altro regno delli nove della provincia di Mangi, detto Concha.

73

[0] Del regno di Concha, et della città principale detta Fugiu. Cap. 73.

[1] Partendosi dall’ultima città del regno di Quinsai, qual si chiama Gieza, s’entra nel regno di Concha (e la città principale è detta Fugiu), per il qual si cammina sei giornate alla volta di sirocco sempre per monti et valli, et trovando di continuo luoghi habitati, dov’è gran copia di vittuarie, et vi fanno gran cacciagioni et vanno ad uccellare, per esservi varie sorti d’uccelli. [2] Sono idolatri et sottoposti al Gran Can; fanno mercantie. [3] In questi contorni si trovano leoni fortissimi. [4] Vi nasce il zenzero et galanga in gran copia et di altre sorti di specie, et per una moneta che vaglia un grosso d’argento venitiano si haverà ottanta libre di zenzero fresco, tanto ve n’è abondanza. [5] Vi nasce un’herba che produce un frutto che fa l’effetto et opera come se ’l fosse vero zaffarano, cosí nell’odor come nel colore, et nondimeno non è zaffarano, et è molto stimata et adoperata da tutti gli habitanti ne’ suoi cibi, et per questo è molto cara. [6] Gli huomini in questa regione mangiano volentieri carne humana, non essendo morta di malattia, perché la reputano piú delicata al gusto che alcuna altra. [7] Et quando vanno a combattere si fanno levar i capelli fino all’orecchie, et dipingere la faccia con color azzurro finissimo; portano lanze et spade, et tutti vanno a piedi, eccetto che ’l capitano a cavallo. [8] Sono huomini crudelissimi, di modo che, come uccidono li nimici in battaglia, immediate li vogliono bevere il sangue et dapoi mangiar la carne. [9] Hor, lasciando di questo, diremo della città di Quelinfu.

74

[0] Della città di Quelinfu. Cap. 74.

[1] Camminato che si ha per questo paese per sei giornate, si trova la città di Quelinfu, la qual è nobile et grande. [2] In detta città vi sono tre ponti bellissimi, perché sono lunghi piú di cento passa l’uno et larghi otto, di pietra con colonne di marmo. [3] Le donne di questa città sono bellissime et vivono con gran delicatezza. [4] Hanno gran copia di seda, la qual lavorano in diverse sorti di drappi; item panni bombagini di fil tinto, che va per tutta la provincia di Mangi. [5] Fanno gran mercantie, et hanno zenzero et galanga in gran quantità. [6] Mi fu detto (ma io non le viddi) che si trovano certe sorti di galline che non hanno penne, ma sopra la pelle vi sono peli negri come di gatte, ch’è una strana cosa a vederle, le qual fanno ova come quelle d’i nostri paesi, et sono molto buone da mangiare. [7] Per la moltitudine di leoni che si trovano il passar per quella contrada è molto pericoloso, se non vanno in gran numero le persone.

75

[0] Della città di Unguem. Cap. 75.

[1] Da Quelinfu partendosi, fatte che si ha tre giornate, sempre vedendo et trovando città et castella, dove sono genti idolatre et hanno seda in gran copia, della qual fanno gran mer|49r|cantie, si trova la città di Unguem, dove si fa gran copia di zuccharo, che si manda alla città di Cambalú per la corte del Gran Can. [2] Et prima che questa città fusse sotto il Gran Can non sapevano quelle genti far il zucchero bello, ma lo facevano bollire spiumandolo et dapoi raffreddito rimaneva una pasta nera; ma, venuta all’obedienza del Gran Can, vi si trovorono nella corte alcuni huomini di Babilonia che, andati in questa città, gl’insegnorono ad affinarlo con cenere di certi arbori.

76

[0] Della città di Cangiu. Cap. 76.

[1] Passando avanti per miglia quindeci si trova la città di Cangiu, la qual è del reame di Concha, ch’è uno delli nove reami di Mangi. [2] In questa città dimora grande essercito del Gran Can, per guardar quel paese et per esser sempre apparecchiato se alcuna città volesse ribellarsi. [3] Passa per mezzo di questa città un fiume che ha di larghezza un miglio, sopra le rive del quale, da un canto et dall’altro, vi sono bellissimi casamenti, et vi stanno di continuo assai navi che vanno per questo fiume con mercantie, et massime di zucchero, che ne fanno in grandissima copia. [4] Vi capitano a questa città molte navi d’India, dove sono mercatanti con gran quantità di gioie et perle, delle qual fanno grosso guadagno. [5] Questo fiume mette capo non molto lontano dal porto detto Zaitum, ch’è sopra il mare Oceano; et quivi le navi d’India entrano nel fiume et se ne vengono su per quello fino alla detta città, la qual è abondantissima di tutte le sorti di vittuarie, et di dilettevoli giardini et perfettissimi frutti.

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[0] Della città et porto di Zaitum et città di Tingui. Cap. 77.

[1] Partendosi da Cangiu, passato che si ha il fiume, camminando per sirocco cinque giornate, di continuo si trova terre, castelli et grandi habitationi, ricche et molto abbondanti di ogni vittuaria, et camminasi per monti et anche per piani et boschi assai, nelli quali si trovano alcuni arboscelli d’i quali si raccoglie la canfora. [2] È paese molto abondante di salvaticine; sono idolatri, et sotto il Gran Can, della iurisditione di Cangiu. [3] Et passate cinque giornate, si trova la città di Zaitum, nobile et bella, la qual ha un porto sopra il mare Oceano, molto famoso per il capitare che fanno ivi tante navi con tante mercantie, le qual si spargono per tutta la provincia di Mangi. [4] Et vi viene tanta quantità di pevere che quella che viene condotta di Alessandria alle parti di ponente è una minima parte, et quasi una per cento a comparatione di questa; et saria quasi impossibile di credere il concorso grande di mercatanti et mercantie a questa città, per esser questo un d’i maggior et piú commodi porti che si trovino al mondo. [5] Il Gran Can ha di quel porto grande utilità, perché cadauno mercatante paga di dretto, per cadauna sua mercantia, dieci misure per centenaro. [6] La nave veramente vuole di nolo dalli mercatanti delle mercantie sottili trenta per centenaro, del pevere quarantaquattro per centenaro, del legno di aloe et sandali et altre specie et robe quaranta per centenaro, di sorte che li mercatanti, computato i dretti del re et il nolo della nave, pagano la metà di quello che conducono a questo porto: et nondimeno di quella metà che li avanza fanno cosí grossi guadagni che ogni hora desiderano di ritornarvi con altre mercantie. [7] Sono idolatri, et hanno abondanza di tutte le vittuarie. [8] È molto dilettevol paese et le genti sono molto quiete et dedite al riposo et otioso vivere. [9] Vengono a questa città molti della Superior India, per causa di farsi dipingere la persona con gli aghi (come di sopra habbiamo detto), per essere in questa città molti valenti maestri di questo ufficio. [10] Il fiume che entra nel porto di Zaitum è molto grande et largo, et corre con grandissima velocità, et è un ramo che fa il fiume che viene dalla città di Quinsai; et dove si parte dall’alveo maestro vi è la città di Tingui, della qual non si ha da dir altro se non che in quella si fanno le scudelle et piadene di porcellana, in questo modo, secondo che li fu detto. [11] Raccolgono una certa terra come di una minera et ne fanno monti grandi, et lascianli al vento, alla pioggia et al sole per trenta et quaranta anni, che non li movono: et in questo spatio di tempo la detta terra si affina, che poi si puol far dette scudelle, alle qual danno di sopra li colori che vogliono, et poi le cuocono in la fornace. [12] Et sempre quelli che raccolgono detta terra la raccolgono per suoi figliuoli o nepoti. [13] Vi è in detta città gran mercato, di sorte che per un grosso venetiano si haverà otto scodelle. [14] Hor, havendo detto di alcune città del regno di Concha, che è uno delli nove della provincia di Mangi, del quale il Gran Can ha quasi cosí grande entrada come del regno di Quinsai, lasseremo di parlar piú di questi tal regni, perché messer Marco non vi fu in alcun d’essi, come fu in questi duoi di Quinsai et di Concha. [15] Et è da sapere che in tutta |49v| la provincia di Mangi si osserva una sola favella et una sola maniera di lettere; nondimeno vi è diversità nel parlare per le contrade, come saria a dir Genovesi, Milanesi, Fiorentini et Pugliesi, che, anchor che parlino diversamente, nondimeno si possono intendere. [16] Ma, perché anchor non è compiuto quanto messer Marco ha deliberato di scrivere, si metterà fine a questo secondo libro, et si cominciarà a parlare delli paesi, città et provincie dell’India Maggior, Menor et Mezzana, nelle parti delle qual è stato quando si trovava alli servitii del Gran Can, mandato da quello per diverse faccende, et dapoi quando li venne con la regina del re Argon, con suo padre et barba, et ritornò alla patria: però si dirà delle cose maravigliose che ’l vidde in quelle, non lasciando adrieto le altre che udí dire da persone di riputatione et degne di fede, et anche che li fu mostrato sopra carte di marinari di dette Indie.

Libro Terzo.

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[0] Dell’India Maggiore, Menor et Mezzana, et de’ costumi et consuetudini degli habitanti in quella, et molte cose notabili et maravigliose che vi sono, et prima della sorte delle navi di quella. Cap. 1.

[1] Poi c’habbiamo detto di tante provincie et terre, come havete udito di sopra, lascieremo il parlar di quella materia et comincieremo a entrare nell’India, per referire tutte le cose maravigliose che vi sono, principiando dalle navi de’ mercanti, le qual sono fabricate di legno di abiete et di zapino, et cadauna ha una coperta sotto la qual vi sono piú di sessanta camerette, et in alcune manco, secondo che le navi sono piú grandi et piú picciole, et in cadauna vi può stare agiatamente un mercante. [2] Hanno un buon timone et quattro arbori con quattro vele, et alcune due arbori, che si levano et pongono ogni volta che vogliono. [3] Hanno oltra di ciò alcune navi, cioè quelle che sono maggiori, ben tredici colti, cioè divisioni dalla parte di dentro fatte con ferme tavole incastrate, di modo che, s’egli accade che la nave si rompa per qualche fortuito caso, cioè o che ferisca in qualche sasso o vero qualche balena mossa dalla fame quella percuotendo rompa (il che spesse volte aviene), perché quando la nave, navigando di notte, faccendo innondare l’acqua passa a canto la balena, essa, vedendo biancheggiar l’acqua, pensa di ritrovarvi cibo et corre velocemente et ferisce la nave, et spesse fiate la rompe in qualche parte, et allhora, entrando l’acqua per la rottura, discorre alla sentina, la qual mai non è occupata d’alcuna cosa; onde i marinari, trovando in che parte è rotta la nave, votano il colto negli altri che a quella rottura respondono, perché l’acqua non può passare d’un colto all’altro, essendo quelli cosí ben incastrati, et allhora acconciano la nave, et poi vi ripongono le mercantie ch’erano stà cavate fuori. [4] Sono le navi inchiavate in questo modo: tutte sono doppie, cioè che hanno due mani di tavole una sopra l’altra intorno intorno, et sono calcate con stoppa dentro et di fuori et inchiodate con chiovi di ferro; non sono impegolate, perché non hanno pece, ma la ungono in questo modo: tolgono calcina et canapo et taglianlo minutamente, et pestato il tutto insieme mescolano con un certo oglio di arbore, che si fa a modo d’un unguento, ch’è piú tenace di vischio et miglior che la pece. [5] Queste navi che sono grandi vogliono trecento marinari, altre dugento, altre centocinquanta, piú et manco, secondo che sono piú grandi et piú picciole, et portano da cinque in seimila sporte di pevere. [6] Et già per il passato solevano esser maggiori che non sono al presente, ma, havendo l’empito del mare talmente rotto l’isole in molti luoghi, et massime nei porti principali, che non si trovava acqua sofficiente a levar quelle navi cosí grandi, però sono state fatte al presente minori. [7] Con queste navi si va ancho a remi, et cadauno remo vuol quattro huomini che ’l voghi; et queste navi maggiori menano seco due et tre barche grandi, che sono di portata di 1000 sporte di pevere et piú, et vogliono al suo governo da sessanta marinari, altre da ottanta, altre da cento. [8] Et quelle piú picciole aiutano spesso a tirare le grandi con corde quando vanno a remi, et an|50r|chora quando vanno a vela, se il vento è alquanto da traverso, perché le picciole vanno avanti le grandi e, legate con le corde, tirano la nave grande; ma se hanno il vento per il dritto no, perché le vele della maggior nave impedirebbono che ’l vento non ferirebbe nelle vele delle minori, et cosí la maggiore andarebbe adosso alle minori. [9] Item queste navi conducono ben dieci battelli piccioli per l’ancora, et per cagione di pescare et di far tutti li servigii, et questi battelli si legano di fuori dei lati delle navi grandi, et quando vogliono si mettono in acqua; et le barche similmente hanno li suoi battelli. [10] Et quando vogliono racconciar la nave, poi che ha navigato un anno o piú, havendo bisogno di concia li ficchano tavole a torno a torno sopra le due prime tavole, di modo che sono tre man di tavole, et le calcano et ungonle; et volendole pur racconciare un’altra volta le ficchano di nuovo un’altra man di tavole, et cosí procedono di concia in concia fino al numero di sei tavole l’una sopra l’altra, et da lí in su la nave si manda alla mazza né piú si naviga con quella per mare. [11] Hor, havendo detto delle navi, diremo dell’India; ma prima vogliamo dire d’alcune isole che sono nel mare Oceano, dove siamo al presente, et cominciaremo dall’isola chiamata Zipangu.

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[0] Dell’isola di Zipangu. Cap. 2.

[1] Zipangu è un’isola in oriente, la qual è discosta dalla terra et lidi di Mangi in alto mare millecinquecento miglia, et è isola molto grande, le cui genti sono bianche et belle et di gentil maniera. [2] Adorano gl’idoli et mantengonsi per se medesimi, cioè che si reggono dal proprio re. [3] Hanno oro in grandissima abbondanza, perché ivi si trova fuor di modo et il re non lo lascia portar fuori; però pochi mercatanti vi vanno, et rare volte le navi d’altre regioni. [4] Et per questa causa diremovi la grand’eccellenza delle ricchezze del palazzo del signore di detta isola, secondo che dicono quelli c’hanno prattica di quella contrada: v’ha un gran palazzo tutto coperto di piastre d’oro, secondo che noi copriamo le case o vero chiese di piombo, et tutti i sopracieli delle sale et di molte camere sono di tavolette di puro oro molto grosse, et cosí le finestre sono ornate d’oro. [5] Questo palazzo è cosí ricco che niuno potrebbe giamai esplicare la valuta di quello. [6] Sono anchora in questa isola perle infinite le quali sono rosse, ritonde et molto grosse, et vagliono quanto le bianche, et piú. [7] Et in questa isola alcuni si sepeliscono quando son morti, alcuni s’abbrucciano, ma a quelli che si sepeliscono vi si pone in bocca una di queste perle, per esser questa la loro consuetudine. [8] Sonvi etiandio molte pietre preciose. [9] Questa isola è tanto ricca che per la fama sua il Gran Can ch’al presente regna, che è Cublai, deliberò di farla prendere et sottoporla al suo dominio. [10] Mandò adunque duoi suoi baroni con gran numero di navi piene di gente per prenderla, de’ quali uno era nominato Abbaccatan et l’altro Vonsancin, quali, partendosi dal porto di Zaitum et Quinsai, tanto navigorono per mare che pervennero a questa isola. [11] Dove smontati, nacque invidia fra loro, che l’uno dispregiava di obedire alla volontà et consiglio dell’altro, per la qual cosa non poteron pigliare alcuna città o castello, salvo che uno che presono per battaglia, però che quelli ch’erano dentro non si volsero mai rendere: onde, per comandamento d’i detti baroni, a tutti furono tagliate le teste, salvo che a otto huomini, li quali si trovò c’havevano una pietra preciosa incantata per arte diabolica cucita nel braccio destro fra la pelle et carne, che non potevano esser morti con ferro né feriti. [12] Il che intendendo, quei baroni fecero percotere li detti con un legno grosso, et subito morirono. [13] Avvenne un giorno che ’l vento di tramontana cominciò a soffiar con grande impeto, et le navi de’ Tartari, ch’erano alla riva dell’isola, sbattevano insieme. [14] Li marinari adunque consigliatisi deliberorono slontanarsi da terra, onde, entrato l’essercito nelle navi, si allargorono in mare, et la fortuna cominciò a crescere con maggior forza, di sorte che se ne ruppero molte, et quelli che v’erano dentro, notando con pezzi di tavole, si salvorono ad una isola vicina a Zipangu quattro miglia. [15] Le altre navi che non erano vicine, scapolate dal naufragio con li duoi baroni, havendo levati gli huomini da conto, cioè li capi de’ centenari di mille et diecemila, drizzorono le vele verso la patria et al Gran Can. [16] Ma i Tartari rimasti sopra l’isola vicina (erano da circa trentamila), vedendosi senza navi et abbandonati dalli capitani, non havendo né arme da combattere né vettovaglie, credevano di dovere essere presi et morti, massimamente non vi essendo in detta isola habitatione dove potessero ripararsi. [17] Cessata la fortuna et essendo il mare tran|50v|quillo et in bonaccia, gli huomini della grande isola di Zipangu, con molte navi et grande essercito, andorono all’isola vicina per pigliar li Tartari che ivi s’erano salvati, et smontati delle navi si missero ad andarli a trovare con poco ordine. [18] Ma li Tartari prudentemente si governorono, percioché l’isola era molto elevata nel mezzo, et mentre che li nimici per una strada s’affrettavano di seguitarli, essi andando per un’altra circondorono a torno l’isola et pervennero alli navilii delli nimici, quali trovorono con le bandiere et abbandonati; et sopra quelli immediate montati andorono alla città maestra del signor di Zipangu, dove, vedendosi le loro bandiere, furono lasciati entrare, et quivi non trovorono altro che donne, le qual tennero per loro uso, scacciando fuori tutto il resto del popolo. [19] Il re di Zipangu, intesa la cosa come era passata, fu molto dolente, et subito se ne venne a mettere l’assedio, non vi lassando entrare né uscire persona alcuna, qual durò per mesi sei; dove, vedendo i Tartari che non potevano haver aiuto alcuno, al fine si resero salve le persone: et questo fu correndo gli anni del Signore 1264. [20] Il Gran Can dopo alcuni anni, havendo inteso il disordine sopradetto, successo per causa della discordia d’i duoi capitani, fece tagliar la testa ad un di loro, l’altro mandò ad una isola salvatica detta Zorza, dove suol far morire gli huomini che hanno fatto qualche mancamento, in questo modo: gli fa ravolgere tutte due le mani in un cuoio di buffalo allhora scorticato et strettamente cucire, qual come si secca si strigne talmente intorno che per niuno modo si può movere, et cosí miseramente finiscono la loro vita, non possendosi aiutare.

3

[0] Della maniera degli idoli di Zipangu, et come gli habitanti mangiano carne humana. Cap. 3.

[1] In questa isola di Zipangu et in le altre vicine tutti i loro idoli sono fatti diversamente, perché alcuni hanno teste di buoi, altri di porci, altri di cani et di becchi et di diverse altre maniere; et ve ne sono alcuni c’hanno un capo et duoi volti, altri ‹tre› capi, cioè uno nel luogo debito et gli altri due sopra ciadauna delle spalle, altri c’hanno quattro mani, alcuni dieci et altri cento; quelli che ne hanno piú si tiene che habbiano piú virtú, et a quelli fanno maggior riverentia. [2] Et quando i christiani li dimandano perché fanno li suoi idoli cosí diversi, rispondono: «Cosí i nostri padri et predecessori gli hanno lasciati, et parimente cosí noi li lasciamo a’ nostri figliuoli et successori». [3] Le operationi di questi idoli sono di tante diversità, et cosí scelerate et diaboliche, che saria cosa impia et abominabile a raccontarle nel libro nostro. [4] Ma vogliamo che sappiate almeno questo, che tutti gli habitatori di queste isole che adorano gl’idoli, quando prendono qualcuno che non sia loro amico et che non si possa riscuotere con danari, convitano tutti i suoi parenti et amici a casa sua, et fanno uccidere quell’uomo suo prigione et lo fanno cuocere, et mangianlo insieme allegramente, però che dicono che la carne humana è la piú saporita et miglior che trovar si possa al mondo.

4

[0] Del mare detto Cin, che è per mezzo la provincia di Mangi. Cap. 4.

[1] Et è da sapere che ’l mare dov’è questa isola si chiama mare Cin, che tanto vuol dire quanto “mare ch’è contra Mangi”: et nella lingua di costoro dell’isola, Mangi si chiama Cin. [2] Et questo mare Cin ch’è in levante è cosí lungo et largo che i savi pilotti et marinari, che per quello navigano et conoscono la verità, dicono che in quello vi sono settemilaquattrocento et quaranta isole, et per la maggior parte habitate, et che non vi nasce arbore alcuno dal quale non esca un buon et gentil odore, et vi nascono molte specie di diverse maniere, et massime legno aloe; il pevere in grande abondanza, bianco et nero. [3] Non si potrebbe dire la valuta dell’oro et altre cose che si truovano in queste isole, ma sono cosí discoste da terra ferma che con gran difficultà et fastidio vi si può navigare; et quando vi vanno le navi di Zaitum o di Quinsai ne conseguiscono grandissima utilità, ma stanno un anno continuo a fare il suo viaggio, perché vanno l’inverno et ritornano la state, però che hanno solamente venti di due sorti, de’ quali uno regna la state et l’altro l’inverno, di modo che vanno con un vento et ritornano con l’altro. [4] Et questa contrada è molto lontana dall’India. [5] Et perché dicemmo che questo mare si chiama Cin, è da sapere che questo è il mare Oceano, ma, come noi chiamiamo il mare Anglico et il mare Egeo, cosí loro dicono il mare Cin et il mare Indo: ma tutti questi nomi si contengono sotto il mare Oceano. [6] Hor lasciaremo di parlar di questo paese et isole, perché sono troppo fuor di strada et io non vi son stato, né quelle signoreggia il Gran Can; ma ritorniamo a Zaitum.

5

[0] |51r| Del colfo detto Cheinan et de’ suoi fiumi. Cap. 5.

[1] Partendosi dal porto di Zaitum, si naviga per ponente alquanto verso garbin mille et cinquecento miglia, passando un colfo nominato Cheinan, il qual colfo dura di lunghezza per il spatio di due mesi, navigando verso la parte di tramontana, il qual per tutto confina verso sirocco con la provincia di Mangi, et dall’altra parte con Ania et Toloman et con molte altre provincie con quelle di sopra nominate. [2] Per dentro a questo colfo vi sono isole infinite, et quasi tutte sono bene habitate, et trovasi in quelle gran quantità d’oro di paiola, qual si raccoglie dell’acqua del mare dove sboccano i fiumi, et anchora di rame et d’altre cose: et fanno mercantie di quello che si trova in una isola et non si trova nell’altra. [3] Et contrattono anchora con quelli di terra ferma, perché li vendono oro, rame et altre cose, et da loro comprano le cose che sono loro necessarie. [4] Nella maggior parte di dette isole vi nasce assai grano. [5] Questo colfo è tanto grande, et tante genti habitano in quello, che par quasi un altro mondo.

6

[0] Della contrada di Ziamba, et del re di detto regno, et come si fece tributario del Gran Can. Cap. 6.

[1] Hor ritorniamo al primo trattato, cioè che partendosi da Zaitum, poi che si ha navigato al traverso di questo colfo (come si ha detto di sopra) millecinquecento miglia, si trova una contrada nominata Ziamba, la quale è molto ricca et grande. [2] Reggesi dal proprio re, et ha favella da per sé. [3] Le sue genti adorano gl’idoli, et danno tributo al Gran Can di elefanti et legno d’aloe ogni anno: et narraremovi il come et perché. [4] Avvenne che Cublai Gran Can nel 1268, intesa la gran ricchezza di questa isola, volse mandar un suo barone nominato Sagatu, con molte genti a piedi et a cavallo, per acquistarla, et mosse gran guerra a quel regno. [5] Et il re, ch’era molto vecchio, nominato Accambale, non havendo genti con le quali potesse far resistenza alle forze di esso Gran Can, si ridusse alle fortezze de’ castelli et città, ch’erano sicurissime et difendevasi francamente. [6] Ma i casali et habitationi ch’erano per le pianure furono rovinate et guaste, et il re, vedendo che queste genti distruggevano et rovinavano del tutto il suo regno, mandò ambasciadori al Gran Can, isponendoli che essendo egli huomo vecchio et havendo sempre tenuto il suo regno in tranquilla pace, li piacesse di non volere la destruttione di quello, ma che, volendo indi rimovere detto barone con le sue genti, li farebbe honorati presenti ogni anno, con il tributo di elefanti et di legno aloe. [7] Il che intendendo il Gran Can, mosso a pietà, comandò subito al detto Sagatu che dovesse partirsi et andare ad acquistar altre parti, il che fu eseguito immediate. [8] Et da quel tempo in qua il re manda al Gran Can per tributo ogni anno grandissima quantità di legno di aloe, et venti elefanti de’ piú belli et maggiori che trovar si possano nelle sue terre: et in tal modo questo re si fece suddito del Gran Can. [9] Hora, lasciando di questo, diremo delle conditioni del re et della sua terra. [10] Et prima, in questo regno alcuna donzella di conveniente bellezza non si può maritare se prima non è presentata al re, et se la gli piace se la tiene per alcuno tempo, et poi le fa dare tanti danari che, secondo la sua conditione, la si possa honorevolmente maritare. [11] Et messer Marco Polo nel 1280 fu in questo luogo, et trovò che ’l detto re havea trecento et venticinque figliuoli tra maschi et femmine, i quali maschi per la maggior parte erano valenti nell’armi. [12] Sono in questo regno molti elefanti et gran copia di legno di aloe; sonvi anchora molti boschi di ebano, il qual è molto nero, et fannosi di quei bellissimi lavori. [13] Altre cose degne di relatione non vi sono, onde, partendoci di qui, narreremo dell’isola chiamata Giava Maggiore.

7

[0] Dell’isola detta Giava. Cap. 7.

[1] Partendosi da Ziamba, navigando tra mezzodí et sirocco mille et cinquecento miglia, si trova una grandissima isola chiamata Giava, la quale, secondo che dicono alcuni buoni marinari, è la maggior isola che sia al mondo, imperoché gira di circuito piú di tremila miglia: et è sotto il dominio d’un gran re, le cui genti adorano gl’idoli, né danno tributo ad alcuno. [2] Questa isola è piena di molte ricchezze: il pevere, noci moschiate, spico, galanga, cubebe, garofali, et tutte l’altre buone specie nascono in questa isola, alla qual vanno molte navi con gran mercantie, delle quali ne conseguiscono gran guadagno et utilità, perché vi si trova tanto oro che niuno lo potrebbe mai credere né raccontarlo. [3] Et il Gran Can non ha procurato di soggiogarla, et questo per la lunghezza del viaggio et il pericolo di navigare. [4] Et da quest’isola i mercatanti di Zaitum et di Mangi hanno tratto molto oro et traggon|51v|lo tutto ’l giorno, et la maggior parte delle specie che si portano per il mondo si cava da questa isola.

8

[0] Dell’isole di Sondur et Condur et del paese di Lochac. Cap. 8.

[1] Partendosi da quest’isola di Giava, si naviga verso mezzodí et garbin settecento miglia, et si trovano due isole, una delle quali è maggiore, l’altra minore: la prima è nominata Sondur, l’altra Condur, le quali due isole sono dishabitate, et perciò si lassano di parlarne. [2] Et partendosi da queste, come si ha navigato per sirocco da cinquanta miglia, si trova una provincia ch’è di terra ferma, molto riccha et grande, nominata Lochac, le cui genti adorano gl’idoli. [3] Hanno favella da per sé et reggonsi dal proprio re, né danno tributo ad alcuno, perché sono in tal luogo che niuno può andarvi a far danno; perché, se ivi si potesse andare, il Gran Can immediate la sottometteria al suo dominio. [4] In quest’isola nasce verzin domestico in gran quantità; oro hanno in tanta abondanza che alcuno non lo potrebbe mai credere; hanno elefanti et molte cacciagioni da cani et da uccelli; et da questo regno si traggono tutte le porcellane che si portano per gli altri paesi, et si spende per moneta, com’è detto di sopra. [5] Et vi nasce una sorte di frutti chiamati “berci”, che sono domestici et grandi come limoni, et molto buoni da mangiare. [6] Altre cose non vi sono da conto, se non che ’l luogo è molto salvatico et montuoso, et pochi huomini vi vanno, perché il re non consente che alcuno li vada, accioché non conosca il thesoro et i secreti suoi.

9

[0] Dell’isola di Pentan et regno di Malaiur. Cap. 9.

[1] Partendosi di Lochac, si naviga cinquecento miglia per mezzodí, et trovasi una isola chiamata Pentan, la quale è in un luogo molto salvatico. [2] Et tutti i boschi di quell’isola producono arbori odoriferi. [3] Et fra la provincia di Lochac et l’isola di Pentan, per miglia sessanta, in molti luoghi non si trova acqua, se non per quattro passa alta, et per questo bisogna che li naviganti levino piú alto il timone, perché non hanno acqua se non da cerca quattro passa. [4] Et quando si ha navigato questi sessanta miglia verso sirocco, si va piú oltra circa trenta miglia et si trova un’isola ch’è regno, et chiamasi la città Malaiur, et cosí l’isola Malaiur, le cui genti hanno re et linguaggio per sé. [5] La città certamente è nobilissima et grandissima, et fannosi in quella molte mercantie d’ogni specie, perché ivi ne sono in abondanza. [6] Né vi sono altre cose notabili, onde, procedendo piú oltra, tratteremo della Giava Minore.

10

[0] Dell’isola Giava Minore. Cap. 10.

[1] Quando si parte dall’isola Pentan et che s’è navigato cerca a cento miglia per sirocco, trovasi l’isola di Giava Minore: ma non è però cosí picciola che non giri cerca duemila miglia a torno a torno. [2] Et in questa isola sono otto reami et otto re, le genti della quale adorano gl’idoli, et in cadauno regno vi è linguaggio da sua posta, diverso dalla favella degli altri regni. [3] Vi è abondanza di thesoro et di tutte le specie et di legno di aloe, verzino, ebano, et di molte altre sorti di specie, che alla patria nostra, per la lunghezza del viaggio et pericoli del navigare, non si portano, ma portansi alla provincia di Mangi et del Cataio. [4] Hor vogliamo dire della maniera di queste genti, di cadauna partitamente per sé. [5] Ma primamente è da sapere che questa isola è posta tanto verso le parti di mezzogiorno che quivi la stella tramontana non si può vedere. [6] Et messer Marco fu in sei reami di questa isola, delli quali qui se ne parlerà, lassando gli altri dui che non vidde.

11

[0] Del regno di Felech, ch’è sopra la Giava Minore. Cap. 11.

[1] Cominciamo adunque a narrare del regno di Felech, il quale è uno delli detti otto. [2] In questo regno tutte le genti adorano gl’idoli, ma per li mercatanti sarraceni, che del continuo ivi conversano, si sono convertiti alla legge di Macometto, cioè quelli che habitano nelle città; et quelli che habitano nei monti sono come bestie, però che mangiano carne humana, et generalmente ogni sorte de carni monde et immonde; et adorano diverse cose, perché quando alcuno si leva su la mattina adora la prima cosa ch’ei vede per tutto quel dí.

12

[0] Del secondo regno di Basma. Cap. 12.

[1] Partendosi da questo regno, si entra nel regno di Basma, il qual è da per sé et ha linguaggio da sua posta, le cui genti non hanno legge, ma vivono come le bestie. [2] Si chiamano per il Gran Can, nondimeno non li danno tributo, perché sono lontani, di sorte che le genti del Gran Can non posson andare a quelle parti: ma tutti dell’isola si chiamano per lui, et alle volte, per quelli che passano di là, li mandano qualche bella cosa et strana per presenti, et |52r| specialmente di certa sorte di astorri. [3] Hanno molti elefanti salvatichi et leoncorni, che sono molto minori degli elefanti, simili alli buffali nel pelo; li suoi piedi sono simili a quelli degli elefanti; hanno un corno in mezzo del fronte, et nondimeno non offendono alcuno con quello, ma solamente con la lingua et con le ginocchia, perché hanno sopra la lingua alcune spine lunghe et aguzze, et quando vogliono offendere alcuno lo calpestano con le ginocchia et lo deprimono, poi lo feriscono con la lingua. [4] Hanno il capo come d’un cinghiale, et portano il capo basso verso la terra. [5] Et sta volentieri nel fango, et sono bruttissime bestie, et non sono tali quali si dicono esser nelle parti nostre, che si lasciano prendere dalle donzelle, ma è tutto il contrario. [6] Hanno molte simie et di diverse maniere; hanno astorri tutti neri come corbi, i quali sono molto grandi et prendono gli uccelli benissimo. [7] Sappiate esser una gran bugia quello che si dice, che gli huomini piccolini morti et secchi siano portati dall’India, perché tali huomini in questa isola sono fatti a mano, et diremovi in che modo. [8] In questa isola è una sorte di simie, che sono molto piccole et hanno il volto simile al volto humano. [9] I cacciatori le prendono et pelano, lassandoli solamente i peli nelle barbe et altri luoghi, a similitudine dell’huomo; dapoi le mettono in alcune cassette di legno, et fannole seccare et acconciare con canfora et altre cose, talmente che pareno propriamente che siano stati huomini. [10] Le vendono a’ mercatanti che le portano per lo mondo, et questo è un grande inganno, però che sono fatti al modo che havete inteso, perché né in India né in alcune altre parti salvatiche mai furono veduti huomini cosí piccolini come paiono quelli. [11] Hora non diciamo piú di questo regno, perché non vi sono altre cose da dire; et però diremo del regno nominato Samara.

13

[0] Del terzo regno di Samara. Cap. 13.

[1] Partendosi da Basma, si trova il regno di Samara, il quale è nell’isola sopradetta, dove messer Marco Polo stette cinque mesi, per il tempo contrario che lo costrinse a starvi a suo mal grado. [2] La tramontana quivi anchora non si vede, né si veggono ancho le stelle che sono nel Carro. [3] Quelle genti adorano gl’idoli; hanno re grande et potente, et chiamansi per il Gran Can. [4] Et cosí stando detto messer Marco tanto tempo in queste isole, discese in terra con cerca duomila huomini in sua compagnia, et per paura di quelle genti bestiali, che volentieri prendono gli huomini et gli ammazzano et mangianli, fece cavar fosse grandi verso l’isola intorno di sé, i capi de’ quali finivano sopra il porto del mare dall’una parte et l’altra, et sopra le fosse fece far alcuni edificii o vero baltresche di legname; et cosí stette sicuramente cinque mesi in quelle fortezze con la sua gente, perché vi è moltitudine di legname, et quelli della isola contrattavano con loro di vettovaglie et altre cose, perché si fidavano. [5] Ivi sono i migliori pesci che si possino mangiare al mondo; non hanno formento, ma vivono di risi; non hanno vino, ma hanno una sorte d’arbori che s’assomigliano alle palme et dattaleri che, tagliandoli un ramo et mettendoli sotto un vaso, butta un liquore che l’empie in un giorno et una notte, et è ottimo vino da bere, et è di tanta virtú che libera gli hidropici et tisici et quelli che patiscono il male di spienza. [6] Et quando quei tronchi non mandano piú liquore fuori adacquano gli arbori, secondo che veggono esser necessario, con condutti che si traggono da’ fiumi, et quando sono adacquati mandano fuori il liquore come prima. [7] Et sonvi alcuni arbori che di natura mandano fuori il liquor rosso, et alcuni bianco. [8] Trovasi ancho noci d’India, grosse come è il capo dell’huomo, le quali sono buone da mangiar, dolci et saporite et bianche come latte, et il mezzo della carnosità di detta noce è pieno di un liquore come acqua chiara et fresca, et di sapor miglior et piú delicato che ’l vino o vero di alcuna altra bevanda che mai si bevesse. [9] Mangiano finalmente ogni sorte di carni, buone et cattive, senza farli differenza alcuna.

14

[0] Del quarto regno di Dragoian. Cap. 14.

[1] Dragoian è un regno che ha re et favella da sua posta; quelle genti sono salvatiche et adorano gl’idoli, et si chiamano per il Gran Can. [2] Et diremovi una horrenda loro consuetudine, che osservano quando alcuno di loro casca in qualche infermità. [3] Li parenti suoi mandano per li maghi et incantatori, et fanno che costoro vedino et esaminino diligentemente se questi infermi hanno da guarire o no; et questi maghi, secondo la risposta che fanno li diavoli, gli rispondono s’el dee guarire. [4] Et se dicono di no, i parenti dell’infermo mandano |52v| per alcuni huomini (a questo specialmente deputati), che sanno con destrezza chiudere la bocca dell’infermo, et suffocato che l’hanno lo fanno in pezzi et cuoconlo, et cosí cotto i suoi parenti lo mangiano insieme allegramente, et tutto integramente fino alle midolle che sono nell’ossa, di modo che di lui non resta sustancia alcuna, percioché se vi rimanesse dicono che crearebbe vermini, et mancando ad essi il cibo morrebbono: et per la morte di questi tal vermini dicono che l’anima del morto patirebbe gran pena. [5] Poi, tolte l’ossa, le ripongono in una bella cassetta piccola, et portanla in qualche caverna ne’ monti et la sepeliscono, accioché non siano tocche da bestia alcuna. [6] Et anchora, se possono prendere qualche huomo che non sia del suo paese, non potendosi riscattare, l’uccidono et mangianlo.

15

[0] Del quinto regno di Lambri. Cap. 15.

[1] Lambri è un regno che ha re et favella da sua posta, le sue genti adorano gl’idoli, et chiamansi del Gran Can. [2] Hanno verzino in gran quantità, et canfora et molte altre specie. [3] Seminano una pianta che è simile al verzino, et quando la è nata et cresciuta in piccoli ramiscelli li cavano et li piantano in altri luoghi, dove li lasciano per tre anni; dipoi li cavano con tutte le radici et adoperano a tingere. [4] Et messer Marco portò di dette semenze a Venetia et seminolle, ma non nacque nulla, et questo perché rechiedono luogo calidissimo. [5] Sono in questo regno huomini c’hanno le code piú lunghe d’un palmo, a modo di cane, ma non sono pilose: et per la maggior parte sono fatti a quel modo. [6] Questi tali huomini habitano fuori delle città ne’ monti. [7] Hanno leoncorni in gran copia, molte cacciagioni di bestie et di uccelli.

16

[0] Del sesto regno di Fanfur, dove cavano farina di arbori. Cap. 16.

[1] Fanfur è regno et ha re da per sé, le cui genti adorano gl’idoli, et chiamansi per il Gran Can, et sono dell’isola sopradetta. [2] Quivi nasce la miglior canfora che trovar si possa, la qual si chiama canfora di Fanfur, et è miglior dell’altra, et dassi per tanto oro a peso. [3] Non hanno formento né altro grano, ma mangiano riso et latte, et vino hanno degli arbori, come di sopra s’è detto nel capitolo di Samara. [4] Oltre di ciò v’è un’altra cosa maravigliosa, cioè che in questa provincia cavano farina di arbori, perché hanno una sorte di arbori grossi et lunghi, alli quali levatali la prima scorza, che è sottile, si trova poi il suo legno grosso intorno intorno per tre dita, et tutta la midolla di dentro è farina come quella del caruol: et sono quegli arbori grossi come potriano abbracciar due huomini. [5] Et mettesi questa farina in mastelli pieni d’acqua, et menasi con un bastone dentro all’acqua: allhora la semola et l’altre immonditie vengono di sopra, et la pura farina va al fondo. [6] Fatto questo si getta via l’acqua, et la farina purgata et mondata che rimane si adopra, et fansi di quella lasagne et diverse vivande di pasta, delle qual ne ha mangiato piú volte il detto messer Marco, et ne portò alcune seco a Venetia, qual è come il pane d’orzo et di quel sapore. [7] Il legno di questo arbore lo somigliano al ferro, perché gettato in acqua si sommerge immediate, et si puol sfendere per dritta linea da un capo all’altro come la canna, perché, quando si ha cavata la farina, il legno, come s’è detto, riman grosso per tre dita: del quale quelle genti fanno lancie piccole et non lunghe, perché se fossero lunghe niuno le potria portare, non che adoperarle, per il troppo gran peso; et le aguzzano da un capo, qual poi abbrucciano, et cosí preparate sono atte a passare cadauna armatura, et molto meglio che se fussero di ferro. [8] Hor habbiamo detto di questo regno, qual è delle parti di questa isola. [9] Degli altri regni che sono nell’altre parti non diremo, perché il detto messer Marco non vi fu, et però, procedendo piú oltra, diciamo d’una piccola isola nominata Nocueran.

17

[0] Dell’isola Nocueran. Cap. 17.

[1] Partendosi dalla Giava et dal regno di Lambri, poi che si ha navigato da circa a centocinquanta miglia verso tramontana, si trovano due isole, una delle quali si chiama Nocueran et l’altra Angaman. [2] Et in questa di Nocueran non è re, et quelle genti sono come bestie, et tutti, cosí maschi come femmine, vanno nudi et non coprono parte alcuna della sua persona; et adorano gl’idoli. [3] Tutti i suoi boschi sono di nobilissimi arbori et di grandissima valuta, et trovansi sandali bianchi et rossi, noci di quelle d’India, garofani, verzino et altre diverse sorti di speciarie. [4] Né vi essendo altre cose da dire, piú oltra procedendo, diremo dell’isola d’Angaman.

18

[0] |53r| Dell’isola di Angaman. Cap. 18.

[1] Angaman è una isola grandissima, che non ha re, le cui genti adorano gl’idoli, et sono come bestie salvatiche, conciosiacosaché mi fu detto che hanno il capo simile a quello de’ cani, et gli occhi et denti. [2] Sono genti crudeli, et tutti quegli huomini che possono prendere gli ammazzano et mangiano, pur che non siano della sua gente. [3] Hanno abondanza di tutte le sorti di specie. [4] Le sue vettovaglie sono risi et latte et carne d’ogni maniera; hanno noci d’India, pomi paradisi, et molti altri frutti diversi dalli nostri.

19

[0] Dell’isola di Zeilan. Cap. 19.

[1] Poi che, partendosi dall’isola di Angaman, s’è navigato da mille miglia per ponente, et alquanto meno verso garbin, si trova l’isola di Zeilan, la qual al presente è la miglior isola che si trovi al mondo della sua qualità, perché gira di circuito da duomila et quattrocento miglia. [2] Et anticamente era maggiore, perché girava a torno a torno ben tremila et seicento miglia, secondo che si trova ne’ mapamondi d’i marinari di quelli mari; ma il vento di tramontana vi soffia con tanto empito che ha corroso parte di quei monti, quali sono cascati et sommersi in mare, et cosí è perso molto del suo territorio: et questa è la causa perché non è cosí grande al presente come fu già per il passato. [3] Questa isola ha un re, che si chiama Sendernaz; le genti adorano gl’idoli, et non danno tributo ad alcuno. [4] Gli huomini et le donne sempre vanno nudi, eccetto che coprono la loro natura con un drappo. [5] Non hanno biade, se non risi et susimani, de’ quali fanno olio. [6] Vivono di latte, risi et carne, et vino degli arbori sopradetti; hanno abondanza del miglior verzino che trovar si possa al mondo. [7] In questa isola nascono buoni et bellissimi rubini, che non nascono in alcuno altro luogo del mondo, et similmente zafiri, topatii, amethisti, granate, et molte altre pietre preciose et buone. [8] Et il re di questa isola vien detto havere il piú bel rubino che giamai sia stà veduto al mondo, lungo un palmo et grosso com’è il braccio d’un huomo, splendente oltra modo, et non ha pur una macchia, che pare che sia un fuogo che arda; et è di tanta valuta che non se potria comprare con danari. [9] Cublai Gran Can mandò ambasciadori a questo re, pregandolo che, s’ei volesse concederli quel rubino, li daria la valuta d’una città; egli rispose che non glielo daria per thesoro del mondo, né lo lascierebbe andar fuori delle sue mani, per essere stato de’ suoi predecessori: et per questa causa il Gran Can non lo poté havere. [10] Gli huomini di questa isola non sono atti all’arme, per essere vili et codardi, et se hanno di bisogno di huomini combattitori trovano gente d’altri luoghi vicini a’ Sarraceni. [11] Et non essendovi altre cose memorabili, procedendo piú oltra narreremo di Malabar.

20

[0] Della provincia di Malabar. Cap. 20.

[1] Partendosi dall’isola di Zeilan, et navigando verso ponente miglia sessanta, si trova la gran provincia di Malabar, la qual non è isola ma terra ferma, et si chiama India Maggior, per essere et la piú nobile et la piú ricca provincia che sia al mondo. [2] Sono in quella quattro re, ma il principale, che è capo della provincia, si chiama Senderbandí. [3] Nel suo regno si pescano le perle, cioè che fra Malabar et l’isola di Zeilan vi è un colfo o vero seno di mare, dove l’acqua non è piú alta di dieci in dodici passa, et in alcuni luoghi duoi passa, et pescansi in questo modo: che molti mercatanti fanno diverse compagnie, et hanno molte navi et barche grandi et piccole, con ancore per potere sorger, et menano seco huomini salariati, che sanno andare nel fondo a pigliar le ostriche, nelle quali sono appiccate le perle, et le portano di sopra in un sacchetto di rete ligato al corpo, et poi ritornano di nuovo, et quando non possono sostenire piú il fiato vengono suso, et stati un poco se ne descendono, et cosí fanno tutto il giorno. [4] Et pigliansi in grandissima quantità, delle quali si fornisce quasi tutto il mondo, per essere la maggior parte di quelle che si pigliano in questo colfo tonde et lustri. [5] Il luogo dove si trovano in maggior quantità dette ostriche si chiama Betala, che è sopra la terra ferma, et di lí vanno al dritto per sessanta miglia per mezzogiorno. [6] Et essendovi in questo colfo pesci grandi che uccideriano i pescatori, però i mercatanti conducono alcuni incantatori di una sorte di Bramini, quali per arte diabolica sanno constringere et stupefare i pesci, che non li fanno male; et perché pescano il giorno, però la sera desfanno l’incanto, temendo che alcuno nascosamente, senza licenza d’i mercatanti, non discenda la notte a pigliar le ostriche: i ladri, che temono detti pesci, non osano andarvi di notte. [7] Questi incantatori sono gran maestri di saper incantare tutti gli animali, et ancho gli uccelli. [8] Questa pescagione |53v| comincia per tutto il mese di aprile fino a mezzo maggio, la qual comprano dal re, et li danno solamente la decima (e ne cava grandissima utilità), et alli incantatori la vigesima. [9] Finito detto tempo piú dette ostriche non si trovano, ma fanno passaggio ad un altro luogo, distante da questo colfo trecento et piú miglia, dove si trovano per il mese di settembre fino a mezzo ottobrio. [10] Di queste perle, oltre la decima che danno i mercatanti, il re vuol tutte quelle che sono grosse et tonde, et le paga cortesemente, sí che tutti gliele portano volentieri. [11] Il popolo di questa provincia in ogni tempo va nudo, eccetto che (come è detto) si coprono le parti vergognose con un drappo, et il re similmente va come gli altri: vero è ch’ei porta alcune cose per honorificentia regale, cioè a torno il collo una collana piena di pietre preciose, zafiri, smeraldi et rubini, che vagliono un gran thesoro; li pende al collo anchor un cordone di seda sottile che discende fin al petto, nel quale sono cento et quattro perlegrosse et belle et rubini, che sono di grande valuta. [12] Et la causa è questa, perché gli conviene ogni giorno dir cento et quattro orationi all’honor de’ suoi idoli, perché cosí comanda la lor legge et cosí osservarono i re suoi predecessori. [13] La oratione che dicono ogni giorno sono queste parole: «Pacauca, Pacauca, Pacauca», et le dicono cento et quattro volte. [14] Item porta alle braccia in tre luoghi braccialetti d’oro ornati di perle et gioie, et alle gambe in tre luoghi centole d’oro, tutte coperte di perle et gioie, et sopra i diti d’i piedi et delle mani, che è cosa maravigliosa da vedere, né che stimare si potesse la valuta: ma a questo re è facile, nascendo tutte le gioie et perle nel suo regno. [15] Questo re ha ben mille concubine et mogli, perché, subito ch’ei vede una bella donna, la vuol per sé: et per questo tolse la moglie che era di suo fratello, qual, per essere huomo prudente et savio, sostenne la cosa in pace et non fece altro scandalo, anchor che molte volte fusse in procinto di farli guerra; ma sua madre li mostrava le mammelle, dicendogli: «Se farete scandalo intra voi, mi taglierò le mammelle che vi hanno nudrito», et cosí rimaneva la questione. [16] Ha anchora questo re molti cavallieri et gentilhuomini, che si chiamano fedeli del re in questo mondo et nell’altro. [17] Questi servono al re nella corte, et cavalcano con lui standoli sempre appresso, et come va il re questi l’accompagnano, et hanno gran dominio in tutto il regno. [18] Quando el muore, si abbruccia il suo corpo: allhora tutti questi suoi fedeli si gettano volontariamente lor medemi nel fuogo et si abbrucciano, per causa d’accompagnarlo nell’altro mondo. [19] In questo regno è anchora tal consuetudine, che quando muore il re i suoi figliuoli che succedono non tocchano il thesoro di quello, perché dicono che saria sua vergogna che, succedendo in tutto il regno, lui fosse cosí vile et da poco che ’l non se ne sapesse acquistare un altro simile: et però è opinione che si conservi infiniti thesori nel palazzo del re, per memoria degli altri passati. [20] In questo reame non nascono cavalli, et per questa causa il re di Malabar et gli altri quattro re suoi fratelli consumano et spendono ogni anno molti danari in quelli, perché ne comprano dalli mercatanti di Ormus, Diufar, Pecher et Adem, et di altre provincie, che glieli conducono: et si fanno ricchi, perché gliene vendono di do et cinquemila per cinquecento sazzi d’oro l’uno, che vagliono cento marche d’argento; et in capo dell’anno non ne rimangono vivi trecento, perché non hanno chi li sappino governare, né mariscalchi che li sappino medicare, et bisogna che ogni anno li rinovino. [21] Ma io penso che l’aere di questa provincia non sia conforme alla natura d’i cavalli, perché ivi non nascono, et però non si possono conservare. [22] Li danno da mangiare carne cotta con risi, et molti altri cibi cotti, perché non vi nasce altra sorte di biave che risi. [23] Se una cavalla grande sarà pregna di qualche bel cavallo, non però partorisce se non un poledro piccolo, mal fatto et con li piedi storti, et che non è buono per cavalcare. [24] Si osserva in detto regno questa altra consuetudine, che quando alcuno ha commesso qualche delitto, per il quale si giudichi ch’ei meriti la morte, et il signore lo voglia far morire, allhora il condannato dice ch’egli si vuole uccidere ad honore et riverentia di tal idolo, et immediate tutti i suoi parenti et amici lo pongono sopra una cathedra, con dodici coltelli ben ammolati et taglienti, et portanlo per la città esclamando: «Questo valent’uomo si va ad ammazzar se medesimo per amor di tal idolo». [25] Et giunti al luogo dove si dee far giustizia, quel che dee morire piglia due coltelli et grida in alta voce: «Io m’uccido per amor di tal idolo», et subito in un colpo si darà due ferite nelle cosse, et dipoi due nelle braccia, due |54r| nel ventre et due nel petto, et cosí ficca tutti i coltelli nella sua persona, gridando ad ogni colpo: «Io mi uccido per amor di tal idolo». [26] Et poi che s’ha fitti tutti i coltelli nella vita, l’ultimo si ficca nel cuore, et subito muore. [27] Allhora i suoi parenti con grande allegrezza abbrucciano quel corpo, et la moglie immediate si getta nel fuogo, lasciandosi abbrucciare per amor del marito: et le donne che fanno questo sono molto laudate dall’altre genti, et quelle che non lo fanno sono vituperate et biasimate. [28] Questi del regno adorano gl’idoli, et per la maggior parte adorano buoi, perché dicono il bue è cosa santa, et niuno mangierebbe delle carni del bue per alcuna causa del mondo. [29] Ma vi è una sorte d’huomini, che si chiamano “gavi”, i quali, benché mangino carne di bue, non però ardiscono di ucciderli, ma quando alcun bue muore di propria morte, o vero altrimenti, essi gavi ne mangiano, et tutti imbrattano le loro case de stercho de’ buoi. [30] Hanno queste genti per costume di sedere in terra sopra tapedi, et se sono dimandati perché ciò fanno, dicono che ’l sedere sopra la terra è cosa molto honorata, perché essendo noi di terra ritorneremo in terra, et niuno potrebbe mai tanto honorare la terra che fosse bastevole, et però non si dee dispregiarla. [31] Et questi gavi et tutti della sua progenie sono di quelli, i predecessori de’ quali ammazzorono San Tommaso apostolo, et niuno delli detti potria entrare nel luogo dove è il corpo del beato apostolo, anchor che vi fosse portato per dieci huomini, perché detto luogo non riceve alcuno di loro, per la virtú di quel corpo santo. [32] In questo regno non nasce alcuna biada, se non risi et susimani. [33] Queste genti vanno alla battaglia con lancie et scudi, et sono nude, et sono genti vili et da poco, senza alcuna prattica di guerra. [34] Non ammazzano bestie alcune o vero animali, ma quando vogliono mangiar carne di montoni o altre bestie o vero uccelli, le fanno uccidere da’ Sarraceni et da altre genti che non osservano i costumi et leggi loro. [35] Si lavano, cosí huomini come donne, due volte il giorno in acqua tutto il corpo, cioè la mattina et la sera, altrimenti non mangiariano né beveriano, se prima non fussero lavati: et quello che non si lavasse due volte il giorno saria tenuto come heretico. [36] Et è da sapere che nel suo mangiare adoperano solamente la mano destra, né toccariano cibo alcuno con la mano sinistra, et tutte le cose monde et belle operano et toccano con la mano destra, perché l’officio della mano sinistra è solamente circa le cose necessarie brutte et immonde, come saria far nette le parti vergognose et altre cose simili a queste. [37] Item bevono solamente con boccali, et ciascuno col suo, né alcuno beveria con il boccale d’un altro, et quando bevono non si mettono il boccale alla bocca, ma lo tengono elevato in alto et gettansi il vino in bocca, né toccariano il boccale con la bocca per alcuno modo, né dariano bere con quei boccali ad alcun forestiere; ma, se il forestiero non haverà vaso proprio da bere, essi gli gettano del vino intra le mani et egli berà con quelle, adoperando le mani in luogo d’una tazza. [38] In questo regno si fa grandissima et diligente giustitia di cadauno maleficio; et de’ debiti si osserva tal ordine appresso di loro: se alcun debitore sarà piú volte richiesto dal suo creditore, et ei vada con promissioni differendo di giorno in giorno, et il creditore lo possa toccare una volta, talmente ch’ei li possa designare un circolo a torno, il debitore non uscirà fuor di quel circolo fin che non harà sodisfatto al creditore, o vero gli darà una cautione che sarà sodisfatto; altramente, uscendo fuori del circolo, come trasgressore della ragione et giustitia sarà punito col supplicio della morte. [39] Et vidde il sopradetto messer Marco nel suo ritorno a casa, essendo nel detto regno, che, dovendo dare il re ad un mercatante forestiero certa somma di denari, et essendo piú volte stà richiesto, lo menava con parole alla lunga; un giorno, cavalcando per la terra il re, et il mercatante trovata l’opportunità, li fece un circolo a torno, circuendo ancho il cavallo: il che vedendo, il re non volse con il cavallo andar piú oltra, né de lí si mosse fin che ’l mercatante non fu sodisfatto. [40] La qual cosa veduta dalle genti circonstanti, molto si maravigliorono, dicendo che giustissimo era il re, havendo ubidito alla giustitia. [41] Detti popoli si guardano grandemente da bere vino fatto de uva, et quello che ne bee non si riceve per testimonio, né quello che naviga per mare, perché dicono che chi naviga per mare è disperato, et però non lo ricevono in testimonio. [42] Non reputano che la lussuria sia peccato. [43] Et vi è cosí gran caldo che gli è una cosa mirabile, et però vanno nudi; et non hanno pioggia se non solamente del mese di giugno, luglio et agosto, et se ’l non fusse quest’acqua, che |54v| piove questi tre mesi, che dà refrigerio all’aria, non si potria vivere. [44] Ivi sono anchora molti savii in una scientia che si chiama fisionomia, la quale insegna a conoscere la proprietà et qualità degli huomini che sono buoni o cattivi: et questo conoscono subito che veggono l’huomo et la donna. [45] Conoscono ancho quel che significa incontrandosi in uccelli o bestie, et danno mente al volare degli uccelli piú di tutti gli huomini del mondo, et preveggono il bene et male. [46] Item per cadauno giorno della settimana hanno una hora infelice, qual chiamano choiach, come il giorno del lunedí l’hora di mezza terza, il giorno del martedí l’hora di terza, il giorno di mercoledí l’hora di nona, et cosí di tutti i giorni per tutto l’anno, li quali hanno descritti et determinati ne’ suoi libri; et conoscono l’hore del giorno al conto de’ piedi che fa l’ombra dell’huomo quando sta ritto, et si guardano in tal hore di far mercadi o altre facende di mercantie, perché dicono che li vengono male. [47] Item, quando nasce alcun fanciullo o fanciulla in questo regno, subito il padre o la madre fanno metter in scritto il giorno della sua natività et della luna il mese et l’hora: et questo fanno perché esercitano tutti i suoi fatti per astrologia. [48] Et tutti quelli c’hanno figliuoli mascoli, subito che sono in età d’anni tredeci, li licentiano di casa, privandoli del vivere di casa, perché dicono che horamai sono in età di potersi acquistar il vivere, et far mercantie et guadagnare: et a cadauno danno venti o ventiquattro grossi, o vero moneta di tanta valuta. [49] Questi fanciulli non cessano tutto il giorno correre hor qua hor là, comprando una cosa et dipoi vendendola; et al tempo che si pescano le perle corrono alli porti, et comprano dalli pescatori et da altri cinque o sei perle, secondo che possono, et portanli alli mercatanti che stanno nelle case per paura del sole, dicendoli: «A me costano tanto, datemi quello che vi piace di guadagno», et essi li danno qualche cosa di guadagno, oltra il prezzo che sono costate loro. [50] Et cosí si essercitano in molte altre cose, facendosi ottimi et sottilissimi mercatanti, et dapoi portano a casa delle lor madri le cose necessarie, et esse le cocinano et apparecchiano, ma non mangiano cosa alcuna a spese de’ padri loro. [51] Item in questo regno et per tutta l’India tutte le bestie et uccelli sono diversi dalli nostri, eccetto le quaglie, le quali si assomigliano alle nostre; ma tutte l’altre cose sono diverse da quelle che habbiamo noi. [52] Hanno pipistrelli grandi come sono astorri, et gli astorri negri come corbi, et molto maggiori de’ nostri, et volano velocemente et prendono uccelli. [53] Hanno anchora molti idoli ne’ suoi monasterii, di forma di maschio et di femmina, alli quali i padri et le madri offeriscono le figliuole; et quando l’hanno offerte, ogni volta che li monachi di quel monasterio ricercano che le venghino a dar sollazzo agl’idoli, subito vanno, et cantano et suonano faccendo gran festa: et dette donzelle sono in gran quantità et con gran compagnie, et portano molte volte la settimana a mangiare agl’idoli alli quali sono offerte, et dicono che gl’idoli mangiano, et apparecchianli la tavola avanti di loro, con tutte le vettovaglie c’hanno portato, et lascianla apparecchiata per il spatio d’una buona hora, sonando et cantando continuamente et faccendo gran sollazzo, qual dura tanto quanto un gentilhuomo potria disinare a suo commodo. [54] Dicono allhora le donzelle che gli spiriti degl’idoli hanno mangiato ogni cosa, et loro poi si pongono a mangiare atorno gl’idoli, et dipoi ritornano a casa sua. [55] Et la causa perché le fanno venire a fare queste feste è perché dicono i monachi che ’l dio è turbato et adirato con la dea, né si congiungono l’un con l’altro né si parlano, et che, se non faranno pace, tutte le facende loro andranno di male in peggio et non vi daranno la benedittione et gratia sua: et però fanno venir le dette donzelle al modo sopradetto, tutte nude, eccetto che si coprono la natura, et che cantino avanti il dio et la dea. [56] Et hanno opinione quelle genti che ’l dio molte volte si solaccia con quella, et che si congiungano insieme. [57] Gli huomini hanno le loro lettiere di canne leggerissime, et con tale artificio che, quando vi sono dentro et vogliono dormire, si tirano con corde presso al solaro et ivi si fermano. [58] Questo fanno per schifare le tarantole, le quali mordono grandemente, et per schifare i pulici et altri vermenezzi, et per pigliare il vento, per mitigare il gran caldo che regna in quelle bande. [59] La qual cosa non fanno tutti, ma solamente i nobili et grandi, però che gli altri dormono in su le strade. [60] In la provincia detta di Malabar vi è il corpo del glorioso messer San Tommaso apostolo, che ivi sostenne il martirio: et è in una piccola città, alla qual vanno pochi mercatanti, per non |55r| essere luogo a loro proposito; ma vi vanno infiniti christiani et Sarraceni per devozione, perché dicono ch’egli fu gran propheta, et lo chiamano “anania”, cioè “huomo santo”. [61] Et li christiani che vanno a questa devotione togliono della terra di quel luogo dove egli fu ucciso, la qual è rossa, et portanla seco con riverentia, et spesso fanno miracoli, perché, distemperata in acqua, la danno a bere agli ammalati et guariscono di diverse infermità. [62] Et nell’anno del Signore 1288 un gran principe di quella terra, nel tempo che si raccogliono le biade, havea raccolto grandissima quantità di risi, et non havendo case a bastanza dove potesse riponerli, li parve di metterli nelle case della chiesa di San Tommaso, contra volontà delle guardie di quelle, quali pregavano che non dovesse occupare le case dove alloggiavano li peregrini che venivano a visitare il corpo di quel glorioso santo; ma lui, ostinato, glieli fece mettere. [63] Hor la notte seguente questo santo apostolo apparve in visione al principe, tenendo una lancetta in mano, et ponendogliela sopra la gola li disse: «Se non svoderai le case che m’hai occupato, io ti farò malamente morire». [64] Il principe, svegliatosi tutto tremante, immediate fece far quanto gli era stato comandato, et disse publicamente a tutti come l’havea veduto in visione detto apostolo. [65] Et molti altri miracoli tutto il giorno si veggono, per intercessione di questo beato apostolo. [66] I christiani che custodiscono detta chiesa hanno molti arbori che fanno le noci d’India che habbiamo scritto di sopra, quali li danno il vivere, et pagano ad un di questi re fratelli un grosso ogni mese per arbore. [67] Dicono che quel santissimo apostolo fu morto in questo modo, che essendo lui in un romitorio in horatione, vi erano intorno molti pavoni, de’ quali quelle contrade sono tutte ripiene: un idolatro della generatione d’i gavi detti di sopra, passando per ivi né vedendo detto santo, tirò con una saetta ad un pavone, la qual andò a ferire nel costato di quel santissimo apostolo, qual, sentendosi ferito, referendo gratia al nostro Signor Dio rese l’anima a quello. [68] In detta provincia di Malabar gli habitanti sono negri, ma non nascono cosí come essi si fanno con artificio, perché reputano la negrezza per gran beltà, et però ogni giorno ungano li fanciullini tre volte con olio di susimani. [69] Li idolatri di questa provincia fanno le imagini delli suoi idoli tutte nere, et dipingono il diavolo bianco, dicendo che tutti li demoni sono bianchi. [70] Et quelli che adorano il bue, come vanno a combattere, portano seco del pelo del bue salvatico, et li cavallieri legano del detto pelo alle crene del cavallo, tenendolo che il sia di tanta santità et virtú che cadauno che l’ha sopra di sé sia sicuro da ogni pericolo: et per questa causa i peli de’ buoi salvatichi vagliono assai danari in quelle parti.

21

[0] Del regno di Murphili, o vero Monsul. Cap. 21.

[1] Il regno di Murphili si trova quando si parte da Malabar et si va per tramontana cinquecento miglia. [2] Adorano gl’idoli et non danno tributo ad alcuno; vivono di risi, carne, latte, pesce et frutti. [3] Ne’ monti di questo regno si trovano i diamanti, perché quando piove l’acqua descende da quelli con grande impeto et ruina per le rupi et caverne, et poi che è scorsa l’acqua gli huomini li vanno cercando per li fiumi, et ne trovano molti. [4] Et fu detto al prefato messer Marco che la state, ch’è grandissimo caldo et non piove, montano sopra detti monti con gran fatica, et per la moltitudine de’ serpi che si trovano in quelli, et in le sommità vi sono alcune valli circondate da grotte et caverne dove si trovano detti diamanti, et vi pratticano di continuo molte aquile et cigogne bianche, che si cibano di detti serpi. [5] Quelli adunque che vogliono haverne buttano, stando sopra le grotte, molti pezzi di carne in dette valli, et l’aquile et cigogne, vedendo le carni, le vanno a pigliare et portano a mangiar sopra le grotte o vero sommità di monti, dove immediate corrono gli huomini et le discacciano, tolendoli le carni: et spesse fiate trovano attaccati in quelle i diamanti. [6] Et se l’aquile mangiano le carni, vanno al luogo dove dormono la notte, et trovano alle fiate di diamanti nel sterco et immonditie di quelle. [7] In questo regno si fanno i migliori et piú sottili boccascini che si trovino in tutta l’India.

22

[0] Della provincia di Lac o vero Loac et Lar. Cap. 22.

[1] Partendosi dal luogo dove è il corpo del glorioso apostolo San Tommaso, et andando verso ponente, si trova la provincia di Lac. [2] Di qui hanno origine li Bramini, che sono sparsi poi per tutta l’India: questi sono li miglior et piú veridici mercatanti che si trovino, né direbbono mai una bugia per qualunque cosa che dir si potesse, anchor se vi andasse la vita. [3] Si guardano grandemente di rubare et tor la roba d’altrui; son anchora molto casti, perché |55v| si contentano d’una moglie sola. [4] Et se alcuno mercatante forestiero et che non cognosca li costumi della contrada si ricomandi a loro et li dia in salvo le sue mercantie, questi Bramini le custodiscono, vendono et barattanle lealmente, procurando la utilità del forestiero con ogni cura et sollicitudine, non li dimandando alcuna cosa per premio, se per sua gentilezza il mercatante non gliela dona. [5] Mangiano carne et bevono vino; non uccideriano alcun animale, ma lo fanno uccidere da’ Sarraceni. [6] Si conoscono i Bramini per certo segnale che portano, che è un fil grosso di bombaso sopra la spalla, et leganlo sotto il braccio, di modo che quel filo appare avanti il petto et dopo le spalle. [7] Hanno un re qual è molto riccho et potente, et che si diletta di perle et pietre preciose; et quando i mercatanti di Malabar gliene ponno portare qualcuna che sia bella, credendo alla parola del mercatante, li dà due volte tanto quanto la gli costa: però li vengono portate infinite gioie. [8] Sono grandi idolatri, et se dilettano d’indovinare, et massime negli augurii, et se vogliono comprare alcuna cosa, riguardano subito nel sole la sua propria ombra, et faccendo le regole della sua disciplina procedono nella sua mercantia. [9] Sono molto astinenti nel mangiare et vivono lungamente; i suoi denti sono molto buoni, per certa herba che usano a masticare, la qual fa ben digerire et è molto sana alli corpi humani. [10] Sono fra costoro in detta regione alcuni idolatri, quali sono religiosi et si chiamano “tingui”, et a reverentia delli loro idoli fanno una vita asprissima. [11] Vanno nudi et non si coprono parte alcuna del corpo, dicendo che non si vergognano di andare nudi, perché nacquero anchor nudi, et circa le parti vergognose dicono che, non faccendo alcuno peccato con quelle, non si vergognano di mostrarle. [12] Adorano il bue, et ne portano un piccolo di latone o di altro metallo indorato legato in mezzo la fronte. [13] Abbrucciano anchor l’ossa de’ buoi et ne fanno polvere, con la quale fanno una ontione che si ongono il corpo in piú luoghi con gran riverentia; et se incontrano alcuno che li facci buona cera, li mettono in mezzo la fronte un poco di detta polvere. [14] Non uccideriano animale alcuno, né mosche né pulici né pedocchi, perché dicono che hanno anima, né mangiariano di animal alcuno, perché li pareria di commettere gran peccato. [15] Non mangiano alcuna cosa verde, né herbe né radici, fino che non sono secche, perché tutte le cose verdi dicono che hanno anima. [16] Non usano scodelle né taglieri, ma mettono le sue vivande sopra le foglie secche di pomi di Adamo, che si chiamano pomi di paradiso. [17] Quando vogliono alleggerire il ventre vanno al lido del mare, dove in la rena depongono il peso naturale, et subito lo dispergono in qua et là, acciò che ’l non faccia vermini, che poi morirebbono di fame, et loro farebbono grandissimo peccato per la morte di tante anime. [18] Vivono lungamente sani et gagliardi, perché alcuni di loro arrivano fino a cento et cinquanta anni, anchor che dormino sopra la terra: ma si pensa che sia per l’astinentia et castità che servano. [19] Come sono morti abbrucciano i loro corpi.

23

[0] Dell’isola di Zeilan. Cap. 23.

[1] Non voglio restare di scrivere alcune cose che ho lassato di sopra quando ho parlato dell’isola di Zeilan, le quali intesi ritrovandomi in quei paesi quando ritornava a casa. [2] Nell’isola di Zeilam dicono esservi un monte altissimo, cosí dirupato nelle sue rupi et grotte che niuno vi puol ascendere se non in questo modo, che da questo monte pendono molte catene di ferro, talmente ordinate che gli huomini possono per quelle ascendere fino alla sommità, dove dicono esservi il sepolchro di Adamo primo padre. [3] Questo dicono i Sarraceni, ma gl’idolatri dicono che vi è il corpo di Sogomonbarchan, che fu il primo huomo che trovasse gl’idoli, et lo hanno per un huomo santo. [4] Costui fu figliuolo d’un re di quell’isola, et si dette alla vita solitaria, et non voleva né regno né alcuna altra cosa mondana, anchor che ’l padre, con il mezzo di bellissime donzelle, con tutte le delitie che imaginar si possa, si sforzasse di levarlo da questa sua ostinata opinione. [5] Ma non fu mai possibile, di modo che ’l giovane nascosamente si fuggí sopra questo altissimo monte, dove castamente et con somma astinentia finí la sua vita: et tutti gl’idolatri lo pongono per santo. [6] Il padre, desperato, ne hebbe grandissimo dolore, et fece far una imagine a similitudine sua, tutta d’oro et di pietre preciose, et volse che tutti gli huomini di quella isola l’honorassero et adorassero come iddio: et questo fu principio dell’adorare gl’idoli, et gli idolatri hanno questo Sogomonbarchan per il maggior di tutti gli altri, et vengono di molte parti lontane in peregrinaggio a visitare questo monte dove l’è sepolto. [7] Et quivi si conservano anchor d’i suoi capelli, denti |56r| et un suo catino, che mostrano con gran cerimonie. [8] Li Sarraceni dicono che sono di Adam, et vi vanno anchor loro a visitarlo per devotione. [9] Et accadette che nel 1281 il Gran Can intese da’ Sarraceni che erano stati sopra detto monte, come vi si trovano le cose sopradette del nostro padre Adam, per il che li venne tanto desiderio di haverne che ’l fu forzato di mandar ambassadori al detto re di Zeilan a dimandargliene; quali vennero doppo gran cammino et giornate al re, et impetrorono duoi denti massellari, che erano grandi et grossi, et un catino, ch’era di porfido molto bello, et anchora delli capelli. [10] Et inteso il Gran Can come li suoi ambassadori ritornavano con le dette reliquie, li mandò ad incontrare fuori della città da tutto il popolo di Cambalú, et furono condotte alla sua presentia con gran festa et honore. [11] Et havendo parlato di questo monte di Zeilan, ritorniamo al regno di Malabar et alla città di Cael.

24

[0] Della città di Cael. Cap. 24.

[1] Cael è una nobile et gran città, la quale signoreggia Astiar, un di quattro fratelli, re della provincia di Malabar, qual è molto ricco di oro et gioie, et mantiene il suo paese in gran pace; et li mercatanti forestieri vi capitano volentieri, per essere da quel re ben visti et trattati. [2] Tutte le navi che vengono di ponente, Ormus, Chisti, Adem, et di tutta l’Arabia, cariche di mercantie et cavalli, fanno porto in questa città, per essere posta in buon luogo per mercadantare. [3] Ha questo re ben trecento mogli, le quali mantiene con grandissima pompa. [4] Tutte le genti di questa città et ancho di tutta l’India hanno un costume, che di continuo portano in bocca una foglia chiamata “tembul”, per certo habito et delettatione, et vannola masticando, et sputano la spuma che la fa. [5] I gentilhuomini, signori et re hanno dette foglie acconcie con canfora et altre specie odorifere, et etiandio con calcina viva mescolata: et mi fu detto che questo li conservava molto sani. [6] Et se alcuno vuol far ingiuria ad un altro o villaneggiarlo, come l’incontra gli sputa nel viso di quella foglia o spuma, et subito costui corre al re et dice l’ingiuria che gli è stata fatta et ch’el vuol combattere: et il re li dà le armi, che è una spada et rotella, et tutto il popolo vi concorre, et qui combattono fin che un di loro resta morto. [7] Non possono menare di punta, perché gli è prohibito dal re.

25

[0] Del regno di Coulam. Cap. 25.

[1] Coulam è un regno che si trova partendosi dalla provincia di Malabar verso garbin cinquecento miglia. [2] Adorano gl’idoli; vi sono ancho christiani et Giudei, che hanno parlare da per sé. [3] Il re di questo regno non dà tributo ad alcuno. [4] Vi nasce verzino molto buono et pevere in grande abondantia, perché in tutte le foreste et campagne se ne trova. [5] Lo raccolgono nel mese di maggio, giugno et luglio, et gli arbori che lo producono sono domestichi. [6] Hanno anchora endego molto buono et in grande abondantia, qual fanno di herbe alle quali, levateli le radici, pongono in mastelli grandi pieni di acqua, dove le lassano star fin che si putrefanno, et poi vi esprimono fuori il succo; qual posto al sole bolle tanto che si disecca et fassi come una pasta, qual poi si taglia in pezzi, al modo che si vede che viene condotta a noi. [7] Qui è grandissimo caldo in alcuni mesi, che a pena si puol sopportare; pur li mercatanti vi vengono di diverse parti del mondo, come del regno di Mangi et dall’Arabia, per il gran guadagno che trovano delle mercantie che portano dalla loro patria et di quelle che riportano con le loro navi di questo regno. [8] Vi si trovano molte bestie diverse dall’altre del mondo, perché vi sono leoni tutti negri, et pappagalli di piú sorte, alcuni bianchi come neve con li piedi et becco rosso, altri rossi et azzurri et alcuni piccolissimi. [9] Hanno ancho pavoni, piú belli et maggiori delli nostri et di altra forma et statura, et le loro galline sono molto diverse dalle nostre; et il simile è in tutti li frutti che nascono appresso di costoro: la causa dicono che sia per il gran caldo che regna in quelle parti. [10] Fanno vino di un zucchero di palma, quale è molto buono et fa imbriacare piú di quello di uva. [11] Hanno abondantia di tutte le cose necessarie al vivere humano, eccetto che di biave, perché non vi nasce se non riso, ma quello in gran quantità. [12] Hanno molti astrologhi et medici che sanno ben medicare; et tutti, cosí huomini come donne, sono neri et vanno nudi, eccetto che si pongono alcuni belli drappi avanti la natura. [13] Sono molto lussuriosi, et pigliano per mogli le parenti germane, le matrigne (se ’l padre è morto), et le cugnate: et questo si osserva, per quello ch’io intesi, per tutta l’India.

26

[0] |56v| Di Cumari. Cap. 26.

[1] Cumari è una provincia nell’India, dalla quale si vede un poco della stella della nostra tramontana, la quale non si puol vedere dalla isola della Giava fino a questo luogo, dal quale, andando in mare trenta miglia, si vede un cubito di sopra l’acqua. [2] Questa contrada non è molto domestica, ma salvatica, et vi sono bestie di diverse maniere, specialmente simie, di tal sorte fatte et cosí grandi che pareno huomini. [3] Vi sono anchora gatti maimoni, molto differenti in grandezza et piccolezza dagli altri; hanno leoni, leonpardi et lupi cervieri in grandissimo numero.

27

[0] Del regno di Dely. Cap. 27.

[1] Partendosi dalla provincia di Cumari et andando verso ponente per trecento miglia si trova il regno di Dely, che ha proprio re et favella; non dà tributo ad alcuno. [2] Questa provincia non ha porto, ma un fiume grandissimo che ha buone bocche. [3] Gli habitatori adorano gl’idoli. [4] Questo non è potente in moltitudine o vero valore delli suoi popoli, ma è sicuro per la fortezza d’i passi della region, che sono di tal sorte che li nimici non vi possono andare ad assaltare. [5] Vi è abondanza di pevere et gengero che vi nasce, et altre speciarie. [6] Se alcuna nave venisse ad alcuna di queste bocche del detto fiume o vero porto per qualche accidente et non per propria volontà, li togliono tutto quello che hanno in nave di mercantie, dicendo: «Voi volevate andare altrove, et il nostro dio vi ha condutto qui accioché habbiamo le robe vostre». [7] Le navi di Mangi vengono per la estate et si cargano per ventura in otto giorni, et piú tosto che possono si partono, perché non vi è molto buon starvi, per essere la spiaggia tutta di sabbione et molto pericolosa, anchor che le dette navi portino assai ancore di legno, cosí grandi che in ogni gran fortuna ritengono le navi. [8] Vi sono leoni et molte altre bestie feroci et salvatiche.

28

[0] Di Malabar. Cap. 28.

[1] Malabar è un regno grandissimo nell’India Maggiore verso ponente, del quale non voglio restare di dire anchora alcune altre particularità, le cui genti hanno re et lingua propria; non danno tributo ad alcuno. [2] Da questo regno appare la stella della tramontana sopra la terra due braccia. [3] Sono in questo reame et in quello di Guzzerat, qual è poco lontano, molti corsali, i quali vanno in mare ogni anno con piú di cento navilii, et prendono et rubano le navi d’i mercatanti che passano per quei luoghi. [4] Detti corsali menano in mare le lor mogli et figliuoli, et grandi et piccoli, et vi stanno tutta la estate. [5] Et accioché non vi possi passar nave alcuna che non la prendino, si mettono in ordinanza, cioè che un navilio sta sorto con l’ancore per cinque miglia lontano un dall’altro, sí che venti navilii occupano il spatio di cento miglia; et subito che veggono una nave fanno segno con fuogo o con fumo, et cosí tutti si ragunano insieme et pigliano la nave che passa. [6] Non gli offendono nella persona, ma, svalisata la nave, mettono quelli sopra il lido, dicendoli: «Andate a guadagnare dell’altra roba; forsi che passarete di qua di nuovo, dove ne arricchirete». [7] In questa regione v’è grandissima copia di pevere, zenzero et cubebe et noci d’India. [8] Fanno anchora boccassini, i piú belli et piú sottili che si trovino al mondo. [9] Et le navi di Mangi portano del rame per saorna delle navi, et appresso panni d’oro, di seda, veli et oro et argento, et molte sorti di specie che non hanno quelli di Malabar, et queste tal cose contracambiano con le mercantie della detta provincia. [10] Si trovano poi mercatanti che le conducono in Adem, et de lí vengono portate in Alessandria. [11] Et havendo parlato di questo regno di Malabar, diremo di quello di Guzzerati, che è vicino. [12] Et sappiate che, se vossamo parlare di tutte le città d’i regni d’India, saria cosa troppo lunga et tediosa, ma toccheremo solamente quelli delli quali habbiamo avuto qualche informatione.

29

[0] Del regno di Guzzerat. Cap. 29.

[1] Il reame di Guzzerati ha proprio re et propria lingua; è appresso il mare d’India verso occidente. [2] Quivi appare la stella tramontana alta sei braccia. [3] Vi sono in questo reame li maggior corsali che si possino imaginare, perché vanno fuori con li suoi navilii e, come prendono alcuno mercatante, subito li fanno bere un poco di acqua di mare mescolata con tamarindi, che li move il corpo et fa andar da basso: et la causa è questa, perché li mercatanti, vedendo venire i corsali, ingiottono le perle et gioie che hanno per asconderle, et costoro gliele fanno uscir fuori del corpo. |57r| [4] Qui è grande abondanza di zenzeri, pevere et endego; hanno bombaso in gran quantità, perché hanno gli arbori che lo producono, qual sono d’altezza di sei passa, et durano anni venti: ma il bombaso che si cava di quelli cosí vecchi non è buon da filar, ma solamente per coltre, ma quello che fanno fino a dodici anni è perfettissimo per far veli sottili et altre opere. [5] In questo regno si acconciano gran quantità di pelli di becchi, buffali, buoi salvatichi, leoncorni et di molte altre bestie, et se ne acconcia tante che se ne cargano le navi et portansi verso li regni di Arabia. [6] Si fanno in questo regno molte coperte di letto di cuoio rosso et azzurro, sottilmente lavorate et cocite con fil d’oro et d’argento: et sopra quelle li Sarraceni dormono volentieri. [7] Fanno anchora cussini tessuti di oro tirato, con pitture di uccelli et bestie, che sono di gran valuta, perché ve ne sono di quelli che vagliono ben sei marche d’argento l’uno. [8] Qui si lavora meglio di opere da cucire, et piú sottilmente et con maggior artificio, che in tutto il resto del mondo. [9] Hor, procedendo piú oltra, diremo d’un regno detto Canam.

30

[0] Del regno di Canam. Cap. 30.

[1] Canam è un grande et nobil regno verso ponente, et intendasi verso ponente perché allhora messer Marco veniva di ver levante, et secondo il suo cammino si tratta delle terre che lui trova. [2] Questo ha re et non rende tributo ad alcuno; le genti adorano gl’idoli, et hanno lingua da per sé. [3] Quivi non nasce pevere né zenzero, ma incenso in gran quantità, qual non è bianco ma è come nero. [4] Vi vanno molte navi per levare di quello, et di molte altre mercantie che ivi si trovano. [5] Si cavano molte mercantie, et massime di cavalli per tutta l’India, alla qual ne portano gran quantità.

31

[0] Del regno di Cambaia. Cap. 31.

[1] Questo è un gran regno verso ponente, il qual ha re et favella da per sé; non danno tributo ad alcuno; adorano le genti gl’idoli. [2] Et da questo regno si vede la stella della tramontana piú alta, perché quanto piú si va verso maestro tanto meglio la si vede. [3] Si fanno quivi molte mercantie, et vi è endego molto et in grande abondanza; hanno boccassini et bombaso in gran copia. [4] Si traggono di questo regno molti cuoi ben lavorati per altre provincie, et da quelle si riportano per il piú oro, argento, rame et tucia. [5] Et non vi essendo altre cose degne da essere intese, procederò a dir del regno di Servenath.

32

[0] Del regno di Servenath. Cap. 32.

[1] Servenath è un regno verso ponente, le cui genti adorano gl’idoli et hanno re et favella da per sé; non danno tributo ad alcuno; sono buona gente. [2] Vivono delle sue mercantie et arti, vi vanno ben delli mercatanti con le loro robe, et riportano di quelle del regno. [3] Mi fu detto che quelli che servono agl’idoli et tempii sono i piú crudeli et perfidi che habbi il mondo. [4] Hor passaremo ad un regno detto Chesmacoran.

33

[0] Del regno di Chesmacoran. Cap. 33.

[1] Questo è un regno grande, et ha re et favella da sua posta. [2] Alcune di quelle genti adorano gl’idoli, ma la maggior parte sono Sarraceni. [3] Vivono di mercantie et arti, et il suo vivere è riso et formento, carne, latte, che hanno in gran quantità. [4] Quivi vengono molti mercatanti per mare et per terra. [5] Et questa è l’ultima provincia dell’India Maggiore andando verso ponente maestro, perché partendosi da Malabar qui la finisce: della quale India Maggiore habbiamo parlato solamente delle provincie et città che sono sopra il mare, perché a parlare di quelle che sono fra terra saria stata l’opera troppo prolissa. [6] Hor parleremo d’alcune isole, una delle quali si chiama Mascola, l’altra Femmina.

34

[0] Dell’isola Mascola et Femmina. Cap. 34.

[1] Oltra il Chesmacoran a 500 miglia in alto mare verso mezzodí vi sono due isole, l’una vicina all’altra 30 miglia: et in una dimorano gli huomini senza femmine, et si chiama isola Mascolina; nell’altra stanno le femmine senza gli huomini, et si chiama isola Femminina. [2] Quelli che habitano in dette due isole sono una cosa medesima, et sono christiani battezzati. [3] Gli huomini vanno all’isola delle femmine et dimorano con quelle tre mesi continui, cioè marzo, aprile et maggio, et ciascuno habita in casa con la sua moglie, et dapoi ritorna all’isola Mascolina, dove dimorano tutto il resto dell’anno faccendo i suoi mestieri senza femmina alcuna. [4] Le femmine tengono seco i figliuoli fino alli dodici anni, et dapoi li mandano alli loro padri; se l’è femmina la tengono fin che l’è da marito, et poi la maritano negli huomini dell’isola. [5] Et par che quell’aere non patisca che gli huomini continuino a stare appresso le fem|57v|mine, perché i moreriano. [6] Hanno il suo vescovo, qual è sottoposto a quello dell’isola di Soccotera. [7] Gli huomini proveggono al vivere delle loro mogli, perché seminano le biave, et le donne lavorano le terre, et raccogliono il grano et molti altri frutti che nascono di diverse sorti. [8] Vivono di latte, carne, risi et pesci, et sono buoni pescatori, et pigliano infiniti pesci: de’ freschi et salati vendono alli marcatanti che vengono a comprarli, et massime dell’ambra, che qui se ne trova assai.

35

[0] Dell’isola di Soccotera. Cap. 35.

[1] Partendosi da dette isole verso mezzodí, dopo cinquecento miglia si trova l’isola di Soccotera, la quale è molto grande et abondante del vivere. [2] Trovasi per gli habitanti alle rive di questa isola molto ambracano, che vien fuori del ventre delle balene, et per esser gran mercantia s’ingegnano d’andarle a prenderle, con alcuni ferri c’hanno le barbe che, ficcati nella balena, non si possono piú cavare, alli quali è attaccata una corda lunghissima con una bottesella che va sopra il mare, accioché, come la balena è morta, la sappino dove trovare, et la conducono al lido, dove li cavano fuori del ventre l’ambracano et della testa assai botte di olio. [3] Vanno tutti nudi, sí mascoli come femmine, solamente coperti davanti et da drieto, come fanno gli idolatri; et non hanno altre biave se non risi, delli quali vivono, et di carne et latte. [4] Sono christiani battezzati, et hanno uno arcivescovo, che è come signore, qual non è sottoposto al papa di Roma, ma ad un zatolia che dimora in la città di Baldach, che è quello che lo elegge, o vero, se quelli dell’isola lo fanno, lui il conferma. [5] Arrivano a quella isola molti corsali con la roba che hanno guadagnata, la quale questi habitatori comprano, però che dicono che la era d’idolatri et Sarraceni, et la possono tenire licitamente. [6] Vengono quivi tutte le navi che vogliono andare alla provincia di Adem, et di pesci et di ambracano (che ne hanno gran copia) si fanno di gran mercantie. [7] Lavorano qui anchora panni di bombaso di diverse sorti et in quantità, quali vengono levati per i mercatanti. [8] Sono gli habitanti di detta isola i maggiori incantatori et venefici che si possino trovare al mondo, anchor che ’l suo arcivescovo non glielo permetta, et che gli scommunichi et maledisca. [9] Pur non curano cosa alcuna, percioché, se una nave de’ corsali facesse danno ad alcuno di loro, constringono ch’ella non si possi partire se non satisfanno i danneggiati, conciosiacosaché, se ’l vento li fosse prospero et in puppa, loro fariano venire un altro vento che la ritorneria all’isola al suo dispetto. [10] Fanno il mare tranquillo, et quando vogliono fanno venir tempeste, fortune, et molte altre cose maravigliose che non accade a parlarne. [11] Ma diremo dell’isola di Magastar.

36

[0] Della grande isola di Magastar, hora detta di San Lorenzo. Cap. 36.

[1] Partendosi dall’isola di Soccotera, et navigando verso mezzodí et garbino per mille miglia, si trova la grande isola di Magastar, qual è delle maggiori et piú ricche che siano al mondo. [2] Il circuito di questa isola è di tremila miglia; gli habitatori sono Sarraceni et osservano la legge di Macometto. [3] Hanno quattro “siechi”, che vuol dire in nostra lingua “vecchi”, che hanno il dominio dell’isola et quella governano. [4] Vivono questi popoli di mercantie et arti, et sopra le altre vendono infinita quantità di denti d’elefanti, per la moltitudine grande che vi nasce di detti animali: et è cosa incredibile il numero che si cava di questa isola et di quella di Zenzibar. [5] Qui si mangia tutto l’anno per la maggior parte carne di cameli, anchor che ne mangino di tutti gli altri animali, ma de cameli sopra gli altri, per haverla provata che l’è la piú sana et piú saporita carne che si possa trovare in quella regione. [6] Vi sono boschi grandi d’arbori di sandali rossi, et per la gran quantità sono in piccol pretio. [7] Hanno anchora molto ambracan, qual le balene buttano, et il mare lo fa andare al lido et loro lo raccolgono. [8] Prendono ancho lupi cervieri, leoni, leonze, et infiniti altri animali, come cervi, caprioli, daini, et molte cacciagioni di diverse bestie et uccelli diversi dalli nostri. [9] Vanno a questa isola molte navi di diverse provincie con mercantie di varie sorti, con panni d’oro, di seda, et con sede di diverse maniere: et quelle vendono o vero barattano con li mercatanti dell’isola, et cargano poi delle mercantie dell’isola, et sempre fanno gran profitto et guadagno. [10] Non si naviga ad altre isole verso mezzodí, le quali sono in gran moltitudine, se non a questa et a quella di Zenzibar, perché il mare corre con grandissima velocità verso mezzodí, di sorte che non potriano ritornare piú adrieto. [11] Et le navi che vanno da Malabar a questa isola fanno il viaggio in 20 o vero 25 giorni, ma nel ritorno penano tre mesi, tanta è la correntia dell’acque che di continuo cargano verso mezzogiorno. |58r| [12] Dicono quelle genti che a certo tempo dell’anno vengono di verso mezzodí una maravigliosa sorte di uccelli, che chiamano “ruch”, qual è della simiglianza dell’aquila, ma di grandezza incomparabilmente grande: et è di tanta grandezza et possanza che ’l piglia con l’unghie d’i piedi un elefante e, levatolo in alto, lo lascia cadere, qual muore, et poi, montatoli sopra il corpo, si pasce. [13] Quelli che hanno veduto detti uccelli referiscono che, quando aprono l’ali, da una punta all’altra vi sono da sedeci passa di larghezza, et le sue penne sono lunghe ben otto passa, et la grossezza è correspondente a tanta lunghezza. [14] Et messer Marco Polo, credendo che fussero griffoni, che sono dipinti mezzi uccelli et mezzi leoni, interrogò questi che dicevano di haverli veduti, i quali li dissono la forma d’i detti essere tutta di uccello, come saria dir di aquila. [15] Et havendo il Gran Can inteso di simil cose maravigliose, mandò suoi nuntii alla detta isola, sotto pretesto di far relassare un suo servitore, che ivi era stà ritenuto; ma la verità era per investigare la qualità di detta isola, et delle cose maravigliose ch’erano in quella. [16] Costui di ritorno portò (sí come intesi) al Gran Can una penna di detto uccello ruch, la qual li fu affermato che, misurata, fu trovata da nonanta spanne, et che la canna della detta penna volgea duoi palmi, che era cosa maravigliosa a vederla: et il Gran Can ne hebbe un estremo piacere, et fece gran presenti a quello che gliela portò. [17] Li fu portato anchor un dente di cinghiale, che nascono grandissimi in detta isola, come buffali, qual fu pesato et si trovò di quattordeci libre. [18] Vi sono anchor giraffe, asini et altre sorte di animali salvatichi molto diversi dalli nostri. [19] Hor, havendo parlato di quell’isola, parlaremo di quella di Zenzibar.

37

[0] Dell’isola di Zenzibar. Cap. 37.

[1] Dapoi questa di Magastar, si trova quella di Zenzibar, la qual, per quel che se intese, volge a torno duomila miglia. [2] Gli habitatori adorano gl’idoli, hanno favella da sua posta, et non rendono tributo ad alcuno. [3] Hanno il corpo grosso, ma la lunghezza di quello non corrisponde alla grossezza secondo saria conveniente, perché, se la fosse correspondente, pareriano giganti. [4] Sono nondimeno molto forti et robusti, et un solo porta tanto carico quanto fariano quattro di noi altri, et mangiano per cinque. [5] Sono neri et vanno nudi, si coprono la natura con un drappo, et hanno li capelli cosí crespi che a pena con l’acqua si possono distendere, hanno la bocca molto grande, et il naso elevato in suso verso il fronte, le orecchie grandi, et gli occhi grossi et spaventevoli, che pareno demonii infernali. [6] Le femmine similmente sono brutte, la bocca grande, il naso grosso et gli occhi, ma le mani sono fuor di misura grosse, le tette grossissime. [7] Mangiano carne, latte, risi, dattali; non hanno vigne, ma fanno vino di risi con zucchero et di alcune lor delicate specie, ch’è molto buono al gusto et imbriaca come fa quel di uva. [8] Vi nascono in detta isola infiniti elefanti, et d’i denti ne fanno gran mercantia; delli quali elefanti non voglio restare di dire che, quando il maschio vuol giacere con la femmina, cava una fossa in terra quanto conveniente li pare, et in quella distende la femmina con il corpo in suso a modo d’una donna, perché la natura della femmina è molto verso il ventre, et poi il maschio vi monta sopra come fa l’huomo. [9] Hanno delle giraffe, ch’è bel animale a vederlo: il busto suo è assai giusto, le gambe davanti lunghe et alte, quelle da drieto basse, il collo molto lungo, la testa piccola; et è quieto animale; tutta la persona è bianca et vermiglia a rodelle; giungeria alto con la testa passa tre. [10] Hanno montoni molto differenti dalli nostri, perché sono tutti bianchi, eccetto il capo ch’è negro; et cosí sono fatti tutti i cani di detta isola, et cosí l’altre bestie sono dissimili dalle nostre. [11] Vi vengono molte navi con mercantie, quali barattano con quelle della detta isola, et sopra l’altre con li denti di elefanti et con ambracano, che gran copia ne trovano sopra i lidi dell’isola, per esservi in quei mari assai balene. [12] Alcune fiate li signori di questa isola vengono fra loro alla guerra, et gli habitanti sono franchi combattitori et valorosi in battaglia, perché non temono morire. [13] Non hanno cavalli, ma combattono sopra elefanti et cameli, sopra i quali fanno castelli, et in quelli vi stanno quindeci o venti, con spade, lanze et pietre; et a questo modo combattono, et quando vogliono entrare in battaglia danno ‹a› bere del suo vino agli elefanti, perché dicono che quello li fa piú gagliardi et furiosi nel combattere.

38

[0] Della moltitudine dell’isole nel mare d’India. Cap. 38.

[1] Anchor che habbi scritto delle provincie dell’India, non ho però scritto se non delle piú fa|58v|mose et principali, et il simile ho fatto dell’isole, le quali sono in tanta moltitudine ch’alcuno non lo potria credere, perché, come ho inteso dalli marinari et gran pilotti di quelle regioni, et come ho veduto per scrittura da quelli che hanno compassato quel mare d’India, se ne ritrovano da dodicimila et settecento fra le habitate et deserte. [2] Et detta India Maggior comincia da Malabar fino al regno di Chesmacoran, nel quale sono tredici regni grandissimi, et noi ne habbiamo nominati dieci. [3] Et l’India Minor comincia da Ziambi fino a Murfili, nella quale sono otto regni, eccetto quelli dell’isole, che sono in gran quantità. [4] Hora parleremo dell’India Seconda o vero Mezzana, che si chiama Abascia.

39

[0] Dell’India Seconda o vero Mezzana, detta Abascia. Cap. 39.

[1] Abascia è una gran provincia, et si chiama India Mezzana o vero Seconda. [2] Il maggior re di quella è christiano; gli altri re sono sei, cioè tre christiani et tre sarraceni, sudditi pure al sopradetto. [3] Mi fu detto che li christiani, per essere cognosciuti, li fanno tre segnali, cioè un in fronte et un per gota: et sono fatti con ferro caldo, et dopo il battesmo d’acqua questo è il secondo con fuogo. [4] Li Sarraceni ne hanno un solo, cioè nel fronte fino a mezzo il naso; et perché vi sono assai Giudei, anchor loro sono segnati con duoi, cioè un per gotta. [5] Il maggior re christiano sta nel mezzo di detta provincia, li re sarraceni hanno i suoi reami verso la provincia di Adem. [6] Il venire di detti popoli alla fede christiana fu in questo modo, che, havendo il glorioso apostolo San Tommaso predicato nel regno di Nubia et fattolo christiano, venne poi in Abascia, dove con le prediche et miracoli fece il simile. [7] Poi andò ad habitare nel regno di Malabar, dove dapoi, convertitte infinite genti, come habbiamo detto, fu coronato di martirio, et ivi sta sepolto. [8] Sono questi popoli abisscini molto valenti nell’armi et gran guerrieri, perché di continuo combattono con il soldano di Adem et con li popoli di Nubia et con molti altri che sono nelli loro confini; et per il continuo essercitarsi sono reputati i miglior huomini di guerra di tutte le provincie dell’India. [9] Hor nel 1288, sí come mi fu narrato, accadette che questo gran signor d’i Abisscini havea deliberato di andare a visitare il Sepolchro di Christo in Hierusalem in persona, perché ogni anno ve ne vanno infiniti di detti popoli a questa devotione, ma fu disconfortato da tutti i suoi baroni di non farlo, per il pericolo grande che vi era, dovendo passar per tanti luoghi et terre di Sarraceni suoi inimici. [10] Et però deliberò di mandarvi un episcopo, ch’era reputato huomo di buona et santa vita, quale andatovi et fatte le sue orationi in Hierusalem, et offerte che gli havea ordinato il re, nel ritorno capitò in la città di Adem, dove il soldano di quella lo fece venire alla sua presenza, et qui con minaccie lo voleva constringere a farsi macomettano. [11] Ma lui stando constante et ostinato di non volere lassare la fede christiana, il soldano lo fece circuncidere, in dispregio del re d’i Abisscini, et lo licentiò. [12] Costui tornato et narrato al suo signore il dispregio et villania che li era stà fatto, subito comandò che ’l suo essercito si mettesse ad ordine, et con quello andò a destruttione et ruina del soldano di Adem; qual, intesa la venuta di questo re grande d’i Abisscini, fece venire in suo aiuto duoi re gran sarraceni suoi vicini, con infinita gente da guerra. [13] Ma, azzuffatosi insieme, il re d’i Abisscini fu vincitore et prese la città di Adem et li dette il guasto, per vendetta del dispregio ch’era stà fatto al suo episcopo. [14] La gente di questo reame d’i Abisscini vive di formento, risi, carne, latte, et fanno olio di susimani, et hanno abondanza di ogni sorte di vettovaglie. [15] Hanno elefanti, leoni, giraffe et altri animali di diverse maniere, et similmente uccelli et galline molto diverse, et altri infiniti animali, cioè simie, gatti mamoni, che pareno huomini. [16] Et è provincia molto ricchissima di oro, et qui se ne trova assai, et li mercatanti vi vanno volentieri con le loro mercantie, perché riportano gran guadagno. [17] Hor parleremo della provincia di Adem.

40

[0] Di Adem provincia. Cap. 40.

[1] La provincia di Adem ha un re, qual chiamano soldan; gli habitatori sono tutti Sarraceni, et odiano infinitamente li christiani. [2] In questa provincia vi sono molte città et castella, et vi è un bellissimo porto, dove arrivano tutte le navi che vengono d’India con speciarie. [3] Li mercatanti che le comprano per condur in Alessandria le cavano delle navi et mettono in altre navi piú piccole, con le quali attraversano un colfo di mare per venti giornate, o piú o manco, secondo il tempo che fa; et giunti in un porto le caricano sopra cameli et fannole portare per terra per trenta giornate fino al fiume Nilo, dove le cargano in navilii |59r| piccoli, chiamate “zerme”, et con quelle vengono a seconda del fiume fino al Cairo, et de lí per una fossa fatta a mano detta “calizene” fino in Alessandria: et questa è la via piú facile et piú curta che possino far i mercatanti che di Adem vogliono condur le speciarie d’India in Alessandria. [4] Similmente li mercatanti in questo porto di Adem caricano infiniti cavalli di Arabia, et li conducono per tutti li regni et isole d’India, dove cavano grandissimo pretio o guadagno. [5] Et il soldan di Adem è ricchissimo di thesoro, per la grandissima utilità che trazze di dretti delle mercantie che vengono d’India, et similmente di quelle che si cavan del suo porto per India, perché questa è la maggior scala che sia in tutte quelle regioni per contrattare mercantie, et ognun vi concorre con le sue navi. [6] Et nel 1200, che ’l soldan di Babilonia andò la prima volta col suo essercito sopra la città di Acre et la prese, mi fu detto che questo di Adem vi mandò da trentamila cavalli et quarantamila cameli, per l’odio grande che portava a’ christiani. [7] Hor parleremo della città di Escier.

41

[0] Della città di Escier. Cap. 41.

[1] Il signor di questa città è macomettano, et mantiene la sua città con gran giustitia, è sottoposto al soldan di Adem, et è lontana da Adem da quaranta miglia verso sirocco. [2] Ha molte città et castella sotto di sé; et questa città ha un buon porto, dove capitano molte navi d’India con mercantie, et de qui traggono assai cavalli buoni et eccellenti, che sono di grande valuta et pretio nell’India. [3] In questa regione nasce grandissima copia d’incenso bianco molto buono, il quale a ghiozzo a ghiozzo scorre giú da alcuni arbori piccoli simili all’albedo. [4] Gli habitatori alcune volte forano o vero tagliano le scorze di quelli, et dai tagli o vero buchi scorrono fuori ghiozze dell’incenso; et anchor che non si facciano detti tagli, pur questo liquore non resta di venir fuori dalli detti arbori, per il grandissimo caldo che vi fa, et poi s’indurisce. [5] Sono quivi molti arbori di palme, che fanno buoni dattali in abbondanza; non vi nascono biave, se non risi et miglio, et bisogna che vi siano condutte delle biave di altre regioni. [6] Non hanno vino di uva, ma lo fanno di risi, zucchero et dattali, ch’è delicato a bevere. [7] Hanno montoni piccoli, li quali non hanno l’orecchie dove hanno gli altri, ma vi sono due cornette, et piú a basso verso il naso hanno duoi buchi in luogo dell’orecchie. [8] Sono questi popoli gran pescatori, et qui si trovano infiniti pesci tuoni, che per la grande abondanza se ne haveriano duoi per un grosso venetiano, et ne seccano. [9] Et perché per il gran caldo tutto il paese è come abbrucciato, né vi si trova herba verde, però hanno assuefatto li loro animali, cioè buoi, montoni, cameli et poledri, a mangiar pesci secchi, et gliene danno di continuo, et li mangiano volentieri. [10] Et detti pesci sono d’una sorte piccolini, quali prendono il mese di marzo, aprile et maggio in grandissima quantità, et secchi ripongono in casa, dove per tutto l’anno ne danno a mangiare alle bestie, le quali etiandio ne mangiano de’ freschi come li secchi, anchor che siano piú avezzi alli secchi. [11] Et per la carestia delle biave fanno ancho detti popoli biscotto di pesci grandi, in questo modo, che li tagliano minutamente in pezzi, et con certa farina fanno un liquor che li fa tenire insieme a modo di pasta, et ne formano pani che nell’ardente sole si asciugano et induriscono, et cosí riposti in casa li mangiano tutto l’anno come biscotto. [12] L’incenso che habbiamo detto di sopra è tanto buon mercato che ’l signor lo compra per dieci bisanti il cantaro, et poi lo rivende alli mercatanti, che poi lo danno per 40 bisanti: et questo fa egli ad instantia del soldan di Adem, qual piglia tutto l’incenso che nasce nel suo territorio per il detto pretio, et poi lo rivende al modo detto di sopra, onde ne conseguita grandissimo utile et guadagno. [13] Altro non vi essendo da dire, procederò a parlar della città di Dulfar.

42

[0] Di Dulfar città. Cap. 42.

[1] Dulfar è una città nobile et grande, qual è discosta dalla città di Escier venti miglia verso sirocco. [2] Le sue genti sono macomettane, et il suo signor è sotto il soldan di Adem. [3] Questa città è posta sopra il mare et ha buon porto, dove vengono assai navi; et qui si conducono assai cavalli arabi di altre contrade fra terra, et li mercatanti li levano et conducono in India, per il grandissimo guadagno che ne conseguiscono. [4] Ha sotto di sé città et castella, et nasce nel suo territorio assai incenso, qual vien condotto via per li mercatanti. [5] Et altre cose non vi essendo da dire, diremo del colfo di Calaiati.

43

[0] |59v| Di Calaiati città. Cap. 43.

[1] Calaiati è una città grande, et è nel colfo che medesimamente si dimanda di Calatu; è discosta dal Duifar cinquecento miglia verso sirocco. [2] Osservano la legge di Macometto; è sottoposta al melich di Ormus, et ogni fiata che ’l detto ha guerra con alcuno re, ricorre a questa città, perché è molto forte et posta in forte luogo, di modo che non teme di alcuno. [3] Non ha biave di sorte alcuna, ma le traggono di altri luoghi. [4] Questa città ha un buon porto, et molti mercanti vi vengono dell’India con gran numero de navi, et vendono le lor robe et speciarie benissimo, perché da questa città si portano fra terra a molte città et castella. [5] Si cavano anchora di questo porto per l’India molti cavalli, et ne guadagnano grandemente. [6] Questa città è posta nell’entrata et bocca del detto colfo di Calatu, di modo che niuna nave non puol entrare in quello né uscire senza sua licentia. [7] Et molte volte che ’l melich di questa città, qual ha patti et obligatione col re di Chermain et li è suddito, non lo vuol obedire, perché ’l detto l’impone qualche datio oltra l’ordinario et esso ricusa di pagarlo, subito il re li manda un essercito per constringerli per forza; lui si parte di Ormus et viene a questa città di Calaiati, dove stando non lassa entrare né passare alcuna nave: dal che advien che ’l re di Chermain perde i suoi dretti e, ricevendo gran danno, è necessitato a far patto con il detto melich. [8] Ha un castello molto forte, che tiene a modo di dir serrato il colfo et il mare, perché discopre tutte le navi da ogni tempo che passano. [9] Le genti di questa contrada vivono di dattali et di pesci freschi et salati, perché di ambedue ne hanno di continuo gran copia; ma li gentilhuomini et ricchi vivono di biave, che vengono condutte di altri paesi. [10] Hor, partendosi da Calaiati, si va 300 miglia verso greco et tramontana, et si trova l’isola di Ormus.

44

[0] Di Ormus. Cap. 44.

[1] L’isola di Ormus ha una bella et gran città, posta sopra il mare; ha un “melich”, che è nome di dignità come saria a dire marchese, qual ha molte città et castella sotto il suo dominio. [2] Gli habitanti sono Sarraceni, tutti della legge di Macometto. [3] Vi regna grandissimo caldo, et per questa causa in tutte le case hanno ordinate le sue ventiere, per le qual fanno venire il vento in tutte le sue stantie et camere dove li piace, ch’altramente non potriano vivere. [4] Hor di questo non diremo altro, perché di sopra nel libro habbiamo parlato di Chisi et Chermain. [5] Poi che s’ha scritto a bastanza delle provincie et terre dell’India Maggiore che sono appresso il mare, et di alcune regioni di popoli di Ethiopia, che noi chiamiamo India Mezzana, avanti che facciamo fine al libro, ritornerò a narrare di alcune regioni che sono vicine alla tramontana, delle quali io lassai di dire nei libri di sopra. [6] Pertanto è da sapere che nelle parti vicine alla tramontana vi habitano molti Tartari, che hanno re nominato Caidu, il qual è della stirpe di Cingis Can, et parente prossimo di Cublai Gran Can; non è suddito ad alcuno. [7] Questi Tartari osservano le usanze et modi degli antichi suoi precessori, et vengono reputati veri Tartari. [8] Et questo re col suo popolo non habita in castelli né fortezze né città, ma sta sempre alla campagna in pianure et valli et nelle foreste di quella regione, che sono in grandissima moltitudine. [9] Non hanno biade di sorte alcuna, ma vivono di carne et latte, et in grandissima pace, perché il loro re non procura mai altro (al qual tutti obediscono) se non di conservarli in pace et unione, ch’è il proprio carico di re. [10] Hanno moltitudine grande di cavalli, buoi, pecore et altri animali; qui si trovano orsi tutti bianchi, grandi et lunghi la maggior parte venti palmi. [11] Hanno volpi tutte nere et molto grandi, et asini salvatichi in gran copia, et alcuni animali piccoli, chiamati “rondes”, c’hanno la pelle delicatissima, che appresso di noi si chiamano zebellini; item vari, arcolini, et di quelli che si chiamano sorzi di faraon, et ve n’è tanta copia ch’è cosa incredibile: et questi Tartari li sanno pigliar cosí destramente et con tanta arte che alcuno non può scampar dalle lor mani. [12] Et perché, avanti che si arrivi dove habitano detti Tartari, vi è una pianura lunga il cammino di quattordeci giornate, tutta dishabitata et come un deserto, et la causa è perché vi sono infinite lagune et fontane che la inonda, et per il gran freddo stanno quasi di continuo agghiacciati, eccetto alcuni mesi dell’anno che ’l sole le desfa; vi è tanto fango che piú difficilmente vi si puol passar a quel tempo che quando vi è il ghiaccio: et però detti popoli, accioché li mercatanti possino andar a comprar le lor pelli, ch’è la sola mercantia che si trovi appresso di loro, s’hanno ingegnato di far che questo deserto si possa passare, in questo modo, che in capo di ogni giornata vi hanno fabricate case di legname alte da terra, dove commodamente |60r| vi possino star le persone che ricevono i mercatanti, et che poi li conducono la seconda giornata all’altra posta o vero casa; et cosí di posta in posta se ne vanno fino alla fine di detto deserto. [13] Et per esser i ghiacci grandi hanno fatto una sorte di carri, che quelli che habitano appresso di noi sopra monti aspri et inaccessibili li sogliono usare, et si chiamano “tragule”, che sono senza ruote, piani nel fondi, et si vengono alzando dalli capi a modo di un semicirculo, et scorrono per sopra la ghiaccia facilmente. [14] Hanno per condur dette carrette preparata una sorte d’animali simili a’ cani, et quasi che si possono chiamar cani, grandi come asini, fortissimi et usati a tirare, de’ quali ne ligano sotto al carro sei a do a do, et il carrattier li governa, et sopra detto carro non vi sta altro che lui et il mercatante con le dette pelli. [15] Et, camminato che hanno una giornata, mettono giú il carro et li cani, et a questo modo di giorno in giorno mutando carri et cani, et cosí passano detto deserto, conducendo fuori la mercantia di dette pelli, che poi si vendono in tutte le parti nostre.

45

[0] Della regione detta delle Tenebre. Cap. 45.

[1] Nell’ultime parti del reame di questi Tartari, dove si trovano le pelli sopradette, vi è una altra regione che si estende fino nelle estreme parti di settentrione, la qual è chiamata dalla oscurità, perché la maggior parte delli mesi dell’inverno non vi apparisce il sole, et l’aere è tenebroso o al modo che gli è avanti che si faccia l’alba del giorno, che si vede et non si vede. [2] Gli huomini di queste regioni sono belli et grandi, ma molto pallidi; non hanno re né principe alla cui iurisditione siano sottoposti, ma vivono senza costumi et a modo di bestie. [3] Sono d’ingegno grosso et come stupidi. [4] Li Tartari spesse fiate vanno ad assaltare detta regione, rubandoli il bestiame et li beni di quelli, et li vanno nei mesi che hanno questa oscurità, per non esser veduti; et perché non saperiano tornare a casa con la preda, però cavalcano cavalle che habbiano poledri, quali menano seco fino alli confini, et li fanno tenire alle guardie nell’entrare di detta regione; et poi che hanno rubato in quelle tenebre et vogliono ritornare alla regione della luce, lasciano le brene alle cavalle, che le possano andare liberamente in qualunque parte che vogliono, et le cavalle, sentendo la usta dei poledri, se ne vengono al dritto dove li lasciarono: et a questo modo ritornano a casa. [5] Gli habitatori di questa regione delle Tenebre pigliano la estate (che hanno di continuo giorno et luce) gran moltitudine di detti armelini, vari, arcolini, volpi et altri simili animali, che hanno le pelli molto piú delicate et preciose et del maggior valore che non sono quelle di Tartari, quali per questa causa le vanno a rubare. [6] Detti popoli conducono la estate le loro pelli alli paesi vicini, dove si vendono, et ne fanno grandissimo guadagno. [7] Et per quello che mi fu detto ne vengono di dette pelli fino in la provincia di Rossia, della qual parleremo, mettendo fine al nostro libro.

46

[0] Della provincia di Rossia. Cap. 46.

[1] La provincia di Rossia è grandissima et divisa in molte parti, et guarda verso la parte di tramontana, dove si dice essere questa regione delle Tenebre. [2] Li popoli di quella sono christiani, et osservano l’usanza de’ Greci nell’officio della Chiesa. [3] Sono bellissimi huomini, bianchi et grandi, et similmente le loro femmine bianche et grandi, con li capelli biondi et lunghi; et rendono tributo al re d’i Tartari detti di ponente, con il qual confinano nella parte di loro regione che guarda il levante. [4] In questa provincia si trovano abondanza grande di pelli di armelini, arcolini, zibellini, vari, volpi; et cera molta; vi sono anchora molte minere, dove si cava argento in gran quantità. [5] La Rossia è region molto fredda, et mi fu affermato che la si estende fino sopra il mare Oceano, nel qual (come habbiamo detto di sopra) si prendono li girifalchi, falconi pellegrini in gran copia, che vengono portati in diverse regioni et provincie.